Sono dunque giunto al cuore del mio racconto, eppure qualcosa mi trattiene dall’avanzare. Qualcosa di temibile, che è certo terrore di rivivere la morte di mio padre ma anche una specie di autodifesa interna allo scrivere, come se narrare ciò che più mi importa potesse dimostrarmi che in realtà non è qualcosa di così importante. Ho paura di scoprire improvvisamente la pochezza del mio punto di vista, l’insignificanza del mio piccolo io che ancora piange la morte del padre, ho paura di scoprire che la sua morte non solo non ha alcun senso ma non è nemmeno raccontabile.
Mi trovo qui di fronte alla questione del senso, su cui sono stato profondamente tormentato da Ludwig Wittgenstein, quando lo lessi al mio primo anno di università:
"ll senso del mondo dev'essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v'è, dev'esser fuori d'ogni avvenire ed essere-cosí. Infatti ogni avvenire ed essere-cosí è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev'essere fuori del mondo." (Tractatus logico-philosophicus, 6.41)
"ll senso del mondo dev'essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v'è, dev'esser fuori d'ogni avvenire ed essere-cosí. Infatti ogni avvenire ed essere-cosí è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev'essere fuori del mondo." (Tractatus logico-philosophicus, 6.41)
Che il senso del mondo sia fuori di esso significa che è ineffabile. E dunque, se è ineffabile, di che sto a parlare?
“Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, conclude lo stesso Wittgenstein alla fine del Tractatus (esponendo la più famosa contraddizione filosofica del ventesimo secolo, poiché il suo libro parla proprio di ciò di cui non si potrebbe, secondo lui).
Ma Jacques Derrida ed Ermanno Bencivenga hanno dato due diverse risposte a Wittgenstein che mi spronano a proseguire.
Derrida: "Ciò che non può essere detto, non bisogna soprattutto tacerlo, ma bisogna scriverlo." (La carte postale, p. 209)
Ed Ermanno Bencivenga: “Solo di ciò di cui non si può parlare non si deve tacere” (Teoria del linguaggio e della mente, 8).
Se Bencivenga chiaramente esagera senza motivo, Derrida mi rassicura sul fatto che ho ragione di scrivere.
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