E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

lunedì 29 agosto 2011

Sergio Liberovici, o la musica “per bambini dagli 0 ai 13 anni”

Quando si parla di musica e bambini non si può non rievocare la complessa e straordinaria figura del grande Sergio Liberovici (1930-1991), col quale Giulio Castagnoli ha avuto un lungo e fruttuoso sodalizio. Liberovici, che amava definirsi “irregolare”, era un musicista poliedrico, allo stesso tempo d'avanguardia e attento alla dimensione popolare e politica della musica: la sua attività forse più nota al grande pubblico è legata alla costituzione del Cantacronache, “per promuovere la canzone d’autore, in contrasto col dilagare della musica leggera” (sue sono le due famose canzoni su testo di Italo Calvino, Oltre il ponte e Dove vola l’avvoltoio?).
Liberovici fu direttore del Teatro Ragazzi dello Stabile torinese da lui fondato nel 1975; sostenuto dalla Città di Torino fondò poi nei primi anni ’80 un Laboratorio di Didattica Musicale per l’Infanzia, tuttora in attività. Giulio Castagnoli iniziò la sua collaborazione con Liberovici quando il maestro più anziano scrisse un libretto per il più giovane, che divenne poi Le ore e le lune, operina per le scuole medie. A partire dalla metà degli anni Settanta, insieme ad altri giovani compositori, Castagnoli lavorò con Liberovici a una serie di “operine da camera e da scuola”: alcune erano scritte direttamente dai bambini, altre erano scritte dagli adulti ma eseguite dai bambini, in un lavoro comune che era il frutto di una perfetta sinergia tra infanzia e autorialità.
Per Liberovici i bambini erano il punto di arrivo della sua esperienza musicale: aveva infatti sviluppato una metodologia didattica “per bambini dagli 0 ai 13 anni”. Proprio perché pensava che “la musica è da sempre dentro tutti noi, sin da quando siamo bambini, addirittura in fasce” (Castagnoli). Oggi gli studi neuroscientifici sui bambini danno pienamente ragione a questa intuizione, peraltro comune a musicisti di tutte le epoche. Questa metodologia dava centralità alla scrittura, collegava direttamente l’invenzione alla scrittura (“sai, era un metodo un po’ da compositori, quali eravamo tutti…”, scherza Castagnoli), il che fa una gran differenza rispetto ai metodi didattici per bambini oggi più diffusi (Suzuki, Yamaha), che non ricorrono all’intermediazione della scrittura e quindi della logica: i bambini manipolavano per esempio carte da gioco associate ad elementi musicali, e l’operina si componeva attraverso l’azione segnica dei bambini che poi si trasformava in opera secondo una logica ferrea; il risultato univa la combinatorialità in auge in quegli anni con la creatività ludica tipica dell'età infantile (i materiali scenici, le scenografie e i costumi erano opera di importanti artisti come Ugo Nespolo, Francesco Casorati, Mauro Chessa).
Dell’esperienza liberoviciana Castagnoli è oggi un ideale continuatore insieme alla moglie Erika Patrucco: insieme hanno fondato il gruppo casalese L’Opera dei Ragazzi: “le operine scolastiche che il gruppo esegue oggi (insieme ad alcune canzoni del Cantacronache) sono tratte dai numerosi fascicoli della “Verità da due soldi” pubblicati dal maestro nei primi anni Ottanta per la nostra città”.
Nel corso del prossimo Settembre Musica, l'11 settembre, Giulio Castagnoli sarà al centro di una giornata di rievocazione della figura e dell’opera di Sergio Liberovici, Intorno a / insieme a / con Sergio Liberovici, vent’anni dopo (Musica, dialoghi, racconti e interventi sul compositore, etnomusicologo e didatta torinese) che si terrà al al Teatro Vittoria (ex cinema Vittoria, via Gramsci angolo via Roma) dalle 15.30 alle 19.30 (http://www.mitosettembremusica.it/mitosearch/router?cerca1=liberovici&cerca2=1&x=0&y=0). Verranno eseguite l'operina didattica Il cavallo arcobaleno e Bandiere, relazione da concerto per soprano, coro, due attori, pianoforte, tromba e percussioni. Speriamo con tutto il cuore che il pubblico accorrerà numeroso: non sarebbe forse ora di tornare agli ideali concreti di persone come Sergio Liberovici, per lasciarci alle spalle gli anni bui di X Factor?

sabato 27 agosto 2011

Diario online, 2

Da oggi Agostino usa spontaneamente e appropriatamente il pronome "io". Lo usa ripetutamente, ostentatamente, come per rimarcare l'appropriazione della parola la cui regola d'uso finora gli sfuggiva. Dice "faccio io", "mangio io", "bevo io" ecc. con un'enfasi voluta ma diversa da quella sintatticamente normale: non sottolinea che E' LUI a fare x, bensì che SA come dire che LUI fa x.

Lo scrivo quassù perché non so più dove scrivere cose così.
Un giorno Agostino leggerà il mio blog e ritroverà le tracce del suo ignoto e remoto passato.

Caro Agostino, quando leggerai questi post... chissà come sarà il mondo e chissà dove sarò io, e chissà come sarai tu. Sarebbe bello un giorno poter ragionare insieme di quello che allora sarà il passato e il presente. Ma nulla è scontato, e la possibilità che tutto diventi impossibile è sempre in agguato.

giovedì 25 agosto 2011

Ritratto di Sergio Liberovici, di Giulio Castagnoli (Magister meus). Note di sala per il concerto dell'11 settembre, a Torino (Settembremusica)


C'è un aggettivo con cui Sergio Liberovici amava definirsi: irregolare. Tali furono, infatti, i suoi studi musicali nei tragici anni a cavallo della seconda guerra mondiale in cui ben poche erano le certezze. Nato nel 1930 a Torino, dove il padre era giunto dalla Moldavia, prende giovanissimo lezioni di violino e pianoforte alla scuola ebraica: suoi insegnanti sono a partire dal ’38 alcuni dei migliori strumentisti italiani espulsi da Conservatori ed orchestre a causa delle leggi razziali. A soli quattordici anni impugna il fucile nella lotta partigiana tra le colline e le risaie attorno a Casale Monferrato, dove si rifugia per scappare alla deportazione e alla cui comunità israelitica è legata la madre Cecilia Treves. Nel dopoguerra torna a Torino come pianista della scuola di danza di Susanna Egri, mentre Iginio Fuga gli impartisce lezioni d'armonia, e Sandro Fuga di pianoforte. Gli studi durano poco per vari motivi, non ultimo il frenetico ritmo di lavoro di Sergio, che preferisce ai libri la frequentazione diretta della musica: per la Egri compone nel 1954 il balletto Chagalliana, portato in tournée in tutt’Europa. Due anni dopo, con Italo Calvino che gli scrive il suo primo libretto d’opera ispirato ad un episodio di Marcovaldo, compone l’atto unico La panchina per il Teatro delle Novità di Bergamo di Bindo Missiroli. Nello stesso 1956, e sempre con Calvino, scrive il balletto Lo spaventapasseri, mentre Massimo Mila gli chiede di fargli da vice sulle pagine dell’Unità. Come capita a tutti i giovani del mestiere, gli vengono affidati i concerti minori, con pubblico rado e mediocri esecuzioni, per cui gli sorge spontanea la domanda per chi e per che cosa comporre.

Liberovici vi trova risposta ancora una volta nel fare, e muta leggermente rotta. Seguendo il suo istinto, che da sempre lo porta verso il palcoscenico (Sergio non capiva come la gente potesse amare il cinema, che per lui significava stare fermi davanti ad un muro bianco!), con altri intellettuali e uomini di teatro posa la prima pietra del Teatro Stabile di Torino. Inizia subito a comporre per la scena: sono oltre cento le sue pièces scritte per i principali registi in più di trent’anni. Nel 1957 fonda con lo stesso gruppo di amici (fra gli altri, oltre a Calvino, Franco Antonicelli, Emilio Jona, Michele Straniero) il Cantacronache per promuovere la canzone d’autore, in contrasto col dilagare della musica leggera: tra le 105 canzoni che Liberovici compose nel decennio successivo, forse le più celebri restano quelle su testo di Calvino: Oltre il ponte, Dove vola l’avvoltoio?, Canzone triste e Il padrone del mondo.

Negli stessi anni Liberovici documenta con registrazioni il canto popolare, di protesta, contadino e operaio, in spedizioni sull’altopiano di Asiago, in Polesine, Monferrato, Val di Cogne, Spagna, nell’Algeria in guerra. Il frutto delle ricerche è pubblicato su dischi e libri, uno dei quali è tolto dal commercio a causa della censura. Spesso i materiali raccolti sono riutilizzati creativamente, a volte come semplici spunti per musiche di scena, altre volte come tessere di ampi mosaici che giungono a costituire veri e propri lavori di teatro musicale. È questo il caso, ad esempio, dell’Ingiustizia assoluta, cantata drammatica per attori, gruppo folk e banda musicale scritto nel ’73 per il Teatro Regionale Toscano, oppure, nel 1982, di Bandiere che si presenta oggi a conclusione della giornata dedicatagli a vent’anni dalla scomparsa.

In questi grandi affreschi si trova la cifra più significativa della lezione artistica di Sergio Liberovici: la musica è un fatto collettivo. Si fa, cioè, sempre musica insieme: tale è il nome scelto per la cooperativa fondata da Liberovici nel 1983 con molti giovani (allora) musicisti torinesi, ma tale è anche il titolo del suo libro di Educazione Musicale per la scuola media pubblicato per la Nuova Italia nel ’77, ricchissimo di spunti ma ben poco preso in considerazione da una scuola refrattaria alla ricerca in campo didattico.

Tutti, quando sono insieme, fanno - anche inconsapevolmente - musica. Outis Topos - un lavoro per la radio fatto con Andrea Camilleri e premiato al XXV Prix Italia del 1973 (Liberovici scrisse la musica di molte produzioni RAI, fra cui la celebre serie televisiva del Marcovaldo) – è la dimostrazione che questo modo di vedere le cose può portare a vere e proprie creazioni artistiche. Per la realizzazione di questa radio-opera sono utilizzate, infatti, solo registrazioni di episodi di vita cittadina, slogan di cortei e manifestazioni, canti popolari di protesta e di svago. Il risultato è un lavoro di musica concreta (a mo’ di collage) sul quale il compositore è intervenuto riorganizzando il materiale documentario, integrandolo e rielaborandolo in vario modo.

L’altro punto di partenza del comporre di Liberovici è che la musica è da sempre dentro tutti noi, sin da quando siamo bambini, addirittura in fasce. La ricerca di una musicalità primigenia è la molla che spinge Liberovici a occuparsi di infanzia, non senza una punta di ironia nei confronti di chi, in seguito al suo primo grave malore sul finire degli anni ’70 (che lo costringe ad un lungo periodo di degenza ospedaliera), lo allontana dall’incarico di direttore del Teatro Ragazzi dello Stabile torinese da lui fondato nel 1975. In poco più di un decennio di intensa attività a diretto contatto con i bambini della scuola materna ed elementare egli sviluppa così un proprio metodo di lavoro “per bambini dagli 0 ai 13 anni” che trova fondamento proprio nel teatro musicale, inteso come un’estensione del gioco. Negli stessi anni il mondo scolastico nazionale si trova d’accordo nell’esigenza di rinnovamento dei programmi scolastici (pubblicati poi nel 1985), e non può rimanere indifferente al lavoro di Liberovici. Sostenuto dalla Città di Torino, egli fonda così nei primi anni ’80 un Laboratorio di Didattica Musicale per l’Infanzia, tuttora in attività. Subito dopo, a metà degli anni '80, si fa promotore dell’Opera dei bambini, insieme a un gruppo di giovani compositori che dal suo fare traggono idee e suggestioni. Nascono così molti spettacoli ed operine da camera e da scuola (fra tutte: Il grande chiasso del 1982-83) anche in collaborazione con importanti pittori (Francesco Casorati, Mauro Chessa, Ugo Nespolo) che ne curano materiali scenici e costumi, e si apre una scuola di musica, che diventa subito un laboratorio di nuove metodologie didattiche. Il gruppo casalese L’Opera dei Ragazzi vuole esserne un’ideale prosecuzione: le operine scolastiche che il gruppo esegue oggi (insieme ad alcune canzoni del Cantacronache) sono tratte dai numerosi fascicoli della “Verità da due soldi” pubblicati dal maestro nei primi anni Ottanta per la nostra città.

Se la musica è già presente nel bambino, se chiunque può far musica, allora studio e dedizione sono inutili? La risposta è del tutto negativa: non ci fu attimo della sua esistenza in cui Sergio non pensò alla vita che in termini musicali. Anche se la sua Weltanschaung fu tutt’altro che di tipo tradizionalmente religioso, si può dire senza forzatura che egli fece propria la visione del mondo illustrata dai Salmi davidici: tutta la vita è un canto, dal sorgere del sole sino al tramonto. Per dirla in modo forse a lui più consono, l’uomo ha il dono di un’intelligenza musicale che gli dà gioia e nello stesso tempo gli consente di sviluppare al meglio l’innata attitudine di animale politico. La musica, cioè, costituisce il più formidabile modo di espressione della natura umana e il vero legante naturale del vivere sociale.

Sorge spontanea, a questo punto, la domanda su quanto nella società italiana d’oggi si stia facendo per fare della musica un elemento portante in campo educativo e sociale. Si lascia qui al lettore la risposta.

Bandiere fu scritto espressamente per le celebrazioni del centenario della fondazione del Partito Operaio Italiano, tra il 27 e il 30 maggio 1982. I temi di dibattito possono essere facilmente immaginati a partire dal titolo stesso del convegno: “La cultura operaia nella società industrializzata”. A tavole rotonde su “Classe operaia: utilità e limiti di un concetto”, oppure “La cultura del lavoro”, si succedono relazioni di ricercatori e professori universitari. Il lavoro di Liberovici chiude la giornata del 29 maggio, eseguito dall’allora Coro della RAI di Torino nell’aula del parlamento di Palazzo Carignano alle ore 18. Per questo l’autore vi aggiunge il sottotitolo “relazione da concerto su frammenti di canti, documenti, testimonianze popolari”.

Nel corso del brano si presenta la storia di una bandiera attraverso documenti registrati. Essa è confezionata ed arricchita di simboli a “punto erba”, e viene poi inaugurata con una cerimonia; in seguito la si porta in battaglia e nella successiva riscossa. Se ne piange infine la distruzione, prima di levare un canto per una nuova bandiera, ancora da tessere.

Attraverso questo semplice filo narrativo si dipanano canti e testimonianze in vari dialetti riprodotti nel corso dell’esecuzione su nastro magnetico. Su questo primo livello di tipo documentaristico si libera l’invenzione del compositore, che riverbera il canto popolare nelle voci della solista e del coro, oltre che nell’insieme strumentale (tromba, timpani e pianoforte). Inoltre i due attori leggono tradotti in lingua i testi registrati, spesso scandendoli con ritmo musicale. Il gioco compositivo fra questi strati genera - con raffinata sapienza nell’uso di mezzi tanto semplici - echi e risonanze che elevano musica e testo in una zona aurorale dell’espressività e regalano all’intero lavoro un’aura epica. La bandiera così da puro elemento simbolico - come siamo abituati a considerarla - si muta in personaggio mitico: così, grazie alla musica, la sua storia perde quei connotati contingenti che potrebbero far storcere il naso a qualche ascoltatore contemporaneo, e si trasferisce in una dimensione atemporale che appartiene a tutti.

Gli anni ’80 impegnano Liberovici anche nella realizzazione del suo ultimo lavoro, l’opera Maelzel, o delle macchinazioni. Il compositore va alla ricerca di fonti sull’inventore del metronomo in musei e biblioteche europee, e fornisce all'amico librettista Emilio Jona molto materiale. Nasce così un’opera in tre atti per soli, coro, orchestra e strumenti elettronici, pubblicata da Casa Ricordi, la cui orchestrazione è stata completata da Luciano Berio in collaborazione con chi scrive queste note e Giuseppe Gavazza. L’opera, commissionata dal Teatro Regio di Torino, a causa di strane alchimie di cui è ricca la storia della musica non è stata poi messa in scena. L’ultimo lavoro che l’autore ebbe il piacere di veder rappresentato è De origine musices sul famoso passo lucreziano, in una nuova versione italiana curata per l'occasione da Edoardo Sanguineti. La cantata fu eseguita dal Coro e dall’Orchestra della Scuola di Musica di Fiesole nel Settembre Musica torinese del 1990.

Riferimento costante della vita artistica di Sergio Liberovici sono stati compositori come Hans Eisler, Kurt Weil, e Paul Dessau, che amavano il teatro e non disdegnavano di lavorare con i ragazzi, Béla Bártok, i classici teatrali (Shakespeare e Brecht), il canto popolare (“dietro il quale si intravede sempre l'uomo”). Forse Chagall, il cui mondo d’ebreo russo Sergio portava nell'anima e negli occhi chiari.

Diario online, 1

25 agosto

Questa mattina, appena sveglio ma ancora nel letto, ho immaginato di parlare col mio vecchio psicoanalista. La prima volta che l'ho fatto in vita mia andavo ancora da lui, ed era il giorno della scelta della cattedra di ruolo: erano le otto del mattino e all'ultimo momento si erano liberati alcuni licei del centro città che fino al giorno prima risultavano indisponibili. Ma io avevo già fatto le mie indagini e le mie riflessioni e avevo scelto un liceo internazionale che sembrava molto bello, mentre scegliere all'ultimo momento un'altra scuola solo per la sua renommée non mi pareva una bella idea. Nessuno rispondeva al telefono, né mia madre, né il mio fidato collega Enrico, né la mia fidanzata, perciò mi immaginai che cosa avrebbe detto il Borgogno: “se ha preso informazioni su quella scuola e le sembra buona, perché adesso all'ultimo vuole cambiare idea?”. Così feci una scelta di cui non mi pentii mai.
Anche questa mattina mi ha fatto bene immaginare di parlare col mio ex-psicoanalista. Mi sono fatto fare le domande che io stesso non mi facevo più da molto tempo: che cosa c'è che non va, di che cosa hai paura, che cosa speri e via dicendo.
È strano che uno non si fermi mai a farsi queste domande se non in momenti particolari della sua esistenza: se l'esistenza è piena di cose da fare (“cose da fare” per Heidegger vuol dire avere un'esistenza inautentica...) uno pensa sempre di sapere esattamente che cosa vuole e che cosa non vuole, e quando glielo si chiede risponde senza esitare. È il meccanismo psicologico che agli occhi di buona parte degli esseri umani rende inutile la filosofia o la psicologia, quella self-assurance che ci manda avanti anche se in maniera stupida e talvolta autodistruttiva.

Questo ringrazio dell'avere fatto una psicoterapia psicoanalitica per alcuni anni: ho interiorizzato la saggezza (o il semplice buon senso) del mio analista (che sostituiva semplicemente quella di un bravo genitore), e all'occorrenza posso immaginarmi come andrebbe un dialogo con lui e che cosa mi direbbe o mi indurrebbe a dover ammettere, facendomi rinunciare alle mie resistenze narcisistiche.

domenica 21 agosto 2011

Prossimo talk, EMPG, Parigi, 31 agosto 2011


Mental and mathematical representations of music
M. Andreatta1, E. Acotto2

1. IRCAM, 1, place I. Stravinsky 75004 Paris
2. University of Turin, Corso Svizzera 185 10149 Turin
Moreno.Andreatta@ircam.fr, acotto@di.unito.it
Keywords: mental representations, mathematical models of music, musical cognition.

In musicological literature the concept of representation is quite widespread, even if in few cases it is completely analysed from a philosophical and psychological point of view [1]. We analyse here two different possible senses of the concept of musical representations: we distinguish between mental and mathematical representations of music [2]. Mental representations of music are the objects of the musical mind, the material of the musical cognition: they are private representations and they can be (meta)represented by public representations which are similar to the private mental representations [3]. On the other hand, mathematical representations of music are public representations which could be cognitively correlated with mental representations of music.
In many popular cognitive theories of music the mental representations of music are considered to be construed by the mind according with the musical flow [4], but in other models, like Generative Theory of Tonal Music [5] the mental representations of music are considered in the framework of a final-state theory. The computational approach to the musicology grounded on formal mathematical models uses written representations of music with a precise analytical function.
If mental representations of music are by definition a matter of cognitive psychology and philosophy, it can be argued that also mathematical representations of music have some cognitive correlates enabling the understanding of non-tonal music. Amongst the many typologies of mathematical representations of music we will analyse in details some examples about the so-called transformational analysis, which is a formalised subfield of computational musicology coming from the American Tradition [6]. The transformational paradigm in music also opens new questions about the cognitive and philosophical ramifications of algebraic approaches in music theory, analysis and composition, as we will discuss at the end of our talk by presenting some relationships between this approach in musicology and a category-oriented version of Piaget’s genetic epistemology [7].

[1] C. Nussbaum, The musical representation, The Mit Press, Cambridge, Massachusetts, 2007.
[2] M. Chemillier, “Représentations musicales et représentations mathématiques”, Musique et Schème. Entre percept et concept, Béatrice Ramaut-Chevassus ed., Publications de l’université de Saint-Etienne, 2007.
[3] D. Sperber, Metarepresentations in an evolutionary perspective, in Dan Sperber ed. Metarepresentations: A Multidisciplinary Perspective Oxford University Press, 2000, 117-137.
[4] E. Margulis, A Model of Melodic Expectation, Music Perception, 22, 4, Summer 2005, 663–714.
[5] R. Lerdahl, R. Jackendoff, A Generative Theory of Tonal Music, MIT press, 1983.
[6] M. Andreatta (dir.), Around Set Theory, Collection “Musique/Sciences”, Ircam, 2008.
[7] M. Andreatta, « Calcul algébrique et calcul catégoriel en musique : aspects théoriques et informatiques », Le calcul de la musique, L. Pottier (éd.), Publications de l'université de Saint-Etienne, 2008, p. 429-477

mercoledì 10 agosto 2011

Guy Debord sulla rivolta di Los Angeles del 1965 (Estratto da Il Pianeta malato, Edizioni Nottetempo, mia traduzione)

Il declino e la caduta dell’economia spettacolare-mercantile1.



Fra il 13 e il 16 agosto 1965, la popolazione nera di Los Angeles si è sollevata. Un incidente che ha opposto polizia stradale e passanti si è sviluppato in due giornate di tumulti spontanei. I crescenti rinforzi delle forze dell’ordine non sono stati in grado di riprendere il controllo della strada. Verso il terzo giorno i Neri hanno preso le armi, saccheggiando le armerie accessibili, e così hanno potuto sparare anche sugli elicotteri della polizia. Si sono dovuti lanciare nella lotta per circoscrivere la rivolta nel quartiere di Watts migliaia di soldati e poliziotti – il peso militare di una divisione di fanteria, appoggiata dai carri armati ; poi, per riconquistarlo a prezzo di numerosi combattimenti di strada durati diversi giorni, gli insorti hanno proceduto al saccheggio generale dei magazzini, appiccandovi il fuoco. Secondo le cifre ufficiali vi sarebbero stati 32 morti, tra cui 27 Neri, più di 800 feriti, 3000 incarcerati.


Le reazioni, da tutte le parti, hanno avuto quella chiarezza che l’evento rivoluzionario, per il fatto di essere esso stesso una chiarificazione, nei fatti, dei problemi esistenti, ha sempre il privilegio di conferire alle diverse sfumature di pensiero dei propri avversari. Il capo della polizia, William Parker, ha rifiutato ogni mediazione proposta dalle grandi organizzazioni di Neri, affermando giustamente che «questi rivoltosi non hanno capi». E certamente, poiché i Neri non avevano più capi era giunto il momento della verità in ognuno dei due campi. D’altronde, che cosa si attendeva nello stesso momento uno di quei capi disoccupati, Roy Wilkins, segretario generale della National Association for the Advancement of Colored People? Egli dichiarava che i tumulti «dovevano essere repressi facendo uso di tutta la forza necessaria». E il cardinale di Los Angeles, McIntyre, che protestava a voce alta, non protestava contro la violenza della repressione, come si potrebbe credere abile fare nel momento dell’aggiornamento [in italiano nel testo] dell’influenza romana; protestava con la massima urgenza davanti a «una rivolta premeditata contro i diritti del vicino, contro il rispetto della legge e il mantenimento dell’ordine», chiamava i cattolici a opporsi al saccheggio, a «queste violenze senza giustificazione apparente». E tutti coloro che arrivavano fino al punto di vedere le «giustificazioni apparenti» della collera dei Neri di Los Angeles, ma certo non la giustificazione reale, tutti i pensatori e i «responsabili» della sinistra mondiale, del suo nulla, hanno deplorato l’irresponsabilità e il disordine, il saccheggio, e soprattutto il fatto che il suo primo momento sia stato il saccheggio dei negozi contenti l’alcool e le armi, e i 2000 focolai d’incendio contati, con i quali gli incendiari di Watts hanno rischiarato la loro battaglia e la loro festa. Chi dunque ha preso la difesa degli insorti di Los Angeles, nei termini che essi meritano? Lo faremo noi. Lasciamo che gli economisti piangano sui 27 milioni di dollari perduti, e gli urbanisti su uno dei loro supermarket più belli, volato in fumo, e McIntyre sul suo sceriffo abbattuto; lasciamo che i sociologi si lamentino dell’assurdità e dell’ubriachezza di questa rivolta. Il ruolo di una pubblicazione rivoluzionaria, non è soltanto quello di dare ragione agli insorti di Los Angeles, ma di contribuire a dar loro le loro ragioni, di spiegare teoricamente la verità di cui l’azione pratica esprime la ricerca.

[...]


1 Le déclin et la chute de l’économie spectaculaire-marchande è stato pubblicato per la prima volta nel marzo 1966, nel numero 10 della rivista Internationale situationniste.