Tutti sono stati bambini. Conversazione con Giuseppe Caliceti
Da quando sono un insegnante ho notato che tutti gli adulti,
indipendentemente dalla loro professione, quando parlano di scuola
rimuovono costantemente la loro esperienza di studenti, dando giudizi di
taglio vagamente sociologico che magari si appoggiano sulla vicenda dei
loro figli o di adolescenti che conoscono.
Chi non lavora nella scuola – e spesso anche chi ci lavora – ha a che
fare con una rappresentazione ideologica della realtà costruita dai
media. Una rappresentazione che dipinge la scuola come il teatro di una
catastrofe e il luogo della barbarie, con il preciso compito di servire
l’attacco contro la scuola pubblica in corso da tempo, di cui i Gelmini,
Brunetta, Tremonti hanno scritto solo la pagina più recente, offensiva e
brutale. I problemi reali vengono sistematicamente ignorati e
l’invenzione di presunte emergenze serve per legittimare provvedimenti,
in genere tagli di spesa o mostruosità burocratiche inconcludenti, che
creeranno nuovi problemi: in questo modo in dieci anni la condizione
della scuola italiana, e la qualità della vita al suo interno, è
peggiorata davvero e sistematicamente.
Il sistema culturale che ha nei media il centro di irradiazione ha
rimodellato definitivamente l’economia degli affetti e del desiderio di
un paio di generazioni; la scuola è stata in parte in una prima fase
luogo di resistenza alla reificazione dei rapporti sociali, contro la
logica economicista e contro il nuovo classismo, poi, lasciata sola, è
oggi implosa su se stessa per lo sforzo immane. I docenti, sotto un
attacco politico incrociato sono più stanchi, invecchiati (si veda l’età
media) e a volte logorati, mentre i più giovani sono sistematicamente
precarizzati; per poi essere accusati di essere
il problema,
come se educare gruppi di adolescenti non fosse di per sé un lavoro
arduo e soprattutto come se ogni altra agenzia di socializzazione non
avesse sistematicamente lavorato
contro il modello educativo che trova nel sapere umanistico e scientifico il proprio vettore principale.
La cultura e l’intelligenza non interessano minimamente alla classe
dirigente italiana, che al limite se ne riempie la bocca per promuovere
le immagini delle aziende, o in chiave paternalistica e di prestigio per
accreditare gretti localismi e al massimo pubblicizzare il turismo,
secondo i cliché di lungo periodo della cultura di destra, vecchia e
nuova. Così la fatica di educare è sistematicamente delegata a una
scuola impotente, impoverita e sempre più fragile.
Tra i tanti libri sul tema è particolarmente significativo
Una scuola da rifare
(Feltrinelli, 2011) di Giuseppe Caliceti, maestro di scuola e
narratore. Un libro rivolto ai genitori, che pur essendo colpiti
direttamente dai tagli all’educazione, non sempre hanno presente quanto è
in gioco nel berlusconismo e nelle sue ‘politiche’ rivolte
all’istruzione. Del resto la stessa famiglia è al centro di una grave
crisi educativa che si avvita a sua volta con cambiamenti culturali più
vasti e problemi di comunicazione tra generazioni.
Caliceti ci fa sedere tra i banchi delle scuole elementari e ci
racconta in episodi diversi la scuola da un punto di vista microfisico;
la sua è una fenomenologia della vita quotidiana per piccoli apologhi
zen, incentrata sul mondo dei bambini e che individua nuclei didattici e
politici, i quali, colti nel vissuto ‘segreto’ dei nostri figli,
acquistano una potenza paradigmatica e oltremodo significativa. Il suo
sguardo sul mondo dell’infanzia mostra in modo più chiaro e diretto di
tanti discorsi teorici i nodi problematici della nostra scuola e le loro
cause.
Il libro contiene anche un manifesto per una vera rinascita della
scuola che affonda le sue radici nel meglio della tradizione pedagogica
italiana. “La scuola che vogliamo è: laica, gratuita, libera, solidale;
in cui si sta bene insieme; che aiuti i nostri figli a diventare adulti
felici e responsabili; sulla quale lo Stato sappia investire come una
risorsa; che valuti l’apprendimento, ma che tenga conto anche delle
emozioni; in cui i nostri figli imparino a lavorare insieme; proiettata
verso il futuro; basata sul metodo delle domande e della ricerca; in cui
i docenti siano preparati e si ricordino di essere stati bambini.
Vogliamo una scuola senza paura di sbagliare e senza fretta: neppure di
diventare grandi”. Quanto segue è una conversazione a distanza con
l’autore.
Nel tuo libro mostri quanto di falso, ideologico e propagandistico
ci sia nel ritorno a una mitica scuola dei bei vecchi tempi, i cui
simboli sono il maestro unico e il grembiulino. Viceversa spieghi in
modo semplice le ragioni della qualità della scuola pubblica italiana,
prima delle riforme che avrebbero dovuto migliorarla…
Esatto. Penso infatti ci sia stato in questi tre anni una narrazione
bugiarda da parte del governo di quanto è successo a scuola; d’altra
parte, affermare che con tagli a fondi e docenti, tagli epocali, la
qualità della scuola potesse migliorare, era senza dubbio una cosa
impossibile. L’ideologia del ritorno al passato come modello per il
futuro della scuola ha avuto buon gioco sui genitori degli alunni di
oggi perché fa leva sul loro ricordo dell’infanzia, che però è molto
diversa dall’infanzia di oggi. È un modello vecchio, anacronistico,
classista, poco solidale verso chi ha più difficoltà di apprendimento: e
oggi, i bambini che hanno difficoltà di questo tipo sono tanti e spesso
sono anche i nostri figli, non solo quelli degli altri. Una volta un
mio alunno mi ha detto che l’infanzia è quando un adulto si ricorda di
essere stato bambino; non credo ci sia una definizione più efficace per
esprimere ciò che per noi adulti è effettivamente l’infanzia; per i
bambini, per chi la sta vivendo, invece, è tutt’altro, di tutt’altra
consistenza: l’esistenza qui e ora, non un ricordo.
Mi è piaciuta molto la parte sulla valutazione e il modo in cui dai
i voti. È un tema delicato anche nella scuola superiore. Colpisce
l’attenzione per il mondo dei bambini e la tua denuncia
dell’adultizzazione precoce a cui sono sottoposti, che spesso sono i
genitori per primi ad auspicare. A questa si collegano lo spirito
competitivo e l’ossessione della misurabilità.
In Occidente ci diamo molte arie per come trattiamo i bambini, in
famiglia e a scuola, ma penso che ci sia ancora molta strada da fare. Il
fatto è che il minore è visto – e lo dice anche la parola ‘minore’
rispetto a un presunto maggiore – come un soggetto non ancora politico,
come un progetto di adulto, un prototipo. E non come una persona in fase
di crescita. Una persona a tutti gli effetti. Questo comporta tutta una
serie di miserie. Io invece, come del resto l’inventore degli asili più
belli del mondo, Loris Malaguzzi, credo che i bambini siano portatori
di una cultura altra, autonoma, completa, che sarebbe utile, in termini
evolutivi e politici, anche per i genitori, per gli adulti.
A proposito di voti e di valutazione: credo ci si debba andare piano,
con delicatezza, quando si valuta chi è ancora all’inizio o, comunque,
all’interno di un processo educativo e di apprendimento, perché il
giudizio dell’adulto, specie se negativo, incide pesantemente sul
processo stesso e può creare danni enormi nei bambini e nei ragazzi.
Affronti un discorso molto interessante sulla gestione del tempo,
ormai congestionato e pieno di impegni anche per i più piccoli, laddove
invece tempi apparentemente morti e poco produttivi sono momenti
preziosi per la vita di un gruppo; allo stesso modo una certa solitudine
interiore, l’ozio ricreativo e la lentezza, importanti per la
formazione dell’individuo sono scomparsi dalla vita dei ragazzi, che è
ormai un flusso ininterrotto di informazioni e immagini. Penso a quando
racconti del giorno in cui avete guardato la neve cadere…
Il gruppo per me è il luogo principe dell’educazione partecipata:
piccolo o grande gruppo che sia. Parlare in gruppo, per esempio, non è
facile per i bambini: in una classe di 25 alunni, parli una o due volte
ogni 25 volte che ascolti gli altri; generalmente, è qualcosa che per un
bambino – ma anche per tanti giovani adulti o adulti – è assai
difficile, quasi impossibile, se non sei stato educato a farlo. Tra
gruppo e momento individuale non c’è contraddizione, proprio perché
parlare in gruppo significa essenzialmente ascoltare. E l’ascolto è
degli altri ma anche di se stessi. Poi c’è l’altro problema del tempo
libero dei bambini, e qui intendo tempo libero come tempo senza adulti,
che ormai pare scomparso dall’infanzia e invece deve essere recuperato
perché è fondamentale per promuovere l’autonomia di chi sta crescendo.
Invece si tende a riempire di impegni continui i bambini, anche se sono
impegni privi di senso e divertimento. Ricordiamoci le parole di Rodari:
per sviluppare la creatività occorre anche che un bambino ogni tanto
sia solo e si annoi.
Educazione al consumo e alla televisione sono obiettivi prioritari
di una didattica che non sia aliena dal mondo reale. È importante che
questo avvenga alle elementari, e lo dico da insegnante di liceo che si
rapporta con ragazzi e ragazze il cui immaginario è quasi completamente
colonizzato e sovradeterminato in senso consumistico, edonista e
individualista.
L’immaginario dei bambini fino agli anni ‘70 era in mano alla Chiesa,
almeno in Italia. Poi è stato lentamente colonizzato dalla televisione.
Penso sia necessario e urgente, come scrivo anche nel libro, introdurre
come materia di scuola la lettura e lo studio dei media. E questo ancor
prima di tante altre materie che oggi sono alla moda e sembra siano più
importanti: informatica o religione, inglese o altro.
Occorre tornare a spiegare bene agli studenti, ma anche ai loro
genitori, che tra apprendere e informare e/o convincere a fare qualcosa,
per esempio comprare un prodotto o pensarla in un certo modo, c’è una
grande differenza. Mi colpisce sempre pensare alla grande quantità di
soldi che il mercato spende per convincere e alle somme sempre più
esigue e esangui destinate a educare e istruire: non credo sia un caso.
Un’altra cosa che sottolinei è l’attenzione rivolta all’imparare a
imparare, al lavoro di gruppo e alle relazioni affettive, come
precondizione per ogni compito cognitivo anche elementare. Si tratta di
un’esigenza sempre più attuale, al di là delle retoriche globalizzanti
legate al discorso sulla formazione permanente.
Certo. E, sottolineo, non solo quando gli studenti sono bambini, sono
piccoli. Perché c’è questa leggenda: che l’importanza dell’affettività e
delle relazioni affettive siano fondamentali solo nella scuola
primaria; in realtà sono sempre fondamentali. E hanno a che fare col
rapporto docente-studente e studente-docente: è quello il punto centrale
di ogni rapporto educativo. Penso che a questo proposito siano molte le
lacune dei docenti. Anche se non è tutta colpa loro. Il nostro sistema
formativo è vecchio: prevede che basti conoscere e magari amare una
materia, per saperla insegnare, come dicono Mastrocola e Gelmini. In
realtà occorre sempre partire dalla didattica e della pedagogia. Se non
si parte di lì, non si sta parlando di educazione, di scuola, ma di
altre cose.
Nei tuoi allievi vedo un’anticipazione della società italiana del
futuro; e anche dell’istruzione superiore alla quale sempre più figli di
migranti accedono, con conseguenze rilevanti, ma sostanzialmente
ignorate, su programmi e canoni culturali. Dici chiaramente che i
bambini non sono razzisti e che la scuola pubblica è il vero centro
della multiculturalità.
Ringrazio molto Girolamo De Michele, autore di
La scuola è di tutti, per la bella
recensione su “Carmilla” al mio
Una scuola da rifare
perché credo sia stato fino ad ora l’unico ad aver colto un aspetto per
me decisivo di questo mio ultimo libro: il fatto che parlando della
scuola parlassi anche della società italiana. Anche se penso che nella
scuola primaria, si rispecchi ancora la parte migliore della nostra
società. Spesso noi docenti, in questi anni, ci siamo trovati ad
insegnare valori e contenuti esattamente opposti a quelli dei politici e
dei rappresentati del governo: pensiamo alla questione immigrazione. Il
fatto è che i valori costituzionali sono stati messi in discussione da
questo governo in più casi. Molti docenti si sono trovati spiazzati. Non
sanno più a chi dar retta. Ma la cosa più grave è stato l’attacco
frontale e violento nei confronti della scuola pubblica, che è il cuore
di qualsiasi democrazia. Al ministero dell’Istruzione, a parte il
burattino Gelmini, abbiamo avuto “saggi” come Vittadini, gran capo dì
Comunione e Liberazione e fondatore della Compagnia delle Opere: gente
che è contro la scuola pubblica e a favore delle private, che vive
proprio come una roba privata. Gelmini ha gridato mille volte “viva il
merito”, “premiamo il merito”, ma ha fatto esattamente l’opposto con la
sua controriforma: ha tolto alle scuole pubbliche italiane che i dati
Ocse-Pisa del 2007 reputavano migliori delle private; e la scuola
primaria italiana dal 2008 a oggi è scesa dal primo al tredicesimo posto
in Europa. Di che merito parla? Tutte falsità.
Un tema sottotraccia nelle storie che racconti è la gestione del
potere e il rapporto con l’autorità che tu stesso incarni agli occhi dei
bambini e con il quale sembri avere un rapporto ambivalente. È qualcosa
che riguarda il ruolo di ogni docente – mi ci riconosco – l’inevitabile
‘politicità’ della scuola e più in genere di ogni relazione sociale.
Il ruolo di un docente all’interno della scuola è da sempre delicato.
Io credo che debba essere fondamentalmente di mediatore e ascoltatore
dei bambini, di gestore il più possibile dei gruppi, di osservatore. É
una sorta di antropologo che fa la spola mille volte ogni giorno tra il
mondo degli adulti e il suo, tra la sua infanzia e adolescenza di un
tempo e l’oggi. Non si tratta di ambivalenza, ma di equilibrio.
Infine, nel tuo discorso c’è il richiamo a non dimenticare lo
‘sguardo bambino’, dei bambini di oggi ma innanzitutto dei bambini che
tutti siamo stati. Uno sguardo che potrebbe essere un buon antidoto al
peggio portato dalla trasformazione antropologica che ha investito il
contemporaneo.
Sì, credo che oggi si tenda a negare il bambino che siamo stati. Il
bambino è visto solo come tappa, tutto è proiettato, come d’altra parte
sempre accaduto, sull’adulto. Invece è fondamentale, per un docente ma
anche per un semplice genitore, per qualsiasi adulto, insomma, mantenere
un rapporto aperto con il proprio passato, la propria storia, il
proprio essere stato bambino. Perché cambia lo stesso modo di essere
adulti. In meglio.