E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

giovedì 21 settembre 2017

Nuovo diario buddhista, 1

Nell’estate del 2005 stavo diventando buddhista da appena un mese. Appena finito di esaminare i maturandi al Galfer di Torino, partii per un viaggetto da Leonardo a Venezia. Ci trovammo al bar Rosso in campo Santa Margherita, e il discorso sul buddhismo venne fuori subito. Scherzando dissi a Leo che volevo fare proseliti e convertire tutti gli amici. Non era così falso anche se lì per lì pensavo di essere ironico. Avevo inziato a diventare buddhista dopo un percorso abbastanza lungo, cominciato con la fine della mia storia con F. La strada verso il buddhismo doveva essere una sorta di destino perché non sono andato in cerca di nulla. Gli eventi sono avvenuti, dipendevano dal mio karma.

Nel settembre del 2003 F. ed io ci lasciammo dopo una storia violenta e abbastanza tragica. In termini di karma, entrambi ce lo siamo sporcato con le cattiverie che ci siamo fatti. F. odiava molto il mio marxismo e questo mi ha scosso le certezze, facendo sì che poco dopo esserci lasciati io comprendessi come la mia vera ispirazione politica fosse l’anarchismo e non il marxismo. Tutt’ora vorrei studiare seriamente i rapporti reali e possibili tra buddhismo e anarchismo (storicamente credo siano pochi).

Finché ero marxista non sarei potuto diventare buddhista perché «la religione è l’oppio dei popoli». Una volta diventato anarchico mi sono convinto a dirmi ateo, anche se qualcosa non mi convinceva nell’odio degli anarchici spagnoli contro il cattolicesimo: le famose fucilazioni delle statue di Cristo, e gli incendi delle chiese non mi parevano atti politici intelligenti... (D’altra parte va detto che Durruti non è responsabile dell’incendio della cattedrale di ...). Però non avevo ancora messo a fuoco la nonviolenza dunque non capivo che cosa non mi stesse bene dell’anarchismo. Divenni anarchico grazie ai libri di Chomsky. Fu un passo importante per liberarmi del mio dogmatismo razionalista;

Poi iniziai ad andare settimanalmente dal Dottor B., psicanalista freudiano torinese molto figo, perché dopo F. con le donne mi sentivo un disastro. La psicanalisi è praticamente opposta al buddhismo, perché questo predica l’assenza di un Io, quella te lo vuole rafforzare.

In prospettiva buddhista la contraddizione si supera facilmente, ma per la psicanalisi il complesso di credenze buddhiste deve necessariamente risultare una copertura di ragioni più psicomateriali e in ultima istanza legate alla libido.

Diciamo che se non ci riesci diversamente, con la sola pratica buddista, la psicanalisi può darti quella tranquillità nei confronti di te stesso che poi ti permetterà di trascenderti attraverso la pratica della presenza mentale e la meditazione sul non-sé. 

Quando ho iniziato a parlare del buddhismo al Dottor B. lui ha detto che gli sembrava che io non volessi impegnarmi in una sola cosa. Ha ragione: perché mai dovrei?

Nel luglio 2004, infine, sono iniziati i miei problemi di salute per le intolleranze alimentari sovrapposte: ho abbandonato l’alcol e sono diventato tendenzialmente vegetariano. Bizzarramente iniziai a stare male per l’alimentazione proprio mentre leggevo Gandhi e Capitini che legano dieta vegetariana e nonviolenza.

Al momento attuale ho scoperto che tutte le mie presunte intolleranze erano frutto della mia mente. Sto benissimo, me lo ha fatto capire un dietologo che mi ha anche ingiunto una dieta iperproteica per mettere su muscoli (sono astenico) e di correre tre volte alla settimana per allenarmi alla maratona. Questo sarà difficile ma l'allenamento l'ho iniziato.

mercoledì 20 settembre 2017

Diario della presenza mentale, 9

In La biada quotidiana, 2 (Spinoza e la presenza mentale), si era affacciata per l'ultima volta nelle mie note la Presenza Mentale (d'ora in poi PM).

Oggi è ritornata.

Penso che la PM sia una sorta di grazia. In ogni caso non è possibile darsela.
Oggi pomeriggio ha fatto la sua ricomparsa.
Sembra l'effetto remoto di una lunghissima, misteriosa, catena causale.
In certe situazioni "mi torna in mente" la (possibilità della) PM: allora provo a praticarla e dopo pochi secondi percepisco me stesso in un altro modo, mi rilasso, mi pare di ricordarmi che non ci sia nulla di cui preoccuparsi.
La sensazione dura però pochi secondi, poi scompare. A quel punto sento che dovrei fare un grande sforzo per ricominciare*.

Credo che, questa volta, la PM mi sia tornata per via delle mie letture di Emanuele Severino: l'idea che tutto sia eterno non mi risulta più così assurda come un tempo. Del resto, quando anni fa mi dedicai al buddhismo zen, riuscivo a pensare l'essere-vuoto del tutto. (Sono idee complementari? Sono la stessa idea?)


*Nel Diario della presenza mentale, 8, dicevo infatti: "una volta che l'idea della presenza mentale è presente, bisogna usare la volontà per praticarla. La mia volontà deve anzi lottare duramente contro l'inerzia della mente per riuscire a concentrarsi nella propria autopresenza.
So che la mia coscienza può cambiare di qualità attraverso la presenza mentale, anche se non l'ho mai sperimentata per tempi lunghi. Ormai penso di dovermelo imporre volontariamente."

Oltre i limiti del pensiero, di Graham Priest

1. I limiti del pensiero

La finitudine è un fatto fondamentale dell'esistenza umana. Che si tratti di una fonte di dolore o di sollievo, è indubbio che ci siano limiti a ciò che le persone vogliono  fare, siano essi limiti della resistenza umana, delle risorse, o della vita stessa. Quali siano questi limiti, talvolta possiamo solo ipotizzarlo; ma che ci siano, lo sappiamo. Ad esempio, possiamo solo indovinare quale sia il tempo limite per correre un chilometro; ma sappiamo che c'è un limite, imposto dalla velocità della luce, se non da molte cose più terrene.La finitudine è un fatto fondamentale dell'esistenza umana. Che si tratti di una fonte di dolore o di sollievo, è indubbio che ci siano limiti a ciò che le persone vogliono  fare, siano essi limiti della resistenza umana, delle risorse, o della vita stessa. Quali siano questi limiti, talvolta possiamo solo ipotizzarlo; ma che ci siano, lo sappiamo. Ad esempio, possiamo solo indovinare quale sia il tempo limite per correre un chilometro; ma sappiamo che c'è un limite, imposto dalla velocità della luce, se non da molte cose più terrene.
Questo libro parla di un certo genere di limite; non i limiti degli sforzi fisici come correre un chilometro, ma i limiti della mente. Li chiamerò limiti del pensiero, anche se "il pensiero", qui, deve essere compreso nel senso oggettivo, fregeano, in quanto riguarda il contenuto dei nostri stati intenzionali, non la nostra coscienza soggettiva. Si potrebbero anche descrivere come limiti concettuali, in quanto riguardano i limiti dei nostri concetti. Comunque li si chiami, alla fine del libro avrò dato una precisa caratterizzazione strutturale dei limiti in questione, nella forma dello Schema di Inclusione. Per ora, alcuni esempi basteranno a indicare ciò che ho in mente: il limite di ciò che può essere espresso; il limite di ciò che può essere descritto o concepito; la linea di ciò che può essere conosciuto; il limite di iterazione di qualche operazione o simili, l'infinito nel suo senso matematico.

sabato 16 settembre 2017

Lacan ha rotto i coglioni (da Fools, Frauds and Firebrands di Roger Scruton)

Lacan è stato descritto da Raymond Tallis come "lo strizzacervelli venuto dall'inferno", parole che caratterizzano in modo adeguato la pratica di uno psicoanalista che poteva vedere dieci clienti in un'ora, a volte assistito dal suo barbiere, sarto o pedicurista e la cui idea di cura era quella di insegnare ai pazienti a parlare, pensare e sentire nello stesso linguaggio paranoico del proprio medico. Ma forse non dovremmo essere troppo duri con Lacan da questo punto di vista. Le persone diventano famose come psicoanalisti non per i loro successi terapeutici (forse non ce ne sono), ma per le loro idee. E la fama di un'idea nasce dalla sua influenza, non dalla sua verità. Lo stesso valeva per Freud, Jung e Adler; così è stato per Klein, Binswanger, Lacan e molti altri.
L'inconscio, ha scritto Lacan, è strutturato come un linguaggio. Ed egli ha cominciato a interpretare questo linguaggio prendendo a prestito termini della linguistica saussuriana, insieme all'idea dell'Altro, come l'aveva trovata in Kojève. Ha anche disseminato i suoi scritti e le sue lezioni di gergo matematico, tratto da teorie che non si curava capire, ma cui si riferiva aleatoriamente come "matemi",  per analogia con i fonemi e i morfemi in cui i linguisti dividono le parti funzionali linguaggio. (Con una mossa simile, Lévi-Strauss più o meno nello stesso tempo introdusse il 'mitema' e Derrida il 'filosofema', un uso che era stato anticipato da Schelling).
C'è, suggerisce Lacan, un grande Altro (A maiuscola per "Autre"), che è la sfida presentata al sé dal non-sé. Questo grande Altro insegue il mondo percepito con il pensiero di un potere dominante e di controllo - un potere che allo stesso tempo cerchiamo e fuggiamo. C'è anche il piccolo altro (a minuscola per "autre") che non è veramente distinto dal sé, ma è la cosa vista nello specchio durante quella fase di sviluppo che Lacan chiama lo "stadio dello specchio ", quando il bambino apparentemente si è riconosciuto nello specchio e dice 'ah-ha!'. Questo è il punto di riconoscimento, quando l'infante incontra prima l'oggetto = 'a', che in qualche modo -  che ritengo impossibile decifrare - indica sia il desiderio che la sua assenza. (Si noti, però - anche se Lacan caratteristicamente non lo fa - che i bambini ciechi diventano abili nella pratica di distinguere sé dagli altri alla stessa età dei bambini vedenti).
La fase dello specchio fornisce all'infanzia un'idea illusoria (e breve) del Sé, come un onnipotente altro nel mondo degli altri. Ma questo sé è presto schiacciato dal grande Altro, un personaggio basato sullo scenario del seno buono/cattivo, poliziotto buono/poliziotto cattivo inventato da Melanie Klein. Nel corso dell'esposizione delle tragiche conseguenze di questo incontro, Lacan si presenta con intuizioni sorprendenti, spesso ripetute senza spiegazioni dai suoi discepoli, come se avessero cambiato il corso della storia intellettuale. Una in particolare viene continuamente ripetuta: «non c'è relazione sessuale», un'osservazione interessante proveniente da un seduttore seriale da cui nessuna donna, nemmeno le sue analizzanti, era sicura.

(traduzione in fieri, continua...)

martedì 5 settembre 2017

Pensare le migrazioni: la Conclusione Ripugnante di Derek Parfit (mia traduzione di The Repugnant Conclusion, Stanford Encyclopedia of Philosophy)

Nella formulazione originale di Derek Parfit, la conclusione ripugnante è espressa così: "Per qualsiasi popolazione di almeno dieci milioni di persone, tutte con una qualità di vita molto alta, deve essere immaginabile una popolazione molto più grande la cui esistenza, a parità di tutte le altre condizioni, sarebbe migliore anche se i suoi membri avessero vite che a malapena varrebbe la pena di vivere "(Parfit 1984). La conclusione ripugnante mette in evidenza un problema in un'area dell'etica che è diventata nota come etica della popolazione. Gli ultimi tre decenni sono stati testimoni di un crescente interesse filosofico su questioni come "è possibile rendere il mondo un luogo migliore creando ulteriori persone felici?" E "C'è un obbligo morale di avere figli?". Il problema principale è stato quello di trovare un'adeguata teoria sul valore morale degli stati in cui possono variare il numero di persone, la qualità della loro vita (o il loro benessere ...) e le loro identità. Dal momento che, si può argomentare, qualsiasi teoria morale ragionevole deve prendere in considerazione questi aspetti di possibili stati di cose per determinare lo status normativo delle azioni, lo studio dell'etica della popolazione è di importanza generale per la teoria morale. Come indica il nome, Parfit ritrova inaccettabile la Conclusione Ripugnante e molti filosofi sono d'accordo. Tuttavia, è stato sorprendentemente difficile trovare una teoria che eviti la conclusione ripugnante senza implicare altre conclusioni altrettanto controintuitive. Pertanto, la questione su come la Conclusione Riepugnante debba essere affrontata e, più in generale, ciò che essa dimostra circa la natura dell'etica ha trasformato la conclusione in una delle sfide cardinali dell'etica moderna.

(...continua...)


https://plato.stanford.edu/entries/repugnant-conclusion/