Per chi come me sente inconsciamente che finitudine = morte, scrivere rappresenta una sfida per la sopravvivenza. Scrivere un testo e licenziarlo è come ucciderlo, e morire con esso.
Forse per questo motivo, per me scrivere significa tergiversare: immaginare il testo e poi rimandarlo, scriverne, delle parti, riscriverle, ricominciare dall'inizio, trascrivere cose che poi non verranno mai integrate nella versione finale, il tutto per creare un serbatoio di potenzialità che a partire da un certo momento mi appaia come inesauribile. Infinito.
A quel punto sono tranquillo: il passaggio all'atto della potenza è scongiurato, so che il testo finale non sarà mai altro che un'attualizzazione tra le infinite possibili, di sicuro non la migliore, probabilmente una versione più o meno soddisfacente ma la cui limitatezza sarà comandata dalla contingenza della situazione e della scadenza temporale.
Se, da una parte, è un modo per giustificarmi ai miei stessi occhi per il risultato imperfetto, dall'altra parte è anche un modo per mantenere un segreto contatto con quel testo, fondato sulla speranza: non ti ho abbandonato, caro testo, lo so che tu sei migliore di come appari, non preoccuparti, tornerò da te, ti riprenderò e amplierò, staremo di nuovo insieme, mostrerò altri aspetti della tua natura infinita.
Gli scrittori, probabilmente, hanno un rapporto migliore del mio con la finitezza e la morte. Sono più coraggiosi, o più disperati.
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