E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

venerdì 26 novembre 2010

Dialogo tra un pessimista anarchico e un marxista intelligente

Marxista: [...] Stiamo aprendo una prospettiva anarco-socialista, ovvero la ricomposizione della frattura della prima internazionale. In effetti i tempi sono maturi :-)

Anarchico: certo! E comunque era tutta colpa dei marxisti :-D

Marxista: Beh, alcuni marxisti hanno certo contribuito, eccome, sia nella teoria che soprattutto nella prassi. Ma non tutti.
A parte gli scherzi, penso proprio che molte delle ragioni che dividevano anarchici da socialisti siano state superate, a partire dalle condizioni di un'efficace auto-organizzazione dal basso favorita dalle nuove tecnologie di comunicazione per finire con il fatto che anche il movimento socialista ha presto atto dei problemi enormi che sorgono scorporando il tema delle libertà individuali dagli obiettivi
di giustizia sociale.

Anarchico: sì, ma soprattutto, anche i socialisti hanno capito che la scienza non è quella marxista...

Marxista: su questo sono pronto a confrontarmi, perché sia nelle scienze sociali che nelle scienze economiche il contributo dei marxisti è stato notevole e anche più dinamico di quel che si tende a
rappresentare.
Pensa a Oskar Lange, che ebbe il coraggio di criticare la teoria del valore marxiana rinnovando così la teoria economica marxista con innesti neoclassici, dimostrò matematicamente che il piano è uno strumento di allocazione migliore del mercato perché in grado di riprodurre gli effetti allocativi di quest'ultimo, ma anche di produrne di altri, a seconda degli obiettivi sociali desiderati. Ancora comprese che il piano è in grado di asservire il mercato ai proprio fini allocativi.
http://it.wikipedia.org/wiki/Oskar_Lange (meglio la versione inglese)
Oggi la sociologia mondiale riscopre le categorie gramsciane e marxiane e l'economia il dirigismo, che è un'economia di piano che si dichiara capitalista per non occuparsi troppo delle responsabilità sociali, trionfa ovunque e soprattutto è il modello della potenza in crescita, quella cinese. E per quanto fosse imperfetta, l'economia di piano sovietica, pur applicata alla cappero che peggio non si poteva perché continuamente violentata dalle cicliche purghe di esperti e dagli ukaze politici che pretendevano obiettivi deliranti, ha permesso ad un paese di secondo piano di diventare la seconda potenza economica e industriale del pianeta in pochi decenni. E da quando c'è stata la transizione al capitalismo, non c'è stato il tanto profetizzato decollo russo, ma un'agonia economica e demografica che ha obbligato la Russia a dipendere dalle esportazioni di materie prime come gas e petrolio, al pari della Nigeria o del Venezuela. Secondo me c'è ancora troppa pressione ideologica per riconoscere anche le virtù, oltre che i limiti, della pianificazione socialista o del socialismo di mercato.

Anarchico: ecco non nego che ci siano (stati) marxisti colti e intelligenti, quello che negherei è che il loro marxismo abbia dato qualche apporto decisivo al loro lavoro intellettuale. Ma queste sono questioni inutili.
Voi marxisti siete affascinati dallo sviluppo tecnologico, che vi pare un bene primario.
Prima la società, poi l'individuo. Io invece credo che una società che sacrifichi anche solo un individuo non abbia alcuna legittimità morale, figuriamoci politica.
Mi obietterai forse che la razionalità impone vincoli, ma anche l'etica è razionale, si tratta solo di decidere se riferirsi all'economia o all'etica (tanto per riprendere le categorie dello spirito crociane)
Io credo che il mito dello sviluppo economico sia tipicamente otto-novecentesco e ormai morto e sepolto, e che per impostare un nuovo modello di sviluppo basato sulla decrescita ("sviluppo sostenibile" mi sembra un concetto ipocrita) si debbano abbandonare un bel po' di convinzioni marxiste.
(Che l'URSS crescesse e la Russia putiniana no, da un punto di vista epistemologico non è UNA DIMOSTRAZIONE di niente, anche se sappiamo tutti che dopo il crollo del regime il capitalismo mafioso ha preso in mano tutto quanto)
Il marxismo dice molto sul sistema, ma nulla sull'individuo, che viene sempre trattato come astrazione idealizzata, il che all'occorrenza può giustificare le purghe (non che le giustifichi davvero, e non che io creda che nessuno pensi che le giustifichi; ma sembra essere un fatto che il bolscevico crede nella necessità di salvare la rivoluzione massacrando i rivoltosi di Kronstadt).
Un'altra cosa notevole, anche se solo fenomenologica, è questa: nel mondo nessun grande intellettuale si riferisce più al marxismo se non, com'è giusto, come a una delle tante dottrine da cui si può prelevare qualcosa di buono senza tentare di salvarne la sacra coerenza.

Io direi così: se la tua scienza è buona, la praticherai con successo senza sentire il bisogno di magnificarne a tutti le grandi virtù. Ma se la tua scienza non produce buoni risultati (e mi pare proprio il caso del marxismo) allora non esitare a cercare altre scienze più produttive.
E bada che questo discorso non va confuso con il perserverare nella difesa dei propri ideali: quelli vanno difesi SEMPRE, a prescindere dal successo o dall'insuccesso empirico ottenuto nel difenderli.
Ma etica e scienza stanno su piani separati

[cfr. anche Dialogo tra un sordo marxista platonico, e un sordo anarchico pseudocognitivista]

mercoledì 17 novembre 2010

Ho intervistato Michel Houellebecq...


2.
Michel Thomas, alias Michel Houellebcq, è stato per anni considerato uno scrittore scandaloso, politicamente scorretto, addirittura un portavoce del fascismo europeo (come disse un Baricco straordinariamente abbagliato, alcuni anni fa).
Con La carta e il Territorio, il suo ultimo romanzo che per molti versi si presenta esplicitamente come il suo “ultimo”, quasi un commiato (per sopraggiunta anzianità?) dall’intensità della precedente scrittura, spesso incandescente per temi pensieri e passioni (tristi) racchiusi in essa, Houellebecq sembra ora avere raggiunto una specie di calma artistica, se non esistenziale (anche se vedendolo da vicino emana una gran quiete: dipenderà dai giorni a quanto dicono i giornalisti, ai quali lo scrittore sembra comunque riservare un disprezzo aprioristico…).
Oltre all’indiscutibile potenza di una narrativa colta che spesso mescola i toni immediati della letteratura popolare e le tinte forti della pornografia con ardui intermezzi teorici, scientifici e filosofici, l’appassionato lettore di Houellebecq apprezza proprio questa mistura esplosiva. Personalmente, da anni considero i romanzi di Houellebecq come i più rilevanti dal punto di vista filosofico che si possano reperire sul mercato occidentale contemporaneo. Ovviamente ci sono altri grandi romanzieri, anche enormi, com’è del resto Houellebecq, ma difficilmente i loro libri evocano direttamente o indirettamente tanti problemi filosofici come quelli di Houellebecq.
Perciò quando lo incontrerò per la prima volta in vita mia glielo dirò subito. Lo incontrerò al Grand Hotel de Milan, un bel luogo sontuoso per incontrare il mio scrittore preferito. Che è oggettivamente uno degli scrittori viventi più importanti al mondo.
Houellebecq tarderà un po’ a scendere, mi dice la persona della Bompiani che organizza le sue giornate italiane. Il mio nervosismo cresce: è noto che H odia i giornalisti. Ma io non sono un giornalista, mi dico per tranquillizzarmi… E poi la sera precedente l’ho visto a un incontro pubblico a Torino, è stato gentile, ha risposto cortesemente a tutte le domande, ed è stato anche spiritoso in maniera non aggressiva.

***

1.

...sabato 20 novembre alle 10,30, a Milano.

Da allora se guardo indietro nel passato non mi viene in mente null'altro che lui seduto sul divano del Grand Hotel de Milan con me accanto che gli tendo il registratore digitale verso il volto, non troppo vicino per non fastidiarlo, non troppo lontano per non rischiare di perdere neanche una frazione delle importantissime onde sonore che usciranno dalla sua bocca.
Della verità, come bocca, per me.

Sono giunto a intervistare Houellebecq per una serie di miei fraintendimenti, la cui catena causale è la seguente: qualche tempo fa avevo provato a vedere la serata dedicata a Brett Easton Ellis e non c'ero riuscito. Così, pensando che per Houellebecq sarebbe stata la stessa storia, avevo chiesto a un paio di amici giornalisti se per caso potevano farmi avere un qualche pass, per poi rendermi improvvisamente conto che la mia saltuaria collaborazione con Vogue.it mi forniva la possibilità non dolo di vedere Houellebecq, ma anche di intervistarlo! In quel momento di insight sono stato molto contento delle mie saltuarie collaborazioni con Vogue.it.
Così, ho messo in moto la macchina organizzativa e in poche ore ho ottenuto dalla Bompiani il permesso di intervistarlo. Permesso di cui mi sono fatto forte per entrare al Circolo dei Lettori anche se ho scoperto poi che non ce n'era affatto bisogno: c'era molto meno pubblico che per Brett Easton Ellis, e ho capito che non avevo affatto chiare le dimensioni della fama internazionale dei due scrittori.
Ellis, per altro, non l'ho ancora mai letto, anche se rimedierò quanto prima con Glamorama, che a Houellebcq pare piaccia molto.

Avevo dunque visto Houellebecq a Torino la sera prima di intervistarlo, al Circolo dei lettori, dove presentava il suo nuovo romanzo, La carte et le territoire. La conferenza fu interessante, ma non strepitosa, le domande del pubblico abbastanza ovvie anche se mi hanno risparmiato la tentazione di chiedergli che cosa ne pensasse di Silvio Berlusconi: qualcuno gliel'ha chiesto, in paragone con Sarkozy, e lui ha risposto che le situazioni erano molto diverse, che non si ricordava nemmeno più da quanto tempo Berlusconi governasse l'Italia, gli pareva "dalla notte dei tempi"...
Il mattino dopo, dopo aver fatto molto tardi la notte prima per limare le mie domande, sono partito alla volta di Milano, con uno zaino carico di merci e prodotti energetici naturali, come ai bei vecchi tempi del concorso a cattedre (allora lo zainetto conteneva: guaranà per svegliarsi, ginseng per svegliarsi un po' meno, Euphytose per calmarsi nel caso mi fossi agitato, pappa reale per l'energia, e forse altre cose che ho dimenticato).

Arrivato alla stazione di Milano consultai la mappa e, non senza indirizzare qualcuno che mi chiedeva come andare al Duomo, mi diressi verso il Duomo, sapendo lì vicina la via Manzoni del Grand Hotel. Feci un paio di falsi giri prima di trovare l'Hotel de Milan ma alla fine vi arrivai. Un'ora prima del tempo. Andai in un bar adiacente, per nulla adeguato al lusso del grand Hotel.
Lì ripassai le mie domande, davanti a un cappuccino, e soffiandomi ripetutamente e rumorosamente il naso, sperando che il raffreddore si placasse durante l'intervista.
Leggevo ancora qualche pagina di Houellebecq, da Interventions 2, e naturalmente trovavo spunti interessantissimi per domande che era troppo tardi per formulare per bene.
Dieci minuti prima dell'ora concordata, dopo un'accurata toilette anti-raffreddore, partii alla volta del De Milan, 50 metri più in là.

[to be continued]

martedì 9 novembre 2010

La scuola filosofica di Giovanni Gentile

Ripubblico qui il mio contributo al volume "I volti del consenso. Politica, cultura, propaganda nell'Italia fascista 1922-1943)", a cura di Alessia Pedìo, uscito come allegato del l'Unità, per Giorni di Storia, ottobre 2004.

La filosofia gentiliana ha il suo inizio in un hegelismo riveduto e corretto: la riforma della dialettica hegeliana – esposta nell’omonima opera del 1913 – riconduce tutto all’unità immanente dello spirito. Se la dialettica degli antichi (dialettica del pensato) considerava le idee come oggetti separati dal pensiero, per Gentile la dialettica moderna (dialettica del pensare) coglie l’attività creatrice del pensiero: «La dialettica [...] del pensare non conosce mondo che già sia; che sarebbe un pensato; non suppone realtà, di là dalla conoscenza, e di cui toccherebbe a questa d’impossessarsi».
Il nocciolo teoretico dell’attualismo è la concezione secondo cui l’atto del pensiero non è oggettivabile: lo spirito non è pensabile come oggetto, ma sempre come pensiero pensante, pensiero in atto. In maniera simile all’idealismo fichtiano, l’attualismo assume che lo spirito è autoctisi, ossia autoposizione, autocreazione: esso pone se stesso e i suoi molteplici oggetti e concetti, riassorbendoli nella propria immanenza originaria, neutralizzando la pluralità mondana nell’unità assoluta del pensiero pensante. Lo spirito hegeliano è così visto nella sua continua autopoiesi. Di qui l’identificazione della filosofia con la storia della filosofia, nonché la subordinazione di tutte le forme di pensiero alla filosofia (come risulta dall’organizzazione degli studi superiori che prese corpo nella riforma del 1923, precedentemente esaminata).
Da un punto di vista politico (Genesi e struttura della società, pubblicato postumo nel 1946) il monismo metafisico gentiliano portava all’affermazione dello stato etico, cioè lo stato cui tutto è subordinato e la cui formula, ben consonante con il fascismo di cui Gentile è stato il filosofo ufficiale (non senza difficoltà, contrasti e contraddizioni), è: lo stato è tutto e l’individuo è nulla.
Questa concezione si giustifica, in maniera iper-hegeliana, con la tesi che il volere universale è superiore alle volontà puramente individuali. Lo spirito è l’unico soggetto, di cui i molteplici soggetti empirici, gli oggetti e i concetti sono mere emanazioni temporanee, momenti che verranno superati, ma privi di valore in se stessi. Tale posizione metafisica ha ricadute etiche vistose, che suscitarono l’avversione degli idealisti crociani, preoccupati dell’autonomia irriducibile dei “distinti” dello spirito, dei positivisti, per i quali una simile filosofia non ha alcuna speranza di cogliere la verità del pensiero scientifico, infine dei cattolici che, nell’indistinzione spirituale pensata da Gentile, non scorgevano nessuno spazio per il Dio cristiano.
Numerosi allievi di Gentile, partendo dalle posizioni del maestro, svilupparono un pensiero originale, raramente rinnegandone la fede filosofica. Se si tiene conto dell’orientamento politico e insieme teoretico, si possono distinguere attualisti di destra, come Carlini e Sciacca, e di sinistra, come Spirito e Calogero. 

Armando Carlini (1878-1959) si allontanò progressivamente dall’idealismo immanentistico gentiliano per avvicinarsi a un trascendentalismo realistico di impronta cristiana (Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano, 1942).
Interessato alla storia della filosofia, studiò e tradusse Locke, Aristotele, Heidegger. Su quest’ultimo, in particolare, fu tra i primi a scrivere in Italia negli anni Trenta; in Il mito del realismo (1936) la filosofia di Heidegger veniva utilizzata per criticare il realismo ingenuo.
Preoccupato di attribuire consistenza ontologica alla persona, Carlini affrontò nelle sue opere più mature la necessità metafisica del superamento dell’immanenza in quella trascendenza che l’attualismo negava recisamente. Nel pensiero di Carlini tale riaffermazione della trascendenza avveniva in direzione tanto filosofica quanto religiosa. Fondamento del suo sistema rimaneva comunque l’Atto gentiliano.
Come hanno acutamente osservato Abbagnano e Fornero, la riflessione teologica di Carlini «apriva la strada alle “uscite” spiritualistiche dall’attualismo, cioè a quelle concezioni (Guzzo, Sciacca) che fondano la religione cristiana e cattolica non in una metafisica ontologica e oggettivistica ma nella riflessione dello spirito su se stesso». 

Michele Federico Sciacca (1908-1975) fu inizialmente attualista ma con una forte ispirazione religiosa, di una religiosità antidogmatica, spiritualistica e personalistica. L’immanentismo gentiliano gli apparve presto insoddisfacenti e la neoscolastica contribuì a mutare il suo pensiero. Elaborò una sua personale posizione, non ancora esplicitamente cristiana, che battezzò Spiritualismo critico (Linee di uno spiritualismo critico, 1936): l’approdo teoretico di questa fase consiste nella concezione di Dio come eterna attività creatrice. In seguito, Sciacca pervenne a una forma più canonica di spiritualismo cattolico. 

Ugo Spirito (1896-1979) fu il maggiore discepolo di Gentile, e uno dei principali sostenitori dell’attualismo negli anni Venti. Professore di politica ed economia corporativa nell’università di Pisa, divenne poi docente di filosofia a Messina, Genova e Roma. Nei primi anni Trenta il suo principale impegno politico è quello di teorico del corporativismo.
Già in La vita come ricerca (1937) si distaccò dall’attualismo gentiliano per ragioni teoretiche, dando vita a una dottrina originale (Il problematicismo, 1948).
Assumendo che tutte le tesi della filosofia, anche quelle attualistiche, si contraddicono in quanto pretendono fissare il divenire e così facendo necessariamente lo trascendono, il problematicismo voleva mantenere aperta la via del molteplice attraverso una fruizione della vita intesa come ricerca, arte, amore e, in ultima istanza, come libertà.
Inizialmente interessato anche al positivismo e al pragmatismo (Il pragmatismo, 1921) approderà, nell’ultima fase del suo pensiero, alla convinzione che sia la scienza a offrire la possibilità del superamento dei miti filosofici (Dal mito alla scienza, 1966). 

Guido Calogero (1904-1986) dopo i primi saggi importanti sulla logica e la filosofia antica, si interessò successivamente alla filosofia di Croce: tali studi confluirono in La conclusione della filosofia del conoscere che segnò il distacco, anche per ragioni politiche, dall’ortodossia attualista e l’avvicinamento al pensiero crociano.
Docente alla Normale di Pisa, fu condannato al confino e poi al carcere per la sua attività antifascista clandestina. Negli anni di prigionia elaborò i capisaldi di quella che sarà la sua filosofia successiva, incentrata sul rifiuto del monolitico atto puro gentiliano e volta a impostare sul principio del dialogo (Logo e dialogo, 1950; Filosofia del dialogo, 1962) la libertà umana, l’autonomia anche politica dei singoli.

sabato 6 novembre 2010

Interpretanti e trasformatori, 3. Risposta a una domanda di Roberto Casati per un rapporto ministeriale sulla "valorizzazione" delle scienze umane

Io direi così: le scienze umane (come ogni scienza a prescindere dal suo oggetto) non hanno valore in se stesse a prescindere dal contenuto di conoscenza effettiva che possono raggiungere e offrire.
Chomsky afferma ripetutamente che per la conoscenza dell’animo umano la letteratura e l’arte sono insuperabili, e che la scienza non potrà mai raggiungere risultati paragonabili. Ma in assenza di garanzie sulla riproducibilità di brillanti intuizioni individuali (ci saranno sempre poeti come Dante e drammaturghi come Shakespeare? Non è detto) il raggiungimento di un grado rilevante di conoscenza si ha soltanto con un metodo rigoroso, più o meno vicino al metodo quantitativo delle scienze sperimentali (in ogni caso non incompatibile con questo).
Il metodo delle scienze umane non è sempre rigoroso come dovrebbe perché le scienze umane potessero sperare di mantenere una posizione centrale all’interno dell’attuale sistema della conoscenza: per esempio il culturalismo mainstream non produce molta conoscenza, ma pregiudizi ideologici (tra l’altro facilmente manipolabili dal potere: “i musulmani non si integrano in Occidente perché hanno un’altra cultura dalla nostra”).
Anche se non è possibile pensare a una ritraduzione completa delle scienze umane in scienze umane naturalizzate, la questione della compatibilità o incompatibilità con la naturalizzazione dovrebbe tuttavia essere affrontata all’interno di ciascun ambito disciplinare.
La naturalizzazione, e il confronto metodologico e contenutistico con le scienze naturali, dovrebbe essere l’orizzonte delle scienze umane affinché esse possano produrre conoscenza valida e utile; in mancanza di questo orizzonte le scienze umane non solo non hanno valore in se stesse ma diventeranno probabilmente sempre meno necessarie anche all’ipotesi “marchande” (tendo a pensare che per continuare a vendere le t-shirt del Partenone non sia necessario un grande apparato scientifico alle spalle, ma basti la mediatizzazione degli oggetti culturali e l’autoriproduzione dell’industria del turismo).
Qualora le scienze umane accettino sempre più e meglio di confrontarsi con la prospettiva della naturalizzazione, il loro contributo al sistema della conoscenza rimarrebbe fondamentale, essenzialmente per la rilevanza e l’interesse intrinseco dell’oggetto scientifico: la sfera antropica in tutte le sue dimensioni individuali e associate.

giovedì 4 novembre 2010

Halloween, il Grande Cocomero e il cristianesimo (Vogue12)


[Pubblicato su Vogue.it]


La Generazione X italiana, a cui appartengo, ha scoperto Halloween grazie alle strisce di Peanuts, di Charles Monroe Schulz. Che il loro straordinario autore fosse cristiano (di una setta protestante) non pare del tutto privo di significato, se pensiamo alla crociata contro la festa dei morti in salsa nord-americana condotta dalla chiesa italiana negli ultimi anni. Le accuse sono molteplici (è una festa consumista, satanista, estranea alle tradizioni italiane, inconciliabile con il cristianesimo, pagana) ma si riconducono agevolmente a una: Halloween è una festa anti-cristiana che rinverdisce antichissimi e ambigui culti mortuari, alieni dalla fede cristiana nella resurrezione dei morti (si pensi anche alla palermitana “festa dei morti” descritta con irresistibili toni grotteschi da Roberto Alajmo in Palermo è una cipolla).
A ripensarci oggi, sembra già di poter leggere tra le righe di Peanuts una presa di posizione filo-cristiana o comunque reattiva verso il consumismo mainstream della festa americana.
Il Grande Cocomero è l’eroe eponimo di un’anti-Halloween inventato dalla fantasia mitopoietica di Linus van Pelt. A differenza degli altri bambini, Linus non pratica l’usanza giocosa di bussare alle porte del vicinato, proponendo l’alternativa “dolcetto o scherzetto”, bensì attende tutta la notte che il Grande Cocomero, un Godot in versione fanciullesca, giunga a fargli visita nel suo “orto sincero”, recandogli i doni promessi ai bimbi buoni.
Ci sono qui molti elementi densi di senso: il Grande Cocomero, un duplicato di Babbo Natale - il quale intrattiene già per parte sua un rapporto complesso col cristianesimo -, richiede ai suoi adepti bontà e sincerità, virtù che reintroducono nella festività dei defunti la dimensione morale esclusa da Halloween.
Il luogo dell’orto (oltre a ricordare l’attesa apostolica nel Getsemani, che risuona nell’attesa notturna di Linus) è carico di valenze ecologiste ante litteram, svolgendo quindi il ruolo di un segno naturale contro l’artificialità delle merci dolciarie destinate ai bambini.
Infine, e più importante, la reiterata delusione di Linus per la mancata visita del Grande Cocomero non lo induce mai a dubitare della sua esistenza: un esempio di fede incrollabile nel futuro avvento di colui che deve venire!
Se mi fosse permesso, per contrastare la crisi del cattolicesimo – che nell’iperbole fantastorica di Michel Houellebecq, in La possibilità di un’isola, diventa addirittura rapido crollo ed estinzione – di fronte al diffondersi di riti ludici e consumistici come Halloween, mi sentirei di consigliare all’intelligentsia cattolica un’attenta e serissima reinterpretazione di Peanuts (a suo tempo già iniziata da Umberto Eco), capolavoro assoluto dell’immaginario occidentale novecentesco.

Un mio progetto fallito del 2008: Incontri con utenti straordinari (Interviste su Facebook)

La comunità italiana di Facebook si è rapidamente ingigantita fino a contare oltre quattro milioni di utenti nel mese di dicembre 2008 (fonte: “Il fenomeno Facebook”, Il Sole 24 ore/nòva): ormai Facebook si usa per comunicazioni di lavoro o per pubblicizzare la propria attività artistica, politica, ecc.
Facebook è ancora una comunità anarchica: talvolta sembra prevalere la pruderie di remoti gestori puritani, talaltra sembra affermarsi uno spirito innovativo e rivoluzionario.
Facebook abolisce tendenzialmente la distinzione tra privato e pubblico, realizzando qualcosa di simile a ciò che certi teorici neomarxisti chiamano “il comune”. Nello spazio comune di Facebook è diventato possibile scambiare a costo zero le merci più preziose: l’informazione e la cognizione.
Nell’epoca in cui anche il lavoro cognitivo viene sfruttato, il “cognitariato” cerca nuovi spazi di libertà nel quale rivendicare la propria autonomia ludica (pensare all’aspetto politico insito nel divieto dell’uso di Facebook sul posto di lavoro).
Rispetto al fenomeno del web 2.0 (che permette un’interazione dinamica tra gli utenti attraverso l’uso di “tags” e analoghi strumenti informatici) Facebook è qualcosa di più, sembra sintetizzare in un unico strumento tutti i precedenti social-network: youtube, myspace, flickr, ecc.
Gli utenti facebookiani trascorrono parte delle loro giornate (quando non giornate intere) comunicando tra loro secondo modalità variate, complesse, divertenti, ricche di senso. Da un semplice messaggio sulla “bacheca” di un utente possono svilupparsi dialoghi virtuali e multimediali inimmaginabili su altri ambienti web: ogni messaggio si ramifica e moltiplica come in una sala degli specchi.
Il potere causale di Facebook è elevatissimo: nascono amicizie, si scoprono tradimenti, si creano alleanze e associazioni, si pubblicizzano prodotti culturali e merci scadenti.
Facebook costituisce una vivissima dimensione virtuale che rende sempre più evidente il senso del detto di Gilles Deleuze: il virtuale è attuale.
La comunità virtuale di Facebook è infatti una comunità realissima, di volta in volta luogo sociale, politico, affettivo, erotico, artistico, luogo di luoghi, Comunità av-venire.
Pur nell’assenza della fisicità, se non quella della Rappresentazione (fotografie, video, ecc.), Facebook si rivela sempre più come IL luogo dove comunicare non è utopia ma essenza riappropriante della società dello Spettacolo. Un luogo che non lascia sussistere alcun “fuori” e nel quale tutti saranno sempre più inclusi, senza appartenervi.

Incontri con utenti straordinari nasce dall’incontro su Facebook di Edoardo Acotto e Aldo Nove, scrittore-emblema di un’intera generazione che ora si ritrova tutta su Facebook, a sua volta utente straordinario e provocatore (più volte bannato da Facebook, difeso da gruppi di solidarietà, ecc.). Aldo Nove firma anche la prefazione del libro (e alcune interviste?).

Elenco provvisorio degli intervistati:

Matteo Basilé
Roberto Casati
Stefano Disegni
Marzia Migliora
Aldo Nove
Eva Riccobono
Tiziano Scarpa
Paola Turci
Achille Varzi
Walter Veltroni

mercoledì 3 novembre 2010

Sur La carte et le territoire


[mio commento a un blog francese]



Bonjour, je ne suis pas d'accord avec Didier Goux (surtout pas sur le personnage du chauffe-eau).
Oui, je suis un fan de MH, mais je prétend garder mon esprit critique... Ici le personnage de Jed EST MH, plus que le personnage MH, et les deux ensemble font comprendre très bien la dernière idée de MH sur la vie, la vieillesse, l'oeuvre, l'art et la mort. Et sur l'amour aussi, qui existe brièvement et ne sauve personne car cela se termine comme il a commencé: sans raisons compréhensibles.
C'est un roman moins fort que d'autres de MH (selon moi meilleure que Platoform) mais ce texte étend la pensée de MH à propos du vieillessement: à côté de l'espoir dans la clonation et de l'euthanasie, il y a aussi la simple acceptation de la vieillesse, de sa solitude et ses maladies, et enfin de la mort, rendue juste en peu plus supportable par les médicaments anti-douleur.
Et il y a l'idée de l'art: pas de vitalisme, mais une tentative de "décrire la réalité". L'hyperbolisme que MH employe comme son chiffre styilistique empèche à bien de critiques d'en apprécier le réalisme foncièr.
C'est quand même un grand roman philosophique.
Michel Houellebecq vieillit avec una grande dignité et une éxtraordinaire intelligence des limites que la vie nous impose.