E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

sabato 23 luglio 2011

Ragionare con la mente estesa. Facebook, il pensiero e l’argomentazione. (Un articolo per Alfabeta2 online)

[Aggiornamento 2012: qui trovate le slides di una mia conferenza alla biblioteca di Corbetta su Facebook e la popfilosofia]

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[Pubblicato su Alfabeta2 online]

Esteriorizzazione
Per chi può permettersi un computer e un abbonamento a internet – e non sono ancora tutti, nemmeno nei paesi più ricchi – l’esistenza odierna è parzialmente online. Sembra allora un compito arduo provare a indicare un senso globale delle interazioni tra i soggetti che popolano i social network, per la pervasività delle pratiche di vita online e per il continuo intreccio di attuale e virtuale.
Considero i social network in generale come una "tecnologia dell'intelletto" (Jack Goody a proposito della scrittura) e in particolare come un’esteriorizzazione della facoltà di ragionare: non solo luoghi virtuali ma veri e propri dispositivi cognitivi allargati, una protesi delle facoltà mentali innate e culturalmente implementate. La nascita della scrittura, per esempio, ha rappresentato per la specie umana la possibilità di ricorrere a una memoria esterna, a un ampliamento della capacità di memorizzazione di informazioni manipolabili in tempo differito, in maniera complessa e stratificata, permettendo così il sorgere di una memoria culturale più astratta rispetto ai modi della trasmissione orale. Come la scrittura ha testualizzato la differenza temporale, così i social network virtualizzano la differenza spaziale.
Alle frequenti critiche secondo cui le nuove tecnologie di informazione e comunicazione impoverirebbero le facoltà cognitive e comunicative si può facilmente obiettare che i social network, entro i limiti formali, contenutistici e stilistici loro propri, sono naturali catalizzatori di letto-scrittura. In particolare Facebook, il re di tutti i social network, risulta simile a una lenta multi-chat, un dialogo scritto, virtualmente aperto a tutti: la necessaria differenza temporale che intercorre tra una produzione segnica e le risposte da essa occasionate, rappresenta un modo per custodire il logos, o quel che ne resta. In seno alla società dello spettacolo generalizzato, Facebook ha definitivamente inaugurato l’epoca dei nuovi soggetti (online) che leggono e scrivono, svincolati dalla necessità di offrire la loro immagine corporea in tempo reale (non è più così frequente sentirsi invitare a continuare la conversazione sulla video-chat di skype).
Anche se le ricadute emotive della frequentazione di Facebook sono molte e interessanti, mi concentrerò su ciò che Facebook fa o sembra fare al pensiero e alla comunicazione.

Mente estesa
Estremizzando la natura di dispositivo cognitivo esteriorizzato, o tecnologia dell’intelletto, si può cogliere un’analogia tra i social network e ciò che i filosofi chiamano “mente estesa”, ossia la sfera psichica considerata come esorbitante dai confini del cranio.
Il concetto di mente estesa è stato ufficialmente lanciato nella noosfera nel 1998 dai filosofi Andy Clark e  David Chalmers, che ripresero lo slogan di Hilary Putnam: “il significato non risiede nella testa”. Ma prima di Putnam, Clark e Chalmers, già Wittgenstein (“il secondo Wittgenstein”) aveva formulato una varietà di esternalismo oggi molto influente. Tornando alla filosofia dopo la pausa post-Tractatus, Wittgenstein scriveva che “una delle idee più pericolose è, stranamente, che noi pensiamo con la testa o nella testa” (Big Typescript, §52). Le scienze cognitive erano di là da venire e pareva sensato sostenere che i processi mentali non fossero oggettivabili né studiabili scientificamente. Su questa idea si costruiva l’immagine wittgensteiniana del pensiero extra-cranico. All’“idea pericolosa” di un pensiero privato, Wittgenstein opponeva innanzitutto l’idea che l’individuazione del processo del pensiero non possa essere confinata all’attività mentale ma trovi articolazione ed espressione fuori dalla testa: “il pensiero: un processo nel cervello, nel sistema nervoso; nella mente; nella bocca e nella laringe; sulla carta” (Big Typescript, §52). In secondo luogo, poiché pensare è un’attività esteriore e non solo interiore, esso dipenderà in larga misura dall’ambiente in cui si forma e manifesta. Il relativismo wittgensteiniano, padre putativo di alcuni culturalismi contemporanei, consiste nel vedere il pensiero come incarnato ed espresso in una determinata comunità o “forma di vita”, nella quale si praticano certi “giochi linguistici” e non altri: il pensiero dipende integralmente dal linguaggio – credeva Wittgenstein, erroneamente – e il linguaggio non è mai privato ma sempre socialmente condiviso.
La prospettiva wittgensteiniana permette di interpretare i social network come luoghi di pensiero collettivo. Parafrasando un altro aforisma del Big Typescript si potrebbe dire: penso con le dita sulla tastiera e gli occhi sullo schermo.

Spunti conversazionali
In un denso saggio su “Che cosa spiega una teoria dell’arte?”, Roberto Casati ha proposto una “teoria metacognitiva dello spunto per la conversazione”. Gli artefatti artistici sarebbero prodotti “con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una qualche conversazione sulla loro produzione” (Casati, 2002).
Facendo astrazione dalla questione delle opere d’arte e ricontestualizzando la teoria dello spunto conversazionale potremmo dire che i diversi tipi di segni che popolano le bacheche di Facebook sono prodotti proprio per essere interpretati come intenzionalmente prodotti per indurre conversazioni e ragionamenti (non necessariamente vertenti sulla produzione del segno-spunto, e qui sta la differenza rispetto agli artefatti artistici nella teoria di Casati): la loro comparsa ha o può avere l’effetto di indurre un lavoro cognitivo di massimizzazione della rilevanza (“perché l’ha postato?”).
Come osserva Casati a sostegno della sua teoria dell’opera d’arte fondata sulla metacognizione, c’è una differenza tra il produrre un segno con l’intenzione di innescare una conversazione e il produrlo con l’intenzione che esso sia riconosciuto come prodotto in quanto tale da suscitare una conversazione. Su Facebook – anche perché l’uditorio non è predeterminato e non si può sapere a priori chi tra i propri contatti vedrà il nostro post – i diversi tipi di segni (testi, foto, video, link, ecc.) sembrano poter veicolare gradi diversi del continuum che va dall’intenzione alla meta-intenzione: in certi casi il segno sarà l’equivalente di un vero e proprio messaggio passibile di parafrasi proposizionale, eventualmente rivolto a un uditorio ben identificato; in altri casi si riconoscerà piuttosto una vaga intenzione di innescare una conversazione; in altri casi ancora si riconoscerà la meta-intenzione, ossia il fatto che il segno sarà stato prodotto affinché ne venisse colta la natura intenzionale di spunto conversazionale.
(Poiché per Casati le opere d’arte sono “oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati”, si potrebbe forse persino ipotizzare un diverso grado di qualità artistica dei post su Facebook, correlata alla chiarezza con cui sia trasmessa l’intenzione comunicativa. Ma questo è un compito per un futuro web-estetologo).


Ragionamenti e argomenti
La mente online è dunque estesa e conversazionale. Fin qui però non si sottrarrebbe acqua al mulino di chi sostiene che i social network intorpidiscano e imbarbariscano le facoltà cognitive.
Per criticare i neo-apocalittici si potrà fare ricorso a una bella teoria pragmatica e cognitiva del ragionamento, formulata da Dan Sperber e Hugo Mercier. Secondo questa teoria, la funzione evoluzionistica del ragionare è trovare e valutare argomenti in contesti dialogici. La teoria argomentativa del ragionamento spiega le note cattive performance nei test di ragionamento (il test di Wason è uno dei più celebri) proprio con l’assenza di un contesto argomentativo; spiega inoltre perché il ragionamento di gruppo sortisca esiti migliori del ragionamento individuale: il gruppo costituisce un contesto in cui si è motivati all’argomentazione, diversamente che nell’isolamento del pensiero individuale.
È noto che su Facebook e altri social network le discussioni che lì hanno luogo sembrano raramente guidate dall’amore per la verità: questa evidenza ha attirato molte critiche anche da parte di autorevoli padri della realtà virtuale come Jaron Lanier (Tu non sei un gadget). Spesso si stigmatizza l’estremizzarsi delle opinioni sui social network, come se si trattasse di luoghi essenzialmente votati all’esasperazione e all’espressione di pensieri aggressivi. Ma se la teoria di Sperber e Mercier è verosimile (e le conferme sperimentali su soggetti adulti e bambini sono promettenti) anche sui social network si riscontrerà da parte degli utenti attenzione alla validità degli argomenti prodotti nelle discussioni online. La teoria postula anche l’esistenza di euristiche mentali per vagliare la bontà dell’informazione (valutazione dell’affidabilità del comunicatore sulla base delle precedenti argomentazioni, valutazione della coerenza dei contenuti): la “vigilanza epistemica” non viene insomma in alcun modo disattivata dal social network, che è anzi un’ottima palestra per il ragionamento e l’argomentazione.
Checché ne dicano i critici, coloro che partecipano a una discussione su Facebook dovranno sforzarsi di argomentare. È quindi giustificato domandare: prima che Facebook irrompesse nelle nostre vite, quanti erano abituate ad argomentare e veder argomentare quotidianamente? In Italia i programmi scolastici non prevedono corsi di argomentazione (e nemmeno di logica formale) e ovviamente è falso che studiare la storia delle filosofia, leggere i classici e tradurre dal latino “insegni a pensare”: possono essere esercizi del tutto sterili, come sa ogni liceale un po’ creativo. Riguardo alle nuove tecniche di informazione e comunicazione, prima dei social network c’era la televisione: ma lì nel migliore dei casi si poteva vedere argomentare, non certo argomentare in prima persona: e “parlare non è vedere” come diceva Blanchot ripetuto da Foucault e poi Deleuze.
Se è verosimile che il ragionare degli esseri umani abbia per funzione evoluzionistica la valutazione degli argomenti, è pertinente concludere che grazie alla frequentazione dei social network i soggetti online riattivino ed esercitino una facoltà mentale che in precedenza non trovava grande spazio nella società occidentale (eccezion fatta per fenomeni come lo speakers’ corner di Hide Park).
La mobilitazione della facoltà del ragionamento non fa probabilmente parte degli scopi originari di chi, come Mark Zuckerberg, ha messo le mani sul capitale economico della comunicazione online. Ma se davvero i social network incentivano a ragionare, facendo vagliare la validità degli argomenti prodotti nelle conversazioni online, non è saggio disprezzare questa promettente eterogenesi dei fini.

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