Estratti da Edoardo Acotto, Mito e (neuro)scienze cognitive
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L'intelligenza di Dio
Molti sono gli antropologi e gli psicologi di
orientamento cognitivo che sostengono che le credenze religiose e
mitiche siano una conseguenza naturale dell'evoluzione della mente
umana - o mente/cervello, come si dovrebbe dire per sottolineare
l'impostazione materialista di questi autori.
Considerando il suo ruolo fondamentale nella
storia delle scienze cognitive, un punto di vista interessante è
quello di Howard Gardner, il padre della teoria delle “intelligenze
multiple” (Gardner 1987). Gardner (2000) analizza la possibilità
di una forma autonoma di intelligenza, spirituale o religiosa, che
comprenderebbe due abilità principali: realizzare particolari stati
fisici coinvolti nella meditazione e in altre tecniche di
manipolazione della coscienza, e raggiungere certi stati
fenomenologici consistenti in una qualche esperienza di unione con il
tutto. Secondo Gardner, però, nessuna di queste due capacità
cognitive è specifica di un'intelligenza spirituale o religiosa,
perché le abilità meditative possono essere ricondotte
all'intelligenza corporeo-cinestetica e l'esperienza “estatica”
di unione spirituale può scaturire da altre forme di intelligenza,
come quella matematica o quella musicale, sopratutto nei momenti
creativi. Per individuare una forma autonoma di intelligenza si
devono poter individuare computazioni specifiche del dominio e
secondo Gardner non è questo il caso per la presunta intelligenza
spirituale. Gardner si domanda se sarebbe possibile attribuire a una
“intelligenza esistenziale”, legata all'esistenza di sé come
individuo nel cosmo e alla capacità di interrogarne il senso, la
capacità di «effettuare computazioni (in senso lato) su elementi
che trascendono la normale percezione sensoriale, forse perché sono
troppo grandi o troppo piccoli per essere appresi direttamente»
(ivi, p.29). Ma in mancanza di evidenze neuroscientifiche non
c'è ragione per ipostatizzare un'intelligenza apposita.
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Religione? Naturale!
La ricerca dell'antropologo Pascal Boyer si
inserisce pienamente nel solco della psicologia evoluzionistica,
che è un innesto della psicologia cognitiva sul neodarwinismo
(Barkow, Cosmides e Tooby 1992). Anche per
Boyer (2013) Lévi-Strauss è un predecessore “brillante e
problematico” dell'antropologia cognitivista. E coerente con
l'impostazione dei lavori di Sperber è anche la prospettiva di
Boyer (1992) sulla trasmissione culturale delle credenze mitiche e
religiose, intese come particolari forme di rappresentazione mentale
e di narrazione. Boyer spiega le credenze mitiche e religiose
partendo dall'ipotesi che esse siano sempre coerenti con i meccanismi
della cognizione umana, che nella prospettiva delle scienze cognitive
è l'insieme dei processi mentali pensabili come elaborazione di
informazioni: dalla comprensione di una frase a un ragionamento
logico, alla visione di una scena o all'ascolto di una musica. Anche
la trasmissione culturale sottostà alla “benformatezza” delle
storie: come hanno mostrato gli studi pionieristici di Bartlett
(1932, 1923, 1958) le “buone” storie, cioè quelle ben costruite
rispetto ai vincoli cognitivi, si ricordano meglio, e le narrazioni
mitiche raccolte dagli antropologi sembrano conformarsi alle
caratteristiche determinate negli esperimenti di laboratorio. Questo
significa che nel processo di trasmissione della memoria mitica le
narrazioni sono “formattate”, oppure vengono dimenticate: i miti
i riti tradizionali sono composti rispettivamente di storie e
sequenze di gesti e azioni particolarmente memorabili (Boyer 1992, p.
19).
Il contenuto delle credenze mitiche non avrà
una variabilità indefinita perché le caratteristiche cognitive
della mente umana costituiscono i vincoli di formazione,
conservazione e trasmissione delle credenze stesse. Così, le idee
religiose sono “naturali” (Boyer 1994), ossia comprensibili e
spiegabili all'interno di un'epistemologia naturalizzata (Quine
1969).
Gli esseri umani si trasmettono nozioni
religiose all'interno del proprio gruppo sociale. Secondo Boyer,
però, la trasmissione reale delle credenze non corrisponde a
un'immagine naive e semplicistica: aquisire rappresentazioni mentali
non è un processo passivo e i bambini che imparano i contenuti
religiosi della propria cultura filtrano attivamente tutte le
informazioni dell'ambiente. Il paragone con l'apprendimento
linguistico può essere illuminante: non si apprende la sintassi
della lingua materna sulla base di stimoli espliciti, come voleva il
comportamentismo, esizialmente criticato da Chomsky (1959), bensì in
maniera complessa, naturale e inconscia (Bloom 2000). Le regole di
comportamento, invece, si apprendono per insegnamento esplicito, e
non con la semplice osservazione degli esempi di interazione sociale.
La matematica costituisce un caso diverso, che richiede un certo
sforzo di apprendimento e dunque la relativa coscienza di apprendere
qualcosa. Non c'è dunque un unico modo di apprendere i contenuti che
ci rendono culturalmente competenti, perché la disposizione del
cervello umano ad apprendere può essere differente a seconda del
dominio considerato: è naturale apprendere entro i sei anni la
corretta sintassi e la fonetica della propria lingua mentre le norme
sociali vengono interiorizzate secondo un diverso ritmo. In tutti
questi casi si ha disposizione ad apprendere perché si ha
disposizione ad andare oltre la mera informazione presente
nell'ambiente, come Chomsky (1959) ha messo per primo in evidenza
relativamente al linguaggio (non si raggiungerebbe mai la competenza
linguistica degli adulti se ciò dipendesse esclusivamente dalle
informazioni ambientali: è l'argomento della “povertà dello
stimolo”). La mente che acquisisce informazioni non è una tabula
rasa (Pinker 2006) bensì ha istruzioni innate per organizzare
l'informazione e conferire senso a ciò che si osserva e impara,
oltrepassando il mero dato informazionale. La mente effettua
inferenze a partire dalle informazioni ambientali e le inferenze
costruiscono concetti generali a partire dall'informazione
frammentaria. Le inferenze sono naturalmente governate da principi
(probabilmente innati) che fanno combinare il materiale concettuale
in determinati modi, non in altri.
Entra qui in gioco il concetto di template,
che si potrebbe paragonare allo schema concettuale kantiano e ai
frames dell'Intelligenza artificiale (Frixione 1994).
Nell'accezione di Boyer un template è una regola di
costruzione dei concetti, uno schema generale composto di più parti
o caratteristiche; per esempio, il template ANIMALE ha come
caratteristiche essenziali l'habitat, il cibo, il sistema di
riproduzione, la forma corporea ecc. Il template permette al
discente, tipicamente il bambino alle prese con la costruzione della
propria conoscenza enciclopedica, di fare inferenze che vanno oltre
l'informazione ambientale. Una volta mostrato a un bambino un
tricheco, il bambino disporrà del concetto di tricheco, formato a
partire dal template ANIMALE.
Boyer inserisce il suo modello cognitivo della
creazione e trasmissione di concetti nel quadro dell'epidemiologia
culturale elaborata da Sperber (1996). Contrapponendosi alla teoria
memetica di Dawkins (1997), la prospettiva epidemiologica sostiene
che la trasmissione delle idee non avviene secondo un meccanismo
rigido e conservativo di codificazione/decodificazione dei contenuti.
Le idee, migrando inferenzialmente da una mente all'altra, si
modificano naturalmente, perché le inferenze si fondano sulla
somiglianza piuttosto che sull'identità: «i concetti fluiscono
costantemente» (Boyer 2002, p.45). Come spiegare allora che vi siano
rappresentazioni mentali simili in individui diversi? Se c'è una
sorta di forza centrifuga che fa divergere le rappresentazioni
mentali dei diversi individui c'è anche una forza centripeta,
costituita da inferenze e ricordi, che conduce a costruzioni simili
anche a partire da input differenti: «ci sono importanti somiglianze
nei concetti di animali dal Congo alla Groenlandia, a causa del
template simile» (Boyer 2002, p. 45).
Secondo Boyer ci sono template anche per i
concetti religiosi, la cui somiglianza intra- e inter-culturale
risulta pertanto spiegabile in una prospettiva strettamente
cognitiva: «ci sono alcune “ricette” contenute nella mia mente,
e nelle vostre, e in quella di ogni altro essere umano normale, che
costruiscono concetti religiosi producendo inferenze sulla base di
qualche informazione fornita da altre persone e dall'esperienza»
(Boyer 2002, p. 47).
Che cos'hanno in comune i concetti religiosi?
Violano in maniera controintuitiva certe attese derivanti
dalle categorie ontologiche, ma ne rispettano altre. Così un
Dio onnisciente è costruito con il template [PERSONA] + poteri
cognitivi speciali; il concetto di fantasmi è costruito come
[PERSONA] + assenza di corpo materiale; il concetto di zombie è
costruito come [PERSONA] + assenza di funzionamento cognitivo. Un
esempio di credenza mitico-religiosa analizzata da Boyer è quella di
“agenti soprannaturali” (dei, antenati, spiriti, streghe, ecc.)
Questi agenti sono spontaneamente immaginati come dotati di una mente
intenzionale, e la ragione della tendenza a riconoscerli come agenti
è l'effetto dell'iperattività naturale del dispositivo mentale di
ricognizione dell'agentività, che presenta un'evidente vantaggio
evoluzionistico (è preferibile credere a torto di vedere un animale
feroce nascosto tra i rami che si muovono piuttosto che non vedere un
animale realmente nascosto).
Che la religione sia un fenomeno culturale,
come i gusti in fatto di cibo, musica, buone maniere e abbigliamento,
non significa dunque che essa sia infinitamente variabile, come un
malinteso culturalismo lascerebbe pensare; per gli antropologi
cognitivi, anzi, che qualcosa sia culturale è proprio la ragione per
la quale non varia oltre una certa misura. Che cos'è in definitiva
la religione, nella prospettiva cognitiva di Boyer? È uno
“spandrel”, un fenomeno evoluzionistico parassitario dei moduli
cognitivi della mente umana (Fodor 1988; Sperber 2001), com'è
parassitario lo spazio risultante fra due archi in una basilica come
quella di San Marco a Venezia: non ha una funzione precisa ma la sua
mancanza di funzione non è immediatamente visibile (Gould e Lewontin
1971). Si noti che le spiegazioni evoluzionistiche che non assegnano
una funzione evolutiva ad attività umane che oggi ci appaiono
fondamentali sono abbastanza diffuse: Pinker (1997), per esempio,
considera la musica alla stregua di una “torta alla panna uditiva”,
e anche per Sperber la musica è soltanto un “parassita
evoluzionistico” (Levitin 2008).
La costruzione di concetti religiosi richiede
dunque dispositivi cognitivi e capacità disparate insite nella
natura della mente umana, che vengono reclutate dall'immaginazione
religiosa. Ma, come per Gardner e Sperber, non c'è ragione di
ipotizzare un modo speciale di funzionare della mente, dedicato
particolarmente ai pensieri religiosi.
Il Dio dei neuroni
La “neuroteologia” (termine apparentemente
coniato da Aldous Huxley) è l'ultima apparizione nel campo delle
applicazioni neuroscientifiche allo scibile antropologico-umanistico.
Ed è senza dubbio la più discutibile, per l'uso spregiudicato che
si fa di dati sperimentali dal significato tutt'altro che univoco. La
neuroteologia si occupa ovviamente del nesso fra cervello e stati
mentali con contenuto religioso. Ma come riassumono Legrenzi e
Umiltà: «noi siamo fatti per credere e un bambino nasce già «fatto
per credere». Questa è indubbiamente una storia vera, ma è
un'altra storia: è già stata raccontata e non ha bisogno del
«neuro» per essere spiegata» (Legrenzi e Umiltà 2009). E in
effetti non si vede bene quale possa essere l'apporto della
neuroscienza se la neuroteologia dovesse occuparsi di domande come:
esiste un Dio, e può l'esistenza di Dio essere dimostrata? Qual è
la natura di Dio? Qual è la natura del bene e del male e qual è la
loro relazione con il peccato, il libero arbitrio e la virtù? Qual è
la natura della rivelazione spirituale? Dio è immanente
all'universo? (Newberg 2010).
Sotto l'etichetta della neuroteologia si
possono comprendere anche studi come quelli del medico James Austin
(1999; 2006) che analizzano gli effetti della meditazione zen sul
funzionamento del cervello e in particolare della coscienza, ma senza
concentrare l'indagine sull'origine neurologica dell'idea di Dio. Ma
nei lavori inaugurali della (pseudo)disciplina, invece, sono state
effettivamente cercate le presunte cause neurologiche delle credenze
religiose (Newberg, D'Aquili e Rause, 2002).
Il meno che si possa dire di questi studi è
che sembra difficile difenderli dal sospetto di un macroscopico
errore categoriale: registrare tecnicamente l'esperienza religiosa
non permette in nessun modo affermazioni esistenziali sul loro
contenuto esperienziale.