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giovedì 12 dicembre 2013

Massimo Zanetti: La Vandea dei forconi invade Torino. Un’interpretazione dell’attuale protesta sociale “dei forconi”

La Vandea dei forconi invade Torino.
Un’interpretazione dell’attuale protesta sociale “dei forconi”


Di Massimo Zanetti*

L’innesco di protesta sociale a cui si assiste in questi giorni che rivolge il suo messaggio a “tutto il Popolo Italiano” ma in prima istanza al mondo del lavoro autonomo “tartassato” dallo stato – partite iva, commercianti, artigiani, piccoli imprenditori – è un fenomeno da seguire con grande attenzione.

Il motivo è duplice e semplice.

In primo luogo vi è una vastissima la letteratura specialistica e pubblicistica che ha rispettivamente analizzato e segnalato all’opinione pubblica i ripetuti casi storici (in più paesi) della connessione tra mobilitazione sociale della piccola borghesia autonoma e avanzamento delle destre, anche quelle più
radicali e violente ed eversive, sulla scena politica. Una delle spiegazioni più ricorrenti della connessione tra la mobilitazione della piccola borghesia autonoma e destra politica chiama in causa l’ideologia tipica di questa classe sociale. Cultura tendenzialmente basata sull’importanza attribuita alla proprietà privata e all’iniziativa privata di impresa come fonte di libertà e benessere, su una concezione individualistica e competitiva del lavoro e dei rapporti sociali modellata dalla concorrenza di mercato con la quale quotidianamente e direttamente gli appartenenti di questa classe sociale si confrontano, su un rapporto di ostilità nei confronti del settore pubblico concepito essenzialmente come un esoso “esattore” che estorce una parte sempre più intollerabile dei frutti del proprio sudore a fronte di una fornitura di servizi vissuti come inefficienti oppure fruiti soprattutto da altri (immigrati, sfaccendati, ecc.) che meno hanno contribuito a finanziarli.

In secondo luogo in Italia questa classe sociale è decisamente consistente. Infatti una caratteristica anomala della struttura occupazionale in Italia è data dal fatto che a differenza di ogni altro grande paese a capitalismo avanzato e analogamente alla Grecia, nel nostro paese è molto elevata la quota di lavoro indipendente. Se negli USA, in Germania, nel Regno Unito o in Francia i lavoratori indipendenti sono all’incirca il 10% degli occupati, in Italia sono circa tra volte tanto: infatti poco meno del 30% degli occupati in Italia è costituito da lavoratori indipendenti, ovvero da commercianti, artigiani, lavoratori autonomi, liberi professionisti, coltivatori diretti, imprenditori (in grandissima parte microimprenditori con un numero ridotto di dipendenti) agricoli, industriali o dei servizi.

Questa anomalia italiana ha radici lontane, che risalgono perlomeno al secondo dopoguerra, ed almeno in parte è stata generata e successivamente alimentata da esigenze e conseguenti scelte politiche. Le esigenze erano quelle di trovare, durante il processo di modernizzazione e sviluppo del nostro Paese, un contrappeso sociale e quindi politico al crescente proletariato in maggioranza orientato a sinistra e nel quale cresceva il radicamento di quello che, nonostante un contesto decisamente ostile, si presentava come il più grande partito comunista d’occidente. Le scelte conseguenti furono quelle della Democrazia Cristiana, che sin dalla ricostruzione posbellica sviluppò una politica organica volta, appunto, tra le altre cose, a “creare una piccola borghesia moderata (coltivatori diretti, artigiani, commercianti”
(http://dizionari.repubblica.it/Enciclopedia/D/democraziacristiana.php)

Questo blocco sociale, bacino di consenso dello schieramento moderato e affatto raramente anche conservatore, è stato progressivamente “fidelizzato” dalla DC e dai suoi eredi politici della seconda repubblica (Forza Italia poi PdL e ora nuovamente Forza Italia [sarà un puro caso che gli attuali manifestanti
agitano come unico simbolo le bandiere nazionali?], Lega Nord) sia con una vasta e generosa normativa a sostegno della piccola impresa e del lavoro autonomo, sia giungendo a modellare un sistema fiscale a maglie sufficientemente larghe per tali categorie di contribuenti da permettere elusione un’evasione fiscale diffusa, come amaramente testimoniano ogni anno i dati della agenzia delle entrate disaggregati per categoria professionale dei contribuenti IRPEF.

Sebbene politicamente ed elettoralmente “efficiente” per i partiti moderati e conservatori (questo ovviamente non implica che la totalità dei lavoratori autonomi esprima un orientamento politico-culturale moderato o conservatore e un voto conseguente, ma un orientamento prevalente), questo blocco sociale
non è altrettanto efficiente dal punto di vista economico, a causa delle inefficienze di scala determinate dalla eccessiva frammentazione, quando non di vera e propria polverizzazione, del tessuto produttivo.
Questa inefficienza è stata economicamente e socialmente scaricata in diversi modi, ad esempio da un lato gravando maggiormente in termini di carico fiscale sui lavoratori dipendenti, dall’altro per molto tempo
adottando una periodica svalutazione competitiva della moneta nazionale, la lira, infine pagata dagli stessi lavoratori autonomi, soprattutto quelli di ultima generazione tra i quali non è affatto rara la presenza di lavoro subordinato mascherato, non di rado costretti all’autosfruttamento in termini di carico e orari di lavoro a fronte di un reddito che risulta generoso, soddisfacente o anche solo dignitoso solo nel quadro di un regime fiscale di favore o “tollerante”, da cui la diffusa sensazione – affatto errata – nell’ambito di
questa categoria di occupati che il pagamento delle tasse coincida con una significativa compromissione del proprio tenore di vita.

L’attuale grave crisi economica aggrava il peso di questa storica scarsa efficienza economica a livello aggregato della piccola borghesia autonoma nazionale. Che in misura crescente viene colpita dalla crisi soprattutto per effetto della recente caduta dei consumi interni (commercianti, artigiani e piccola e piccolissima impresa che rifornisce il mercato interno) a causa delle misure restrittive delle politiche economiche tese alla riduzione del debito e della spesa pubblica e sempre meno può di conseguenza essere protetta dalle tradizionali politiche di salvaguardia che si basavano sul contenimento del prelievo fiscale, in quanto il problema si presenta in questa fase sul fronte delle entrate. Ovviamente ciò non vieta che l’artigiano o il commerciante non reagiscano come sempre hanno fatto sulla base dei loro schemi subculturali, ovvero continuando ad accusare lo stato (o “la politica”) di strozzarli.

La scarsa efficienza economica della piccola borghesia urbana può indurre la classe dirigente ad inserire anche quest’ultima nel programma di ristrutturazione del sistema capitalistico nazionale al fine di renderlo maggiormente competitivo nel quadro internazionale. In effetti sembra proprio che vi siano azioni in questa direzione (la stretta creditizia nei confronti della piccola impresa, del commercio e dell’artigianato,
un maggior rigore nell’accertamento fiscale e nella riscossione dei tributi, ecc.).

L’attenuarsi delle politiche di protezione di questa classe sociale comporta inevitabilmente un problema di seria crisi del consenso se ad attuarla sono formazioni politiche moderate o conservatrici e di aperta protesta sociale se ad attuarla sono forze progressiste considerate ostili dalla subcultura politica dominante nella piccola borghesia autonoma. In ogni caso, superata una certa soglia di impatto sul tenore di vita a livello aggregato, quindi con effetti di massa, si corrono rischi seri di mobilitazione e di protesta sociale diffusa, a causa della già ricordata notevole dimensione in termini di popolazione e di occupati di questa classe sociale. Questa protesta però avverrà probabilmente seguendo in prevalenza gli schemi subculturali già citati, quindi di ostilità al settore pubblico, al prelievo fiscale, con una ideologia individualistica (quindi
ad esempio antisindacale), di ricerca di protezione del proprio particolare disinteressandosi delle implicazioni in termini di solidarietà sociale, di costi scaricati su altre categorie sociali e di assunzione di responsabilità nei confronti della tenuta del sistema sociale complessivo, anche in termini democratici.

La “ristrutturazione” della piccola borghesia autonoma nella direzione di una maggiore efficienza economica e di una sua maggiore più equa partecipazione al finanziamento dei servizi pubblici è una partita strutturale molto impegnativa che non è iniziata certo con il governo Letta. In una certa misura, il superamento dell’anomalia italiana (e greca) di una piccola borghesia autonoma comparativamente ipertrofica ed inefficiente in termini economici a livello aggregato appare comunque strutturalmente difficilmente eludibile. Il problema vero è come attuare questo processo di ristrutturazione abbattendone il più possibile i costi sociali e la conseguente protesta sociale cavalcabile dalla destra anche estrema.

Il governo attuale non pare disporre di ricette in tal senso, mentre all’opposto un nuovo soggetto politico in ri-formazione collocandosi a destra e fuori dalla sfera delle “responsabilità di governo”, Forza Italia, ha interesse a soffiare sul fuoco, così come interesse potrebbe averlo un’altra forza di opposizione a destra, la Lega Nord se non si trovasse ad avere visibili responsabilità di governo in alcune realtà regionali, oltre a tutto lo schieramento di formazioni di estrema destra.



Per ora, le prime battute intense e attuate con grande visibilità e determinazione del movimento di protesta non configurano l’innesco una protesta sociale di massa della classe media autonoma, se non forse in alcune aree del Nord-Est. Tuttavia nulla toglie che un innesco mantenuto con determinazione per un periodo prolungato e la risonanza dei media possano sortire un effetto di massa, anche se è da segnalare che le manifestazioni di teppismo e violenza veicolate dai media hanno un probabile effetto di
scoraggiamento sui commercianti e gli artigiani, tradizionalmente abituati ad agire secondo i canoni della “maggioranza silenziosa”, certamente ora più disponibili a manifestare un aperto e deciso dissenso, ma per motivi strutturali poco propensi a compromettere le loro attività con proteste prolungate e rischiose.
Semmai un’attività di protesta prolungata e incisiva può riguardare fasce sottoproletarizzate o ormai prive di reali chances sul mercato di queste categorie, cioè di persone in transizione dal lavoro autonomo alla
disoccupazione e alla relativa vulnerabilità sociale.

Stando ai fatti, per le prime impressionistiche informazioni che si hanno da testimonianze dirette di chi ha assistito alle proteste, da video e da immagini, le presenze in queste agitazioni sono riconducibili solo in parte al (micro)associazionismo di categorie professionali riconducibili ai lavoratori autonomi e a presenze individuali provenienti dalle classi sociali suindicate, mentre più importante sembra l’apporto delle organizzazioni di estrema destra e delle formazioni di ultrà, che spesso presentano aree di sovrapposizione.
E’ a queste ultime che probabilmente si deve la capacità di articolare e di dare una regia all’insieme di azioni di protesta attivate sul territorio tese a paralizzare snodi logistici (dalle stazioni ferroviarie alle arterie
di accesso alle città) e ad occupare luoghi simbolici come le piazze, in particolare del centro della città.
(per riferimenti dettagliati cfr. per esempio http://www.contropiano.org/articoli/item/20751).

Sempre dalle prime informazioni piuttosto il più importante serbatoio sociale della mobilitazione sembra per ora essere costituito dai cosiddetti giovani Neet (not in education, employment or training), ovvero da giovani non in formazione, lavoro o educazione. Si tratta di una categoria sociale in rapido aumento negli ultimi anni in tutta Europa e che nella classifica europea vede l’Italia tra i primissimi posti (più o meno il 23% dei giovani), preceduta solo dalla Bulgaria e dalla Grecia. E’ la categoria sociale che può fornire la
maggiore quantità di “tempo sociale” libero da impegni di lavoro o di studio da impegnare nella protesta e che si trova nella disposizione soggettiva di rabbia per assenza di prospettiva, condizione funzionale ad agire una protesta anche prolungata quando non persistente.

Se queste prime impressioni fossero confermate, le proposte e le iniziative politiche, nonché il lavoro di radicamento-intervento sociale dovrebbero quindi orientarsi anche e soprattutto nei confronti di questo fenomeno sociale in rapido e drammatico aumento, per impedire che esso si trasformi nel carburante altamente infiammabile che alimenta una rapida ascesa dell’estrema destra prima sulla scena pubblica e poi nei consensi elettorali.

Al tempo stesso urge recuperare, sviluppare e rinnovare le proposte politiche che già il PCI aveva avanzato al lavoro autonomo, ai commercianti e agli artigiani per affrontare, in forma solidale, associata e/o cooperativa, le drammatiche avversità a cui le crisi capitalistiche espongono queste categorie di lavoratori, permettendogli almeno di affrontare alcuni problemi di economia di scala che affliggono e di trovare forme di espressione collettiva delle proprie rivendicazioni che sappiano al tempo stesso inserirsi in una proposta
più ampia di trasformazione e di equità sociale. In alcune aree del paese dove è ancora presente una diffusa subcultura di sinistra, e tra queste vi è certamente anche Torino, queste proposte possono avere un certo
margine di successo o almeno di ascolto in alcune fasce di lavoro autonomo orientate ad un’ideologia libertario-progressista che seppur minoritaria è tradizionalmente sempre stata presente nel nostro paese.

Torino, 10 dicembre 2012

* Sociologo, ricercatore all'università di Aosta.

1 commento:

Socialdemocratico ha detto...

" Il problema vero è come attuare questo processo di ristrutturazione abbattendone il più possibile i costi sociali e la conseguente protesta sociale cavalcabile dalla destra anche estrema. "

Diciamo che qualcuno ( i post - comunisti, che con un triplo salto carpiato sono passati dalla nomenklatura comunista a quella liberista, di cui Renzi rappresenta la fine del processo e non l' inizio ) hanno mal pensato che si potesse fare questo tramite in vincolo esterno di Maastricht e dell' Euro. Vincolo esterno fondamentalmente intriso di valori liberisti, pro concorrenza e anti - intervento statale. Il vincolo esterno non è stato un elemento " modernizzatore" del paese bensì ha dato validi motivi politici all' elettorato di cui si parla in questo testo, di opposizione. Ora che qualsiasi proposta socialdemocratica è stata cancellata dal paese ( ci ha pensato il PD appunto ), a gestire la rottura dell' euro ci saranno solo o liberisti o coorporativisti. Se non capiamo l' errore storico della sinistra di agganciarsi all' Euro nemmeno tra cento anni vedremo in questo paese un' alternativa a questa dicotomia coorporativa e/o liberista.