Nel vasto affresco teorico La
memoria, la storia, l’oblio, pubblicato in Italia nel 2003,
Paul Ricoeur ha affrontato le molteplici pieghe filosofiche del
concetto di memoria, prestando particolare cura alle sue implicazioni
psicologiche, storiche e politiche. Il filosofo francese fornisce una
fenomenologia della memoria anche nell’intento di proteggerne il
concetto dagli “abusi”, riducibili fondamentalmente a tre tipi:
“impedimenti” di tipo patologico-terapeutico (dominio della
psicoanalisi), “manipolazioni” di tipo pratico (dominio della
retorica), “costrizioni” di tipo etico-politico. Per ognuna di
queste distorsioni o incidenti della memoria Ricoeur propone un
antidoto analitico cercando un giusto equilibrio riflessivo tra ciò
che la memoria può e non può, deve e non deve essere.
Da sofisticato ‘interprete’
della psicoanalisi qual è, Ricoeur vede nella teoria psicoanalitica
lo spazio per parlare anche di collettività, estendendo «l’analisi
freudiana del lutto al traumatismo dell’identità collettiva. Si
può parlare (...) di traumatismi collettivi, di ferite della memoria
collettiva». Benché Ricoeur consideri la memoria collettiva “il
terreno di radicamento della storiografia”, per la filosofia
fenomenologica fondata sulla coscienza trascendentale è problematico
il concetto stesso di un ricordo non personale ma collettivo, come
quello che si ritrova alla base della commemorazione degli eventi
storici. Nella storia della filosofia, da Sant’Agostino a Husserl,
la memoria è innanzitutto individuale, introspettiva. In effetti,
com’è possibile fondare sulla dimensione interiore un ricordo
condiviso da una comunità?
Le difficoltà
del concetto di memoria collettiva sono affrontate da Ricoeur
attraverso l’analisi dell’opera del sociologo francese Maurice
Halbwachs*, La Mémoire collective, (1949) la cui tesi centrale
viene così riassunta: per ricordarsi, si ha bisogno degli altri. Non
si dà mai quello che potremmo chiamare un solipsismo mnestico: «È
a partire da un’analisi sottile dell’esperienza individuale di
appartenenza a un gruppo, e sulla base dell’insegnamento ricevuto
dagli altri, che la memoria individuale prende possesso di se
stessa». Come scriveva Halbwachs «ci si ricorda solo a condizione
di porsi dal punto di vista di uno o più gruppi e di ricollocarsi in
una o più correnti di pensiero», o, come chiosa Ricoeur: «Non ci
si ricorda da soli». E tuttavia, a differenza che per Halbwachs,
siamo sempre «noi» ad essere i soggetti autentici dell’attribuzione
dei ricordi, e la subordinazione - o piuttosto coordinazione - della
coscienza individuale all’insieme sociale non significa la sua
scomparsa.
Se la facoltà
della memoria ha un suo regime funzionale naturale ed è spontanea
recettività, non si potrà allora ingiungerla, pena la distruzione
della sua stessa essenza e il dar vita al “paradosso grammaticale”
formulabile come «tu ti ricorderai», che richiama la struttura
della contraddizione performativa (double bind), esemplificata
dal paralizzante «sii libero!».
La
contraddizione viene risolta attraverso l’idea di giustizia, che
estrae il valore esemplare degli eventi storici e volge la memoria in
progetto che dà forma di futuro e di imperativo al dovere di
memoria. Dovere di memoria è propriamente il dovere di rendere
giustizia a un ‘altro da sé’ attraverso il ricordo: entra in
scena la nozione di “debito”, consistente nell’essere obbligati
verso quegli altri che sono stati. Bisogna riconoscere priorità
morale alle vittime perché la vittima è l’‘altro’, il cui
riconoscimento, specialmente nella forma del Sé come un altro
costituisce il fondamento stesso dell’etica, per Ricoeur, Lévinas,
Derrida e in generale tutti i filosofi francesi “della Differenza”.
Su questa base
un capitolo del tutto particolare della nostra memoria collettiva è
quello relativo alla Shoah, l’evento negativo centrale della
storia dell’Occidente che ne risulta spaccata in due (è stato
Adorno a dire che dopo Auschwitz la cultura è spazzatura). Ricoeur
affronta il tema ripercorrendo il dibattito che ha avuto luogo in
Germania a partire dal 1986 dando vita alla cosiddetta “controversia
degli storici” (Historikerstreit) che mise la questione del
revisionismo storico al centro del discorso pubblico, rendendo noto
il nome di Ernst Nolte. Le tre “regole del revisionismo” che,
come disse Jürgen Habermas intervenendo nell’Historikerstreit,
paiono altrettanti pretesti per «liquidare i danni» sono indicate
da Ricoeur nell’«allargamento temporale del contesto, comparazione
con fatti simili contemporanei o anteriori, relazione di causalità
da originale a copia», procedimenti retorici volti a svalutare la
singolarità del fenomeno Shoah; per spiegare come sia potuto
accadere il genocidio degli ebrei «Nolte non esita (…) a evocare
in fine la dichiarazione di Chaïm Weizmann che chiamava gli
ebrei del mondo intero a lottare a fianco dell’Inghilterra nel
settembre 1939» per concludere insomma che «quel che si chiama lo
sterminio degli ebrei perpetrato durante il Terzo Reich è stato una
reazione, una copia deformata e non una prima o un originale».
L’obiettivo di Ricoeur è dunque salvaguardare la specificità
storiografica della Shoah, sequenza narrativa causale
contingente nella sua singolarità, e la responsabilità morale che
questa comporta, riconoscendo la priorità filosofica della coscienza
individuale.
Così Ricoeur
puntella il cammino di un autentico impegno storiografico,
scientifico, intellettuale e civile, prendendo le distanze
dall’ipostatizzazione del male assoluto e dai suoi usi e abusi.
Perché non è affatto detto che limitarsi a chiedere perdono in nome
di una collettività su cui ricadrebbe genericamente una colpa
produca poi le auspicabili conseguenze pratiche, politiche e
individualmente morali.
*Nota 3/12/2013: scopro soltanto adesso, a distanza di anni da questo pezzetto, che il figlio di Halbwachs (non Halbwachs padre, come avevo inizialmente creduto per una svista segnalatami da Antonio Vigilante, che ringrazio) fu il mentore del giovane Deleuze. Lo introdusse
"alla lettura di Baudelaire, Valery, Gide facendogli anche conoscere una realtà, quella della cultura e dell’impegno politico, a lui estranea fino a quel momento. Sarà lo stesso Deleuze, dopo molti anni, a dichiarare: «È allora che ho smesso di essere un idiota»; prima di quell’incontro, infatti, non era che un ragazzino mediocre a scuola e privo di interessi."
Nota 28/01/2014: lavorando su
mito e scienze cognitive, trovo in Boyer, Tradition as truth and communication, queste righe: "There is a third alternative, that of a Durkheimian 'collective memory' (see Halbwachs 1925, and Douglas 1982). Although the conceptual frameworks are entirely different, the ideas put forward in this section are consistent with at least one of Halbwachs points, namely that social interaction need not be totally represented to be reproduced. The idea of'collective memory', however, entails a ' superorganic' view of culture which is precisely what I am trying to avoid in the characterisation of tradition."