Questa missione a Sapporo è l'ultima, lo giuro. Non andrò più ai convegni, tanto non è premiante dal punto di vista accademico. Però mi sono divertito un sacco...
La prima fu a Roma, Codisco, un semplice convegno di dottorandi in scienze cognitive.
[to be continued]
E’ tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell’oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all’intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)
sabato 28 luglio 2012
sabato 14 luglio 2012
Giovanni Salio: Complessità, globalità e ignoranza: fondamenti epistemologici della conoscenza ecologica
Centre
for Studies on Federalism (CSF)
Political
Ecology and Federalism:
A
Multidisciplinary Approach Towards a New Globalization?
Turin, April 27-28, 2006
Giovanni
Salio (Secretary of Italian Peace Research Institute- Civilian Peace
Corps Network and Chairman of Centro Studi Sereno Regis, Turin,
Italy)
Complessità,
globalità e ignoranza: fondamenti epistemologici della conoscenza
ecologica
Controversie, conflitti ambientali, tecnoscienza
La
tecnoscienza è
diventata una
delle fonti
principali di
controversie e
di conflitti
(Daniel Sarewitz:
“How science
makes environmental
controversies worse”,
www.cspo.org/ourlibrary/documents/environ_controv.pdf
).
Si osserva,
da tempo,
che su
problemi sufficientemente
complessi, scienziati,
tecnici ed
esperti sono
sempre in
disaccordo tra
loro. Le
controversie scientifiche
si trasformano
in conflitti
sociali quando
si passa
dal campo
della ricerca
a quello
dell’applicazione,
che coinvolge
la cittadinanza
nel processo
decisionale.
Pur
essendo sempre
esistiti, a
partire dagli
anni ’70
i conflitti
ambientali sono
diventati particolarmente
frequenti sia
nei paesi
ricchi, ad
alta industrializzazione,
sia in
quelli poveri,
ancora prevalentemente
agricoli (si
veda: Joan
Martin Alier,
The
Environementalism
of the
Poor,
Edward Elgar,
Cheltenham 2002.
In rete
è disponibile
la traduzione
dell’interessante
Introduzione,
con il
titolo: L’ambientalismo
dei poveri.
Conflitti
ambientali e
linguaggi di
valutazione,
www.ecologiapolitica.it/web2/200401/articoli/Alier.pdf
). Nel
primo caso,
può succedere
che i
conflitti degenerino
in episodi
di violenza
su scala
locale, solitamente
di intensità
relativamente contenuta.
Nel secondo,
essi si
trasformano sovente
in veri
e propri
conflitti armati
o addirittura
in guerre,
tanto che
si parla
correntemente di
“guerre per
l’acqua”
(Vandana Shiva,
Le guerre
dell’acqua,
Feltrinelli, Milano
2003) ,
“guerre per
il petrolio”
(Ugo Bardi,
La fine
del petrolio,
Editori Riuniti,
Roma 2003;
Benito Li
Vigni, Le
guerre del
petrolio,
Editori Riuniti,
Roma 2004;
Michael Klare,
Blood and
Oil,
Metropolitan Books
2004) e
più in
generale “guerre
per le
risorse” (Michael
Klare, Resource
Wars,
Owl Books
2002; dello
stesso autore:
“Is
Energo-Fascism
in Your
Future? The
Global Energy
Race and
Its Consequences”
(Part 1),
www.truthout.org_2006/011507H.shtml
;“Petro-Power
and the
Nuclear
Renaissance:
Two Faces
of an
Emerging
Energo-Fascism”
(Part 2),
www.truthout.org/docs_2006/printer_o11707G.shtml
dei quali
esiste una
traduzione parziale
con il
titolo “Potere
nero”,
in Internazionale,
n. 679,
9/15 febbraio
2007, pp.22-27).
Ben
presto, questa tipologia di conflitti è diventata oggetto di studi
specifici che hanno prodotto una letteratura vasta e complessa,
animata da controversie teoriche tra diverse scuole di pensiero che
interpretano in modo differente sia le dinamiche causali sia le
modalità di gestione, trasformazione, intervento e mediazione dei
conflitti stessi.
Tobias
Hagmann, ricercatore
presso l’istituto
Swisspeace di
Berna, mette
in evidenza
i limiti
del concetto
di “conflitti
indotti dall’ambiente”
perché in
realtà non
esisterebbe un
“paradigma causale”,
ovvero un
nesso causale
forte, deterministico
tra ambiente
e violenza
intergruppi (Tobias
Hagmann, Confronting
the Concept
of
Environmentally
Induced
Conflict,
(www.peacestudiesjournal.org.uk/docs/Environmental%20conflict%20final%20version%20edited.pdf
). Come
già aveva
osservato nei
suoi studi
pionieristici Ivan
Illich, la
scarsità o
l’abbondanza
di risorse
è una
relazione tra
i gruppi
sociali e
il loro
ecosistema definita
da processi
sociali. Questa
relazione può
essere manipolata
mediante le
politiche imprenditoriali
e l’influenza
esercitata dalle
classi dominanti
per conseguire
fini politici,
che spesso
sono legati
alla appropriazione
illegittima delle
risorse. Hagmann
osserva che
“i conflitti
ambientali si
collocano per
definizione nell’interfaccia
tra le
sfere della
natura e
del sociale”
(ibid,
p. 17)
e propone
quindi di
parlare più
correttamente di
“conflitti sull’uso
delle risorse
naturali”.
Non è
tanto la
scarsità o
il degrado
ambientale che
predispongono al
conflitto violento,
quanto l’uso
delle risorse
che si
iscrive in
una dinamica
di relazioni
che possono
essere cooperative
o conflittuali.
Casi
di studio:
clima ed
energia
Due
delle questioni ambientali più controverse e complesse, strettamente
correlate tra loro, sono relative al cambiamento climatico globale e
alla problematica dell’energia
Per
quanto riguarda il clima, oltre alle difficoltà previsionali
sull’aumento della temperatura, ci troviamo di fronte a una grande
incertezza sugli effetti locali in specifiche regioni. Il sistema
climatico comprende infatti le interazioni tra atmosfera e oceani e
il graduale scioglimento delle calotte polari potrebbe comportare un
drastico e improvviso cambiamento della corrente del Golfo, con
conseguente abbassamento della temperatura nell’America del nord e
nell’Europa del nord.
Sebbene
nessuno neghi
in assoluto
la concausa
antropica del
cambiamento climatico,
alcuni hanno
assunto una
tesi minimalista.
Tra i
sostenitori di
questa posizione
spicca il
contributo di
Bjorn Lomborg
che con
il suo
testo L’ambientalista
scettico
(Mondadori, Milano
2003) ha
suscitato un’accesa
controversia, sulla
quale si
è accumulata
una quantità
sterminata di
materiali. La
tesi di
Lomborg può
essere riassunta
con le
sue stesse
parole: «in
realtà, il
riscaldamento globale
è un
problema limitato,
perché prima
o poi
smetteremo di
usare i
combustibili fossili
[…].
Probabilmente smetteremo
di farlo
verso la
fine del
secolo […].
Forse la
temperatura non
salirà più
di due
o tre
gradi […]
ma questo
aumento […]
riguarderà soprattutto
il Terzo
Mondo […].
A questo
punto la
questione è:
stiamo affrontando
il problema
del riscaldamento
globale nel
modo più
sensato? La
cosa importante
è che
il protocollo
di Kyoto
non fermerà
il riscaldamento
globale. Con
un costo
molto più
basso […]
potremmo ottenere
un risultato
decisamente migliore,
e potremmo
spendere il
resto per
fare qualcosa
di buono
per il
Terzo Mondo»
In
uno studio
commissionato dal
Pentagono e
pubblicato nell’ottobre
2003, con
il titolo
assai significativo
An Abrubt
Climate Change
Scenario And
Its
Implications
for United
States National
Security,
(www.gbn.com/GBNDocumentDisplayServlet.srv?aid=26231&url=/UploadDocumentDisplayServlet.srv?id=28566
)
Peter Schwartz
(particolarmente noto
e apprezzato
come studioso
di scenari
futuri) e
Dong Randall,
che – come
Lomborg – non
sono scienziati
di professione,
lanciano un
appello senza
mezzi termini:
«pensare l’impensabile.
C’è
una prova
fondata per
supporre che
un cambiamento
climatico globale
si verificherà
nel XXI
secolo. Poiché
sinora il
cambiamento è
stato graduale,
e le
proiezioni lo
indicano altrettanto
graduale in
futuro, gli
effetti del
riscaldamento globale
sarebbero potenzialmente
gestibili dalla
maggior parte
dei paesi.
Tuttavia, recenti
ricerche suggeriscono
che c’è
la possibilità
che questo
graduale riscaldamento
globale possa
portare a
un relativamente
improvviso rallentamento
della convezione
termoalina oceanica,
che a
sua volta
potrebbe portare
a condizioni
invernali più
dure, a
una drastica
riduzione della
fertilità del
suolo, a
venti più
intensi in
alcune regioni
che attualmente
forniscono una
quota significativa
della produzione
alimentare mondiale.
Senza una
preparazione adeguata,
il risultato
potrebbe essere
una drastica
caduta della
capacità di
carico dell’ambiente
terrestre». Gli
autori non
si limitano
a lanciare
l’allarme,
ma formulano
anche un
ambizioso piano
denominato Un
progetto per
liberare gli
USA dal
petrolio,
centrato sull’economia
dell’idrogeno.
L’altra
grande controversia verte infatti sulle soluzioni energetiche che
possono consentire di far fronte congiuntamente alla necessità di
ridurre drasticamente (sino all’80%) le emissioni di gas
climalteranti e alla giusta aspirazione di centinaia di milioni o
addirittura di miliardi di persone a vivere in condizioni più eque e
dignitose.
Ancora
una volta
ci troviamo
di fronte
a scenari
previsionali assai
diversi. La
prima grande
incertezza riguarda
l’entità
delle risorse
disponibili di
petrolio la
fonte fossile
per eccellenza
dell’attuale
sistema energetico
mondiale. Le
stime di
studiosi indipendenti,
come C.
J. Campbell
portano a
concludere che
stiamo ormai
entrando nel
picco di
produzione geofisica
del petrolio,
noto come
“picco di
Hubbert” (R.
Heinberg, La
festa è
finita,
Fazi, Roma
2004; suggeriamo
inoltre il
sito www.aspoitalia.net
per un
continuo aggiornamento).
Altre stime,
di fonte
istituzionale o
delle principali
compagnie petrolifere,
sono più
ottimistiche e
spostano di
qualche decennio
la “fine
del petrolio”
a basso
prezzo.
È
la natura
globale di
questi problemi
a rendere
le previsioni
quanto mai
incerte. Gli
studi sui
vari scenari
energetici o
climatici sono
costruiti non
con esperimenti
di laboratorio
e mediante
l’uso
di strumenti
che permettano
di compiere
misure dirette,
ma con
una successione
di passaggi
analitici che
comportano stime
spesso alquanto
arbitrarie. Come
afferma John
Holdren autore
di famosi
contro-rapporti sulla
questione del
nucleare civile,
con una
quantità sufficiente
di tempo
e di
denaro è
sempre possibile
costruire un
rapporto apparentemente
rigoroso, con
il quale
sostenere una
tesi preconcetta.
Per far
ciò è
sufficiente scegliere
nelle stime
i valori
più consoni
alla tesi
che si
vuole dimostrare.
L’esempio
più classico
è la
valutazione del
ciclo di
vita di
un prodotto
mediante la
tecnica nota
come LCA
(life
cycle
assessment;
un buon
manuale è
quello di
Gian
Luca
Baldo,
Massimo
Marino,
Stefano
Rossi,
Analisi del
ciclo di
vita LCA.
Materiali,
prodotti,
processi,
Edizioni Ambiente,
Milano 2005)
applicata alle
situazioni più
disparate per
calcolare il
contenuto energetico
di un
prodotto. Salvo
casi in
cui il
risultato è
particolarmente evidente,
in generale
è difficile
giungere a
una comparazione
rigorosa tra
il contenuto
energetico di
un prodotto
ottenuto mediante
un particolare
ciclo produttivo
e un
altro. L’incertezza
conoscitiva può
essere talmente
elevata da
non consentire
di trarre
conclusioni definitive.
Nel
caso di
macrosistemi che
riguardano l’intero
pianeta siamo
in presenza
di un
modo diverso
di fare
scienza rispetto
a quello
tradizionale sperimentale
di laboratorio.
Come hanno
osservato da
tempo vari
autori, tra
i quali
spicca per
lungimiranza l’analisi
di Gunther
Anders (L’uomo
è antiquato,
2 voll.,
Bollati Boringhieri,
Torino, 1956
e 1980,
riedizione 2003),
è avvenuto
il passaggio
definitivo dal
locale al
globale «Gli
“esperimenti” nucleari
oggi non
sono più
esperimenti […].
Quelli che
vengono chiamati
“esperimenti” sono
porzioni della
nostra realtà,
sono avvenimenti
storici». La
stessa osservazione
è stata
espressa da
altri autori,
in tempi
diversi. Sin
dal 1957,
in un
lavoro apparso
sulla nota
rivista scientifica
«Tellus» (9,
18-27, 1957)
due geofisici,
Roger Revelle
e Hans
Suess, si
servirono di
una espressione
simile a
quella di
Anders per
esprimere i
grandi cambiamenti
prodotti dalla
nostra specie:
«gli uomini
stanno compiendo
un esperimento
di geofisica
su larga
scala, di
un tipo
quale non
avrebbe mai
potuto effettuarsi
in passato,
né potrebbe
essere ripetuto
in avvenire».
E più
recentemente, John
R. McNeill
nel suo
importante contributo
di storia
dell’ambiente
osserva: «il
genere umano
ha sottoposto
la Terra
a un
esperimento non
controllato di
dimensioni gigantesche.
Penso che,
col passare
del tempo,
questo si
rivelerà l’aspetto
più importante
della storia
del XX
secolo: più
della seconda
guerra mondiale,
dell’avvento
del comunismo,
dell’alfabetizzazione
di massa,
della diffusione
della democrazia,
della progressiva
emancipazione delle
donne» (Qualcosa
di nuovo
sotto il
sole,
Einaudi, Torino
2002).
In
sostanza, siamo passati dall’esperimento di laboratorio, che
permetteva di controllare una sezione circoscritta del reale, a
esperimenti compiuti direttamente nel laboratorio-mondo, sull’intero
pianeta, con l’umanità che funge da cavia. Mentre la scienza
tradizionale è nata in laboratorio ed è stata costruita per prove
ed errori, imparando dagli errori stessi che si commettevano, ora ci
troviamo ad avere bisogno di una nuova scienza, che non esiste
ancora, una “scienza postmoderna”. Non abbiamo un secondo pianeta
di riserva sul quale fare gli esperimenti globali che stiamo
compiendo, per vedere cosa succede continuando a immettere gas-serra
nell’atmosfera e ad alterare il flusso di energia che entra nella
biosfera appropriandocene in modo prevalente rispetto alle altre
specie viventi. Già oggi la potenza impiegata dall’intero sistema
industriale mondiale ha raggiunto un valore nient’affatto piccolo,
dell’ordine di un centesimo della potenza del flusso solare.
Nell’ipotesi che tale potenza non venga più fornita da risorse
fossili, ma sia tutta di origine solare, non si potrebbe affatto
ritenere che tale transizione sia da considerarsi ininfluente: essa
innescherebbe una perturbazione non trascurabile.
Convivere
con l’incertezza
Abbiamo, dunque, scenari molto diversi
tra loro, con scuole di pensiero che portano a conclusioni che
sovente sono diametralmente opposte, sostenute da “esperti” che
sono sempre in disaccordo tra loro. Tutto ciò non è nuovo, ma oggi
è ancor più accentuato che in passato e pone serie difficoltà ai
decisori politici e più in generale a chiunque desideri partecipare
responsabilmente ai processi decisionali. Come si fa a decidere in
simili condizioni di incertezza e, peggio ancora, di ignoranza? Come
governare le innovazioni scientifico-tecnologiche in modo tale da
minimizzarne i rischi e massimizzarne i benefici?
Una
classificazione delle
condizioni nelle
quali siamo
chiamati a
decidere è
quella proposta
da David
Collingridge (Il
controllo
sociale della
tecnologia,
Editori Riniti,
Roma 1983)
tra i
primi a
occuparsene, che
definisce decisioni
in condizioni
deterministiche quelle
in cui
siamo in
grado di
prevedere e
calcolare con
certezza gli
esiti di
ciascuna scelta;
decisioni in
condizioni di
rischio quelle
in cui
per almeno
una delle
scelte siamo
in grado
di fare
previsioni probabilistiche;
decisioni in
condizioni di
incertezza quelle
in cui
sono definibili
tutti gli
esiti finali
relativi a
ciascuna decisione,
ma non
si è
in grado
di formulare
una previsione
probabilistica; decisioni
in condizione
di ignoranza
quelle in
cui non
siamo in
grado di
stimare non
solo le
probabilità dei
singoli esiti
finali, ma
neppure tutti
gli esiti
possibili che
si manifestano
come “eventi
inattesi” che
ci colgono
di sorpresa,
impreparati (come
nel caso
dell’impatto
dei CFC
sullo strato
protettivo di
ozono).
Gran
parte delle decisioni sulle questioni più controverse (OGM,
cambiamento climatico, politiche energetiche, nanotecnologie)
rientrano nelle due ultime categorie, quelle più problematiche, da
prendere in condizioni di incertezza e ignoranza.
Paradossi
L’odierna
ricerca scientifica
e tecnologica
genera un
paradosso: man
mano che
procede si
amplia sia
la nostra
conoscenza sia
il campo
dell’ignoranza.
La natura
di questo
paradosso è
stata interpretata
da Silvio
Funtowictz e
Jerry Ravetz
introducendo il
concetto di
“scienza postnormale”
Nel grafico
in figura,
sui due
assi cartesiani
sono riportati,
rispettivamente, in
orizzontale l’incertezza
dei sistemi,
e in
verticale la
posta in
gioco, entrambe
comprese tra
un valore
basso e
uno alto.
Lo schema
permette di
individuare tre
principali situazioni.
La scienza
applicata
corrisponde all’area
definita da
una incertezza
e da
una posta
in gioco
basse. Quando
entrambe queste
variabili hanno
un valore
intermedio, siamo
nell’ambito
della consulenza
professionale.
Infine quando
i valori
diventano alti
entriamo nel
campo della
scienza postnormale
una metodologia
per affrontare
i problemi
STS (scienza,
tecnologia,
società)
in fase
di esplorazione,
che non
esiste ancora
in forma
compiuta, «una
scienza […]
alternativa, ancora
nelle prima
fasi di
sviluppo, che
potrebbe essere
chiamata “precauzionale”[…],
preoccupata degli
effetti nocivi
non intenzionali
del progresso.
Il suo
stile è
“postnormale”,
si trova
nell’interfaccia
controversa tra
scienza e
politica. Le
questioni a
cui si
riferisce sono,
tipicamente, che
i fatti
sono incerti,
i valori
oggetto di
dispute, la
posta in
gioco elevata
e le
decisioni urgenti
[…].
I tradizionali
scopi gemelli
della scienza,
l’avanzamento
della conoscenza
e la
conquista della
natura, sono
insufficienti per
guidare la
ricerca in
questa situazione
postnormale […];
le questioni
sollevate dai
problemi etici,
sociali ed
ecologici possono
essere riassunte
in due
termini: sicurezza
e sostenibilità»
(Jerry Ravetz,
The Post-Normal
Science of
Precaution,
http://www.nusap.net/downloads/articles/pnsprecaution.pdf).
La
scienza applicata è essenzialmente scienza di laboratorio, nella
quale si è accumulata molta esperienza e si opera in condizioni di
rischio controllato e prevedibile sulla base di una probabilità
statistica. Aumentando la posta in gioco e la scala del sistema
cresce anche l’incertezza e in questo campo gli scienziati svolgono
spesso il ruolo di consulenti, con il compito di offrire un parere
informato al decisore politico, affinché questi possa assumere le
soluzioni più razionali e responsabili sulle questioni controverse.
Ampliando
ancora la scala, l’incertezza e la posta in gioco, ci si trova a
decidere su questioni che per loro natura sono irriducibilmente
complesse, nelle quali prevalgono condizioni di ignoranza. È questo
il campo della scienza postnormale oggetto di ricerca e attenta
sperimentazione per individuare criteri di gestione delle
controversie scientifiche e dei conflitti sociali che ne derivano.
Di
questi temi
si stanno
occupando anche
altri autori,
non di
formazione scientifica,
tra i
quali spicca
il contributo
del sociologo
tedesco Ulrich
Beck (La
società
globale del
rischio,
Asterios, Trieste
2001), che
ha messo
in evidenza
la condizione
strutturale, intrinseca
alla modernità,
delle nostre
società definite
“società del
rischio
Mentre
in passato
le conoscenze
scientifiche e
tecnologiche hanno
avuto un
ruolo soltanto
progressivo, di
graduale riduzione
di alcuni
rischi e
disagi della
condizione umana,
oggi ci
troviamo di
fronte a
tre principali
paradossi generati
dal successo
della scienza:
«uno: nell’economia
globale della
conoscenza, la
continua accelerazione
dell’innovazione
crea una
sicurezza temporanea
per le
industrie rispetto
alla competizione,
ma non
può garantire
la sicurezza
delle loro
innovazioni nell’ambiente.
Due: di
fronte a
questi possibili
pericoli dell’innovazione,
i governi
perdono la
fiducia del
pubblico quando
cercano di
rassicurarlo sull’assenza
di pericoli
e ne
guadagnano la
fiducia ammettendone
l’esistenza.
Tre: ma
ammettendo il
pericolo e
quindi inibendo
l’innovazione,
i governi
perdono la
sicurezza nella
politica dell’economia
globale della
conoscenza» (Jerry
Ravetz, Paradoxes
and the
Future of
Safety in
the Global
Knowledge
Economy,
http://www.nusap.net/downloads/articles/safetyparadoxes.pdf
Per una
introduzione generale
di questi
temi, si
veda, dello
stesso autore:
The no
nonsense guide
to science,
The New
Internationalist, Oxford
2006).
Questi
tre paradossi formano un circolo vizioso da cui è difficile uscire
applicando gli schemi classici della scienza tradizionale fondata
sulla certezza. Beck sostiene che «i rischi della modernizzazione
sono estremamente difficili da valutare, se non impossibili, e quindi
lo è anche la loro gestione secondo linee scientifiche
tradizionali».
Imparare
dagli errori
Non
sembra esserci altra via, al momento, che quella di imparare dagli
errori procedendo con cautela, lentamente, senza fretta, in modo tale
da rendere tali errori correggibili e le decisioni reversibili.
Christine
von Weizsäcker
ha creato
il termine
error-friendliness
(«buona disposizione
nei confronti
degli errori»).
Il concetto
di error-friendliness
comprende le
idee di
produzione
degli errori,
di tolleranza
agli errori,
e della
cooperazione “amichevole”
di questi
due aspetti
per l’esplorazione
di nuove
opportunità. Ed
è in
questa cooperazione
che si
colloca l’utilizzazione
degli errori,
che è
una caratteristica
assolutamente generale
di tutti
i sistemi
viventi, indipendentemente
dal livello
gerarchico che
si voglia
prendere in
esame. (E.Weizsäcker
e C.Weizsäcker,
Come vivere
con gli
errori? Il
valore
evolutivo degli
errori,
in: M.
Ceruti-E. Laszlo,
a cura
di,
Physis: abitare
la terra,
Feltrinelli, Milano
1988).
Contrariamente
a quanto si sente affermare in vari dibattiti, la correggibilità
comporta la possibilità di tornare indietro, sui propri passi. Con
una metafora, l’umanità si trova nella stessa condizione di un
alpinista che salga lungo una impervia via inesplorata. Il bravo
alpinista, oltre che audace, dev’essere in grado di tornare
indietro, di non restare “incrodato”, come si dice nel gergo,
incapace sia di salire sia di scendere a valle.
Quando
agiamo e decidiamo in condizioni di ignoranza, non siamo in grado di
prevedere il futuro, ma dobbiamo esplorarlo con cautela, passo passo,
pronti a correggere la rotta in caso di errore.
David
Collingridge ha dato significativi contributi per definire cosa si
intende per correggibilità di una decisione: «una decisione è
facile da correggere, o largamente correggibile, quando, se è
sbagliata, l’errore può essere scoperto rapidamente ed
economicamente, e quando l’errore implica solo piccoli costi che
possono essere eliminati rapidamente e con poca spesa». Questa
filosofia della correggibilità e della reversibilità delle
decisioni ha trovato una formulazione più generale nell’odierno
principio di precauzione «ove vi siano minacce di danno serio e
irreversibile, l’assenza di certezze scientifiche non deve servire
come pretesto per posporre l’adozione di misure, anche non a costo
zero, volte a prevenire il degrado ambientale».
Il
principio di
precauzione deriva
dal più
generale principio
di responsabilità
formulato, tra
gli altri,
da Hans
Jonas (Principio
responsabilità,
Einaudi, Torino
1990). Esso
riecheggia il
famoso ragionamento
di Pascal
sull’esistenza
o meno
di Dio.
Se crediamo
in Dio,
conduciamo un’esistenza
morigerata e
timorosa. Qualora,
dopo la
morte, scoprissimo
che Dio
non esiste,
avremmo pagato
un prezzo
per il
nostro errore,
non particolarmente
pesante. Se
invece non
crediamo in
Dio, ci
comportiamo in
maniera dissoluta
e dopo
la morte
scopriamo che
Dio esiste,
l’errore
commesso comporterà
un prezzo
altissimo da
pagare, le
pene dell’inferno
per l’eternità.
Questo stesso
ragionamento può
essere applicato
al cambiamento
climatico globale,
assumendo per
buono lo
scenario peggiore,
come ci
suggeriscono di
fare gli
estensori del
progetto per
il Pentagono,
contrariamente a
quanto sostenuto
da altri
autori, quali
Lomborg.
Una
riflessione analoga
è stata
svolta da
Richard Leajey
e Roger
Lewin a
proposito della
perdita di
biodiversità. Dopo
aver posto
varie domande
sullo stato
della nostra
conoscenza degli
ecosistemi e
aver sistematicamente
risposto con
un laconico
«non sappiamo»,
essi dichiarano:
«il livello
della nostra
ignoranza relativamente
al mondo
naturale dal
quale dipendiamo
è talmente
vasto da
essere frustrante”.
Poi concludono
con un
ragionamento simile
a quello
proposto da
Pascal: “di
fronte alla
nostra ignoranza
sulla frazione
dell’attuale
biodiversità necessaria
per sostenere
un biota
terrestre sano,
è più
responsabile dire:
a)
poiché non
sappiamo se
tutta la
biodiversità sia
indispensabile, possiamo
tranquillamente concludere
che non
lo sia;
oppure: b)
riconosciamo le
complessità del
sistema, e
riteniamo che
la biodiversità
sia tutta
indispensabile? La
risposta è
ovvia, perché
il prezzo
da pagare
nel caso
si segua
il primo
atteggiamento, e
quello, si
riveli errato,
è enorme
[…].
Con la
continua distruzione
della biodiversità,
sulla scia
dello sviluppo
economico, potremmo
finire per
spingere il
mondo della
natura a
un punto
oltrepassato il
quale esso
potrebbe non
essere più
in grado
di sostenere
in primo
luogo se
stesso e,
in ultima
analisi, noi.
Lasciato libero
di agire,
Homo sapiens
potrebbe non
solo essere
la causa
della sesta
estinzione, ma
rischiare anche
di essere
nell’elenco
delle sue
vittime» (Leajey
e Lewin,
La sesta
estinzione,
Bollati Boringhieri,
Torino 1998).
Anche
a proposito
del principio
di precauzione
è sorta
un’aspra
controversia. Da
un lato
esso è
stato assunto
dall’Unione
europea come
criterio ispiratore
della propria
politica ambientale
e sanitaria
e in
Francia si
discute se
includerlo nella
carta costituzionale
(Gilbert Charles,
Qui à
peur du
principe de
précaution?,
L’Express,
29/03/2004,http://www.lexpress.fr/info/sciences/dossier/precaution/dossier.asp).Dall’altra,
alcuni lo
definiscono spregiativamente
“principio di
non sperimentazione
(H. I.
Miller, Contro
il principio
di non
sperimentazione,
in: P.
Donghi, a
cura di,
Il governo
della scienza
Laterza, Bari
2003), e
ne chiedono
esplicitamente
l’abrogazione(http://www.enel.it/magazine/boiler/arretrati/boiler85/html/articoli/focusgiammatteo-galileo.asp
Per una
rassegna:
http://www.fondazionebassetti.org/0due/threads/01precauzione.htm#biodiversita
). In
molti di
questi interventi,
si assiste
a una
curiosa “politicizzazione
della scienza”,
con livelli
argomentativi scadenti,
quasi che
ci si
debba chiedere
se la
scienza è
di “destra
o di
sinistra”.
Sovente si
ignorano studi
ben più
qualificati, come
l’ampio
rapporto dell’European
Environment Agency
(The
Precautionary
Principle in
the 20th
Century. Late
Lessons from
Early Warnings,
Earthscan., London
2002,
http://reports.eea.eu.int/environmental_issue_report_2001_22/en/Issue_Report_No_22.pdf
) che
attraverso l’analisi
di 12
casi di
studio stabilisce
basi sufficientemente
rigorose per
un’azione
capace di
intervenire per
tempo valutando
sia i
rischi dell’azione
sia quelli
dell’inazione
e gli
studi di
chi, come
Mariachiara Tallacchini,
ha contribuito
a introdurre
nella nostra
università gli
studi di
“scienza, tecnologia
e diritto”
(“Principio
di precauzione
e filosofia
pubblica dell’ambiente”,
in: Cosimo
Quarta, a
cura di,
Una nuova
etica per
l’ambiente,
Dedalo, Bari
2006, pp.
95-115). Può
essere interessante
osservare che
persino nell’ambito
della riflessione
sui “diritti
umani” si
sta facendo
strada una
linea di
pensiero che
potremmo definire
precauzionale. Nella
sua riflessione
sull’origine
dei diritti,
Alan Dershowitz,
(Rights
From Wrongs.
Una teoria
laica dell’origine
dei diritti,
Codice, Torino2005)
ai esprime
in favore
di un
approccio “dal
basso verso
l’alto”,
fondato su
un ragionamento
strettamente induttivo
e arriva
a una
conclusione apparentemente
paradossale: il
diritto deriva
dall’errore.
E’ dai
grandi errori
della storia,
come la
Shoah, che
abbiamo appreso
un sistema
basato sulla
difesa di
alcuni diritti
fondamentali.” Ma
occorre che
da questi
“grandi errori”
l’umanità
sappia e
possa imparare.
I più
grandi errori,
come quello
di una
guerra nucleare
generalizzata o
di un
global change
su larga
scala, non
permetterebbero certo
di imparare
e molte
società del
passato sono
collassate proprio
per questa
ragione, come
ci ricorda
Jared Diamond
(Collasso,
Einaudi, Torino
2006).
L’odierna
politica della scienza è dunque caratterizzata da un grado di
complessità senza precedenti e da un insieme di paradossi che
richiedono di procedere con cautela, senza fretta, stabilendo in modo
partecipato gli ordini di priorità attraverso un processo di
dialogo, che Jerry Ravetz descrive in questi termini: «questo è il
mondo “postnormale” della politica della scienza. in cui le
dimostrazioni scientifiche debbono essere integrate da dialoghi […]
nei quali tutte le parti sono consapevoli che i loro specifici punti
di vista e interessi sono solo una parte della storia, e debbono
pertanto essere pronte a imparare l’una dall’altra e negoziare in
buona fede. Questo processo può sembrare paradossale a coloro che
sono stati educati pensando alle scienze naturali come dispensatrici
di verità in cui ogni problema ha una e una sola risposta corretta.
Sarà altrettanto paradossale per quelli che ritengono che la
posizione della loro parte politica abbia il monopolio della ragione
e della moralità. Ma è solo rendendoci conto di tutti questi
paradossi che potremo risolvere gli enigmi della sicurezza
dell’economia globale della conoscenza, sviluppare una politica
critica dell’ignoranza e muoverci verso una nuova creatività sia
nella scienza sia nella capacità di governo».
Quale
futuro?
Per
procedere in
questa analisi,
possiamo cercare
di chiederci
quale sarà
il nostro
futuro, partendo
da alcune
riflessioni del
noto astrofisico
inglese Martin
Rees contenute
nel suo
brillante testo,
Our final
century (2003,
ed.it. Il
secolo finale.
Perché
l’umanità
rischia di
autodistruggersi
nei prossimi
cento anni,
Mondadori, Milano
2005), dove
afferma onestamente:
«qualsiasi previsione
per la
metà del
secolo è
nel regno
delle congetture
e degli
scenari». Tuttavia
non si
astiene dall’esaminare,
con molta
cautela, le
possibili e
molteplici minacce,
di origine
naturale oppure
antropica, che
gravano sul
futuro del
nostro pianeta
e dell’umanità.
Per quelle
di origine
naturale si
può formulare
una probabilità
basata sulla
serie storica
degli eventi,
siano essi
di natura
cosmica (asteroidi,
comete) o
terrestre (vulcani,
terremoti, siccità).
Gli eventi
indotti dall’uomo
(guerre, impatto
economico e
ambientale) sono
maggiormente imprevedibili.
Sommando tra
loro le
probabilità di
questi due
ordini di
eventi, Rees
giunge a
stimare che
l’umanità
abbia una
probabilità complessiva
del 50%
di sopravvivere
al XXI
secolo.
Scenari
Al
fine di orientarci nell’ardua impresa di delineare e valutare
possibili e plausibili scenari futuri, come quello preconizzato da
Rees, possiamo partire da un modello relativamente semplice, proposto
nel 1973 da Barry Commoner, Paul Ehrlich e John Holdren, noto come
modello IPAT o più esplicitamente IMPACT secondo una successiva
versione aggiornata.
Questo
modello è
caratterizzato dalla
relazione funzionale
I =
I (P;
A; T),
che si
limita a
tre variabili
principali. E’
dunque un
modello di
complessità intermedia,
né troppo
semplice né
troppo complesso,
scritto comunemente
nella forma
I =
P ×
A ×
T, dove
l’impatto
I sul
pianeta dipende
dalla popolazione
P,
dallo stile
di vita
A,
ovvero i
consumi pro
capite e
dal fattore
tecnologico T.
Secondo
alcuni importanti
indicatori quali
l’impronta
ecologica (M.
Wackernagel eW.
E. Rees,
L’impronta
ecologica,
Edizioni Ambiente,
Milano 20002000)
e la
PPN (produzione
primaria netta
stimata da
Ehrlich et
al., 1986)
l’impatto
I ha
già superato
i limiti
di sostenibilità
del pianeta
e occorre
pertanto ridurre
l’impatto
I di
almeno il
20%, se
si vuole
rientrare nei
limiti di
sostenibilità ambientale
e sociale
(giustizia sociale,
equa ripartizione
delle risorse).
A tal
fine proponiamo
un esercizio
aritmetico, che
si presta
a molteplici
varianti a
seconda di
quanto si
voglia ridurre
l’impatto
e riequilibrare
la distribuzione
delle risorse,
supponendo di
riuscire a
intervenire su
ciascuna delle
tre variabili
principali.
Popolazione
Dall’inizio del secolo scorso, la
popolazione è cresciuta di un fattore 4 e continuerà a crescere,
anche se meno di quanto si prevedesse anni fa. Le stime più
attendibili prevedono che verso la metà del secolo in corso P si
assesterà intorno ai 9 miliardi, con un aumento del 50% rispetto ai
valori attuali, per iniziare poi una lenta decrescita.
Consumi
Più
difficile è
stimare la
variazione dei
consumi pro
capite che
dipende da
stili di
vita e
orientamenti economici
generali della
società. Piuttosto
che ipotizzare
ciò che
avverrà, possiamo
valutare che
cosa sarebbe
necessario fare
per riportare
I entro
i limiti
di sostenibilità
La questione
dei consumi
è inoltre
differenziata a
seconda delle
aree regionali
e delle
classi sociali.
È non
solo auspicabile,
ma necessaria,
una decrescita
per le
regioni e
fasce più
ricche e
una crescita
per quelle
più povere,
ovvero un
riequilibrio e
una ridistribuzione
dei consumi
e della
ricchezza, in
altri termini
una maggiore
eguaglianza. Tale
riequilibrio potrebbe
essere raggiunto,
almeno parzialmente,
mediante i
seguenti cambiamenti
del fattore
A:
riduzione graduale
del 30-50%
per la
fascia più
ricca della
popolazione mondiale
(20%), raddoppio
per la
fascia intermedia
(60%) e
crescita di
4 volte
per la
fascia più
povera in
assoluto (20%).
Nella
realtà, assistiamo invece alla crescita indiscriminata dei consumi
da parte di una classe di consumatori che ormai non solo comprende la
quasi totalità (80%) della popolazione del mondo industrializzato,
ma si sta allargando anche alle fasce più ricche della popolazione
di altri paesi, in particolare della Cina (240 milioni, pari al 20%)
e dell’India (120 milioni, pari al 10%). Tra il 1960 e il 2000, la
crescita dei consumi privati globali è cresciuta di “oltre quattro
volte, passando da 4800 a 20.000 miliardi di dollari equivalenti”
(Greco, 2004; Worldwatch Institute, 2004).
Si
stanno avverando,
a quanto
sembra, le
previsioni che
gli autori
de I
limiti dello
sviluppo,
hanno riformulato
venti anni
dopo il
loro primo
lavoro (Meadows,
Meadows e
Randers, 1992;
Dennis L.
Meadow, “Evaluating
Past Forecast:
Reflection on
One Critique
of The
Limits to
Growth”,
in: Robert
Costanza, Lisa
J: Graumlich
and Will
Steffen, eds.,
Sustainability or
Collapse. An
Integrated
Historyand
Future
of
People
on
Earth,
MIT
Press,
Cambridge-London
2007).
Lo sottolineano
gli estensori
del progetto
Fattore 4:
«i Meadows
hanno ragione,
nonostante nel
frattempo siano
state scoperte
materie prime
nuove e
nonostante nuove
conoscenze e
modifiche a
vecchi modelli:
i limiti
dello sviluppo
si avvicinano
a un
ritmo preoccupante».
E riassumono
drasticamente: «abbiamo
cinquant’anni
solo, quindi
poco tempo
da perdere»
(Weizsäcker, Lovins
e Lovins,
1998).
In
conclusione, si
può ragionevolmente
affermare che
delle tre
principali variabili,
la popolazione
P sembra
avviata oggi
a essere
sotto controllo,
mentre le
due variabili
critiche sono
A e
T.
Mentre in
passato si
pensava che
la crescita
di A
potesse essere
compensata dai
miglioramenti dell’efficienza
del fattore
T,
«la verità
è che
neppure l’innovazione
tecnologica e
l’efficienza
ambientale dei
sistemi di
produzione riescono
a tener
dietro alla
richiesta di
beni da
parte della
“classe dei
consumatori” ormai
globalizzata» (Greco,
2004).
A
conclusioni totalmente
diverse giunge,
invece, l’analisi
svolta da
William Cline
del Copenhagen
Consensus Project
(www.copenhagenconsensus.org
), diretto
dallo stesso
Lomborg In
tutti gli
scenari descritti
da Cline,
il rapporto
tra costo
di abbattimento
delle emissioni
e benefici
è positivo
e lo
diventa via
via di
più se
si prendono
in considerazione
i casi
più estremi
(Bjorn Lomborg,
Come va
la salute
nel mondo:
miti e
priorità,
in: P.
Donghi, a
cura di,
Il governo
della scienza
Laterza, Bari).
Tecnologia
Per
quanto riguarda
la terza
variabile, il
fattore tecnologico
T,
le incertezze
sono ancora
più accentuate.
C’è
un generale
accordo sulle
possibilità di
migliorare sensibilmente
l’efficienza
dei processi
produttivi in
modo tale
da ridurre
la quantità
di energia
per unità
di prodotto
e di
conseguenza le
emissioni e
l’impatto
ambientaleLe stime
elaborate dai
ricercatori del
Wuppertal Institute
a questo
proposito variano
da un
“fattore 4”
sino a
un “fattore
10” (E.
U. Weizsäcker,
A. B.
Lovins e
L. H.
Lovins,
Fattore
4,
Edizioni Ambiente,
Milano 1998).
In
termini più
generali, qualitativi,
si ha
una gamma
assai vasta
di posizioni.
Una aspettativa
iperottimistica è
quella di
Edward Teller
il quale
sottolinea l’importanza
della crescita
del sapere
e sostiene
che «se
ogni secolo
portasse a
un raddoppio
delle conoscenze
rispetto al
precedente, alla
fine del
prossimo millennio
il sapere
umano sarebbe
aumentato circa
di un
migliaio di
volte rispetto
alle conoscenze
attuali, qualsiasi
cosa possa
significare un’affermazione
di questo
tipo» (E.
Teller, Sull’importanza
della scienza
e dell’etica
– I,
in: AA.
VV., a
cura di,
Scienza ed
etica alle
soglie del
terzo
millenni,o Società
Italiana di
Fisica, Città
di Castello
1993). In
tal caso,
ci si
potrebbe aspettare
che, a
parità di
stile di
vita e
consumi pro
capite,
la variabile
tecnologica T
comporti una
riduzione dell’impatto
I di
almeno un
fattore 100.
Questo atteggiamento
ottimistico è
sostanzialmente condiviso
da coloro
che ritengono
che le
nuove tecnologie,
le cosiddette
high-tech
(biotecnologie robotica
e nanotecnologie),
consentiranno di
utilizzare le
risorse terrestri
mediante nanorobot
capaci di
operare su
scala molecolare
in condizioni
di straordinaria
efficienza.
Di
parere opposto è chi intravede proprio nell’avvento di queste
tecnologie dei potenziali pericoli che metterebbero a repentaglio la
possibilità di sopravvivenza della specie umana. Noti scienziati e
tecnologi come Bill Joye Eric Drexler hanno lanciato l’allarme sui
pericoli di queste nuove tecnologie che nel caso limite potrebbero
comportare la realizzazione di automi autoreplicanti i quali,
sfuggiti al controllo dell’uomo, assumerebbero un comportamento
ecofago, divorando l’ambiente circostante sino a distruggere
l’intera biosfera
Il
dibattito tra
gli opposti
schieramenti si
sta tuttora
svolgendo su
alcune delle
più note
riviste del
settore. In
particolare, Eric
Drexler e
Richard Smalley
hanno difeso
tesi opposte,
portando ciascuno
argomenti specifici
anche se
non conclusivi.
Smalley, premio
Nobel, ha
sostenuto partendo
dalla sua
esperienza di
chimico l’impossibilità
di costruire
macchine autoreplicanti
su scala
molecolare, invocando
tre ostacoli
che richiamano
il diavoletto
di Maxwell
del secondo
principio della
termodinamica senza
riuscire, tuttavia,
a far
cambiare opinione
a Drexler
Sembra tuttavia
ragionevole assumere
che il
fattore tecnologico
possa portare
a un
aumento dell’efficienza
valutabile in
modo cautelativo
tra 4
e 10.
Combinando fra
loro le
variazioni previste
per i
tre fattori
(aumento della
popolazione, ridistribuzione
del fattore
A e
aumento dell’efficienza
T)
si osserva
che è
possibile ridurre
complessivamente l’impatto
I di
un fattore
compreso tra
3 e
4 riconducendolo
entro i
limiti generali
di sostenibilità.
Questo grossolano
esercizio di
“aritmetica della
sostenibilità” induce
a una
cauta speranza,
purché si
agisca con
tempestività in
tutte e
tre le
direzioni principali
(P. Greco,
A. P.
Salimbeni, Lo
sviluppo
insostenibile,
Mondadori, Milano
2003).
Progettare la transizione: cambiamento di paradigma e di scala
Come
abbiamo visto
anche dall’esercizio
precedente, la
questione ambientale
ci pone
di fronte
a interrogativi
che non
possiamo aggirare
con sotterfugi
e ambiguità.
È l’intero
stato delle
nostre conoscenze
scientifiche, ecologiche,
economiche, etiche
e politiche
che deve
essere sottoposto
a una
profonda revisione.
Siamo in
presenza di
quello che
gli studiosi
dei sistemi
chiamano una
biforcazione. Ma
quale strada
imboccare? Oltre
all’incertezza
e all’ignoranza
delle nostre
conoscenze scientifiche,
ci troviamo
anche in
uno stato
di ignoranza
persino più
grave e
clamoroso per
quanto riguarda
i principi
etici e
i sistemi
economici e
politici: quali
sono quelli
che potranno
consentirci un
più efficace
governo della
questione ambientale?
Possiamo utilizzare
gli stessi
criteri che
abbiamo individuato
per l’analisi
dello stato
della conoscenza
scientifica per
dirimere le
controversie e
i conflitti
di natura
sociale, economica
e politica
che nascono
intorno alle
problematiche ambientali?
Le
variabili che compaiono nel modello IPAT sono in misura maggiore o
minore connesse con i modelli di sviluppo, i principi etici e le
teorie economiche dominanti, che sono stati ideati e si sono imposti
nel corso del tempo senza tener nel giusto conto i vincoli della
biosfera È come se il mondo della cultura accademica fosse scisso
tra ecologi ed economisti. Gli uni studiano il sistema della biosfera
e i vincoli che essa pone all’attività umana. Gli altri continuano
a credere nella possibilità di agire senza vincoli, al di fuori di
qualsiasi limite.
Questa
scissione nella
nostra conoscenza
dei sistemi
sociali e
ambientali ha
portato due
noti fautori
di queste
tesi contrapposte,
Paul Ehrlich
e Julian
Simon, ecologo
il primo
ed economista
il secondo,
a confrontarsi
in una
famosa “scommessa”.
Ehrlich prevedeva
che, di
lì a
qualche anno,
si sarebbe
verificato un
aumento del
prezzo di
alcuni metalli,
mentre Simon
sosteneva il
contrario. Allo
scadere della
previsione, nel
1990, Ehrlich,
perdente, pagò
la somma
pattuita nella
scommessa. Ma
la storia
non finisce
lì. Ehrlich
individuò «quindici
voci su
cui scommettere,
confrontando gli
andamenti del
1994 con
quelli del
2004. Ehrlich
prevedeva […]
che sarebbero
aumentati la
CO2
e l’ossido
di azoto,
l’ozono
inquinante nella
bassa atmosfera,
l’anidride
solforosa emessa
dai paesi
asiatici in
via di
industrializzazione,
l’erosione
dei terreni
coltivabili, i
morti per
AIDS e
la distanza
di reddito
tra il
10% più
ricco e
il 10%
più povero
dell’umanità
[…].
Questa volta
tuttavia Simon
rifiutò la
sfida» (Franco
Carlini, Scommesse
sul pianeta
inquinato,
Il Manifesto,
5 ottobre
2003). Gli
ecologi pensano
che si
debbano valutare
le condizioni
del contesto
ambientale, mentre
gli economisti
sono fiduciosi
nella possibilità
che il
progresso risolverà
tutto. Ma
possiamo permetterci
di scommettere
sul futuro
del pianeta,
oppure dobbiamo
seguire un
processo decisionale
più razionale
e meno
rischioso per
tutti?
Si
possono individuare
quattro principali
scuole di
pensiero economico
rispetto alla
questione ambientale,
a seconda
che siano
centrate su
una dimensione
tecnocentrica/antropocentrica,
oppure
ecocentrica/biocentrica, e
che a
loro volta
possono assumere
una posizione
estrema oppure
moderata: tecnocentrismo
antropocentrismo
estremo –
fiducia nel
progresso che
risolverà ogni
problema, nella
crescita economica
illimitata e
nell’innovazione
high-tech
tecnocentrismo/antropocentrismo
moderato:
introduzione del
concetto di
sviluppo sostenibile
considerato compatibile
con una
crescita sostenibile,
regolata da
politiche di
governance globale
e di
ecoefficienza egocentrismo
biocentrismo
moderato:
politiche di
conservazione ambientale,
ipotesi di
stato stazionario;
ecocentrismo/biocentrismo
estremo:
riconoscimento del
valore intrinseco
della natura,
ipotesi di
decrescita economica
e della
popolazione.
Le
principali divergenze
di vedute
tra le
scuole tecnocentriche
e quelle
ecocentriche sono
essenzialmente di
due ordini:
sul piano
dei valori,
le prime
due scuole
attribuiscono alla
natura un
significato prevalentemente
strumentale, mentre
le altre
due riconoscono
un valore
intrinseco, indipendente
dagli interessi
economici dell’umanità.
Dal punto
di vista
scientifico, il
punto centrale
consiste nel
riconoscere o
meno la
diverse caratteristiche
dei sistemi
viventi rispetto
a quelli
tecnologici. Come
osservano Pignatti
e Trezza
(Assalto
al pianeta.
Attività
produttiva e
crollo della
biosfera,
Bollati Boringhieri,
Torino 2000),
mentre la
biosfera è
un sistema
auto-organizzante lontano
dall’equilibrio
sostenuto dal
flusso di
energia solare
capace di
autoregolarsi in
modo da
mantenersi in
una condizione
stazionaria, «si
è ora
sviluppato un
sistema produttivo
creato dall’uomo
che può
espandersi senza
vincoli in
quanto può
creare denaro
in quantità
illimitata. Viene
attivato un
flusso di
energia che
è interamente
di origine
tecnologica, estranea
alla biosfera,
che ne
può assorbire
senza danno
soltanto in
minima parte.
Quindi questa
energia, nella
quasi totalità,
viene a
modificare in
maniera traumatica
le condizioni
della biosfera
[…].
I sistemi
costruiti dall’uomo,
e che
formano il
sistema produttivo
industriale, sono
sistemi termodinamici
vicini all’equilibrio,.
non […]
in grado
di auto-organizzarsi;
sono alimentati
da una
riserva di
energia liberata
dai combustibili
fossili oppure
da altre
fonti energetiche
differenti dalla
sintesi clorofilliana,
ed a
queste fonti
possono attingere
senza limiti;
non dispongono
di un
sistema di
autoregolazione».
Mentre
i fautori
delle prime
due scuole
ritengono che
vi siano
sufficienti gradi
di compatibilità
tra l’attuale
sistema economico
e l’ambiente
e propongono
misure di
riforma cautelative,
che tuttavia
non intaccano
in profondità
la concezione
strutturale di
base, altri
autori (Georgescu-Roegen
il principale
esponente di
un nuovo
indirizzo di
studi noto
come bioeconomia,
Arne Naess
il fondatore
della scuola
di deep
ecology,
che qui
è stata
indicata con
il termine
di ecocentrismo
estremo;
Pignatti e
Trezza; Serge
Latouche) propongono
risolutamente la
fuoruscita dall’economia
capitalista, considerata
incompatibile con
le esigenze
di salvaguardia
della biosfera.
Secondo questa
visione, la
fuoruscita
dall’industrialismo
(di tipo
sia capitalista
sia socialista)
dovrebbe avvenire
con gradualità
attraverso un
processo di
transizione che
potrebbe seguire
a grandi
linee i
seguenti passi,
al fine
di garantire
condizioni di
sicurezza e
stabilità della
biosfera lontane
da rischi
globali imminenti:
«popolazione stabilizzata
a circa
1,5 miliardi
di abitanti,
e conseguente
abbandono dell’agricoltura
fondata sui
fertilizzanti di
sintesi, progressiva
eliminazione del
divario tra
paesi industrializzati
e Terzo
Mondo; consumo
energetico dell’ordine
di 1010
Gcal; area
forestale aumentata
del 50%
rispetto a
quella attuale;
decomposizione dei
prodotti industriali
dopo l’uso
e generale
sistema di
riciclaggio dei
rifiuti (Pignatti
e Trezza,
2000).
Questo
è sostanzialmente uno scenario a “bassa potenza”, intesa sia nel
senso energetico del termine, sia dal punto di vista della densità,
della capacità di carico e dell’impronta ecologica Esso delinea
una società a piccola scala, decentrata, con forme di democrazia
diretta e partecipata e tecnologie appropriate. Esistono esempi
significativi di comunità che già sono orientate in questa
direzione.
Quale
dei vari
modelli si
imporrà nel
tempo e
quale dovrebbe
essere la
politica più
razionale e
saggia da
seguire? Ci
troviamo ancora
una volta
di fronte
a un
processo decisionale
in condizione
di ignoranza.
Se dovessimo
seguire il
principio di
precauzione saremmo
portati a
scegliere il
modello che,
in caso
di errori,
ci permetterebbe
di correggerli
senza gravi
danni e
costi, in
condizioni di
massima sicurezza:
grandi progetti
e grande
scala sono
sinonimi di
grandi incertezza
rischio ed
errore. Viceversa,
piccoli progetti
e piccola
scala comportano
l’esposizione
a piccoli
incertezza, rischio
ed errore.
Saremo così
saggi e
razionali da
seguire la
filosofia del
«piccolo è
bello», sostenuta
da Ernst
Fritz Schumacher
oppure la
nostra hybris
sarà tale
da farci
abbagliare dalle
sirene dei
megaprogetti e
dei megarischi?
Altri
riferimenti
Jean
Pierre Dupuy,
Piccola
metafisica
degli
tsunami,
Donzelli,
Roma
2006
Sheila
Jasanoff,
Fabbriche
della
natura,
Il Saggiatore,
Milano 2008
From:
bifo
<istubalz
<at>
libero.it>
Subject: l'invisibilità del male
Newsgroups: gmane.culture.internet.rekombinant
Date: 2008-03-25 09:58:57 GMT (2 weeks, 1 day, 22 hours and 53 minutes ago)
Subject: l'invisibilità del male
Newsgroups: gmane.culture.internet.rekombinant
Date: 2008-03-25 09:58:57 GMT (2 weeks, 1 day, 22 hours and 53 minutes ago)
DUPUY
Jean-Pierre,
Tchernobyl
et
l’invisibilité
du
mal,
http://www.esprit.presse.fr/print/article.php?code=14471
Nassim
Nicholas Taleb,
Il cigno
nero,
Il Saggiatore,
Milano 2008
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