E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

sabato 4 maggio 2013

Paul Ricoeur: ricordare - la Shoah (2004, mio articolo mai pubblicato su L'Unità)


Nel vasto affresco teorico La memoria, la storia, l’oblio, pubblicato in Italia nel 2003, Paul Ricoeur ha affrontato le molteplici pieghe filosofiche del concetto di memoria, prestando particolare cura alle sue implicazioni psicologiche, storiche e politiche. Il filosofo francese fornisce una fenomenologia della memoria anche nell’intento di proteggerne il concetto dagli “abusi”, riducibili fondamentalmente a tre tipi: “impedimenti” di tipo patologico-terapeutico (dominio della psicoanalisi), “manipolazioni” di tipo pratico (dominio della retorica), “costrizioni” di tipo etico-politico. Per ognuna di queste distorsioni o incidenti della memoria Ricoeur propone un antidoto analitico cercando un giusto equilibrio riflessivo tra ciò che la memoria può e non può, deve e non deve essere. 
Da sofisticato ‘interprete’ della psicoanalisi qual è, Ricoeur vede nella teoria psicoanalitica lo spazio per parlare anche di collettività, estendendo «l’analisi freudiana del lutto al traumatismo dell’identità collettiva. Si può parlare (...) di traumatismi collettivi, di ferite della memoria collettiva». Benché Ricoeur consideri la memoria collettiva “il terreno di radicamento della storiografia”, per la filosofia fenomenologica fondata sulla coscienza trascendentale è problematico il concetto stesso di un ricordo non personale ma collettivo, come quello che si ritrova alla base della commemorazione degli eventi storici. Nella storia della filosofia, da Sant’Agostino a Husserl, la memoria è innanzitutto individuale, introspettiva. In effetti, com’è possibile fondare sulla dimensione interiore un ricordo condiviso da una comunità?
Le difficoltà del concetto di memoria collettiva sono affrontate da Ricoeur attraverso l’analisi dell’opera del sociologo francese Maurice Halbwachs*, La Mémoire collective, (1949) la cui tesi centrale viene così riassunta: per ricordarsi, si ha bisogno degli altri. Non si dà mai quello che potremmo chiamare un solipsismo mnestico: «È a partire da un’analisi sottile dell’esperienza individuale di appartenenza a un gruppo, e sulla base dell’insegnamento ricevuto dagli altri, che la memoria individuale prende possesso di se stessa». Come scriveva Halbwachs «ci si ricorda solo a condizione di porsi dal punto di vista di uno o più gruppi e di ricollocarsi in una o più correnti di pensiero», o, come chiosa Ricoeur: «Non ci si ricorda da soli». E tuttavia, a differenza che per Halbwachs, siamo sempre «noi» ad essere i soggetti autentici dell’attribuzione dei ricordi, e la subordinazione - o piuttosto coordinazione - della coscienza individuale all’insieme sociale non significa la sua scomparsa.
Se la facoltà della memoria ha un suo regime funzionale naturale ed è spontanea recettività, non si potrà allora ingiungerla, pena la distruzione della sua stessa essenza e il dar vita al “paradosso grammaticale” formulabile come «tu ti ricorderai», che richiama la struttura della contraddizione performativa (double bind), esemplificata dal paralizzante «sii libero!».
La contraddizione viene risolta attraverso l’idea di giustizia, che estrae il valore esemplare degli eventi storici e volge la memoria in progetto che dà forma di futuro e di imperativo al dovere di memoria. Dovere di memoria è propriamente il dovere di rendere giustizia a un ‘altro da sé’ attraverso il ricordo: entra in scena la nozione di “debito”, consistente nell’essere obbligati verso quegli altri che sono stati. Bisogna riconoscere priorità morale alle vittime perché la vittima è l’‘altro’, il cui riconoscimento, specialmente nella forma del Sé come un altro costituisce il fondamento stesso dell’etica, per Ricoeur, Lévinas, Derrida e in generale tutti i filosofi francesi “della Differenza”.
Su questa base un capitolo del tutto particolare della nostra memoria collettiva è quello relativo alla Shoah, l’evento negativo centrale della storia dell’Occidente che ne risulta spaccata in due (è stato Adorno a dire che dopo Auschwitz la cultura è spazzatura). Ricoeur affronta il tema ripercorrendo il dibattito che ha avuto luogo in Germania a partire dal 1986 dando vita alla cosiddetta “controversia degli storici” (Historikerstreit) che mise la questione del revisionismo storico al centro del discorso pubblico, rendendo noto il nome di Ernst Nolte. Le tre “regole del revisionismo” che, come disse Jürgen Habermas intervenendo nell’Historikerstreit, paiono altrettanti pretesti per «liquidare i danni» sono indicate da Ricoeur nell’«allargamento temporale del contesto, comparazione con fatti simili contemporanei o anteriori, relazione di causalità da originale a copia», procedimenti retorici volti a svalutare la singolarità del fenomeno Shoah; per spiegare come sia potuto accadere il genocidio degli ebrei «Nolte non esita (…) a evocare in fine la dichiarazione di Chaïm Weizmann che chiamava gli ebrei del mondo intero a lottare a fianco dell’Inghilterra nel settembre 1939» per concludere insomma che «quel che si chiama lo sterminio degli ebrei perpetrato durante il Terzo Reich è stato una reazione, una copia deformata e non una prima o un originale». L’obiettivo di Ricoeur è dunque salvaguardare la specificità storiografica della Shoah, sequenza narrativa causale contingente nella sua singolarità, e la responsabilità morale che questa comporta, riconoscendo la priorità filosofica della coscienza individuale.
Così Ricoeur puntella il cammino di un autentico impegno storiografico, scientifico, intellettuale e civile, prendendo le distanze dall’ipostatizzazione del male assoluto e dai suoi usi e abusi. Perché non è affatto detto che limitarsi a chiedere perdono in nome di una collettività su cui ricadrebbe genericamente una colpa produca poi le auspicabili conseguenze pratiche, politiche e individualmente morali.


*Nota 3/12/2013: scopro soltanto adesso, a distanza di anni da questo pezzetto, che il figlio di Halbwachs (non Halbwachs padre, come avevo inizialmente creduto per una svista segnalatami da Antonio Vigilante, che ringrazio) fu il mentore del giovane Deleuze. Lo introdusse "alla lettura di Baudelaire, Valery, Gide facendogli anche conoscere una realtà, quella della cultura e dell’impegno politico, a lui estranea fino a quel momento. Sarà lo stesso Deleuze, dopo molti anni, a dichiarare: «È allora che ho smesso di essere un idiota»; prima di quell’incontro, infatti, non era che un ragazzino mediocre a scuola e privo di interessi."

Nota 28/01/2014: lavorando su mito e scienze cognitive, trovo in Boyer, Tradition as truth and communication, queste righe: "There is a third alternative, that of a Durkheimian 'collective memory' (see Halbwachs 1925, and Douglas 1982). Although the conceptual frameworks are entirely different, the ideas put forward in this section are consistent with at least one of Halbwachs points, namely that social interaction need not be totally represented to be reproduced. The idea of'collective memory', however, entails a ' superorganic' view of culture which is precisely what I am trying to avoid in the characterisation of tradition."

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