E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)
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giovedì 29 giugno 2017

Lilia (Roman nouveau, 20)

Lilia

Sinceramente io avrei voluto fidanzarmi con la mia amica Lilia. Era una moscovita che studiava filosofia in Francia da un po' di anni. Anche lei aveva studiato a Strasburgo, dove Lacoue-Labarthe, che l'apprezzava, l'aveva indirizzata a Parigi per proseguire i suoi studi con Alain Badiou, non so perché. Lilia era molto strana, sia fisicamente che intellettualmente. Era biondissima, quasi albina, portava i capelli corti come le donne sovietiche della mia immaginazione, e in effetti era nata durante la presidenza Breznev, nel 1972 come me (io però ero nato sotto Giovanni Leone).
Aveva gli occhi un po' sporgenti, azzurro-grigi, e la pelle pallidissima. Non avevo mai visto una ragazza così: sembrava un'aliena, parlava francese in maniera strana, tranne quando rideva. Lilia rideva di gusto, si faceva delle risate molto composte ma per niente artefatte, che comunicavano grande allegria (un’allegria russa). Ridevamo un sacco Lilia e io, nonostante passassimo il nostro tempo insieme guardando film di Godard alla videoteca di Paris 8 o discutendo di filosofia. Nient'altro che passatempi intellettuali per Lilia ed Edoardo.
Anche dal punto di vista intellettuale Lilia era strana, di una stranezza che non riuscivo a ricondurre al mio provincialismo italiano. Anche gli amici francesi la consideravano strana. Apparentemente aveva imparato la filosofia in maniera molto personale, soprattutto grazie a un suo amico filosofo che viveva a Mosca come un barbone. Questo amico filosofo era un grande genio della filosofia, diceva Lilia, ma la sua concezione della vita fondamentalmente nichilista lo aveva indotto a tenere sempre con sé una capsula di veleno per uccidersi, nel caso che la polizia moscovita, notoriamente corrotta e violenta, lo avesse arrestato. Per stare a Mosca ci vuole un permesso anche se sei russo, e lui questo permesso non lo aveva, perciò temeva di essere arrestato e picchiato. E prima che ciò accadesse lui si sarebbe ucciso con la capsula di veleno. Dai racconti che Lilia me ne faceva, mi sembrava di capire che lei fosse soggiogata da questo nichilista russo, forse ne era innamorata, non capivo, magari erano stati amanti, anzi lo sospettavo fortemente, a me sembrava un pazzo e non capivo in che cosa consistesse la sua grandezza filosofica dato che non sembrava avere teorie metafisiche comparabili con quelle dei grandi filosofi francesi a me noti. In effetti, la mia cultura filosofica era totalmente libresca e accademica, non ero pronto per apprezzare la personalità mistica di un vecchio russo che sembrava avere plagiato la mia bellissima amica filosofa. Quando provai a esprimere qualche dubbio lei mi disse: “tu non hai mai sperimentato il nulla”. Era indubitabilmente vero, così non osai più esprimere più alcun dubbio contro il suo amico.
Nemmeno Lilia pareva confrontabile con i miei canoni scolastici: non sembrava esperta di Heidegger, né di Derrida, né di altri filosofi contemporanei. La tesi che lei aveva proposto a Badiou non mi era affatto comprensibile e non capivo bene come mai i famosi filosofi francesi stessero ad ascoltarla anziché dirle di mettersi a studiare. Forse la ascoltavano per le stesse ragioni per cui la ascoltavo io? Era molto femminile e dolcissima, anche se non si capiva bene che cosa avesse in mente.
Era un'appassionata di pipistrelli e passava molto tempo a leggere libri di zoologia, o comunque libri assurdi di storia dell'arte o di scienze, dei quali non mi pareva che capisse granché, come del resto accadeva a me quando affrontavo libri per i quali non avevo una preparazione adeguata.
Le insegnai a dire in italiano “il pipistrello svolazza nella notte” e lei mi insegnò a dire in russo “gli uccellini cinguettano” (ptichkji chyrikut).
Quando ormai ero piuttosto innamorato di lei, un giorno mi disse che si sarebbe presto sposata col suo fidanzato serbo, Milan, che abitava lì a Parigi e del quale io non avevo mai sentito parlare. Cercai di dissimulare il mio sorprendente dispiacere ma lei se ne accorse perché mi chiese come mai reagissi così male a quella notizia.

Ostentai la massima felicità per lei, pur dichiarandomi scettico sul matrimonio in generale.

giovedì 22 giugno 2017

Diego, Derrida, Deleuze (DDD) (Roman Nouveau, 12)

Diego, Derrida, Deleuze (DDD)

Se mi ero avvicinato a Derrida era solo colpa di Diego. Diego era il mio gemello spirituale. Durante il mio primo anno di filosofia, dopo avere abbandonato l'odiata giurisprudenza, condividevo con lui tutte le novità filosofiche che non filtravano attraverso l'insegnamento accademico pavese, asfittico e provinciale. Al Ghislieri noi eravamo come Bouvard e Pécuchet, due idioti abbandonati a noi stessi e ai nostri entusiasmi.
Io avevo scoperto L'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, e Diego aveva scoperto La scrittura e la differenza, di Derrida: ci comunicammo le nostre scoperte e ognuno pretendeva che il proprio libro fosse pazzesco e incredibile, una svolta epocale per la filosofia e la nostra formazione. Poi ci scambiammo gli autori per dialettica mimetica: io divenni un paladino di Derrida e lui di Deleuze. Negli anni successivi studiai Derrida, che era più popolare tra i docenti pavesi, e mi compromisi al punto da andare a fare l'Erasmus a Strasburgo per studiare con Nancy e Lacoue-Labarthe, che di Derrida erano amici ed eredi.
I derridiani mi avevano quasi abbattuto con la loro tristezza ermeneutica infinita, ma appena arrivai a Strasburgo Deleuze si suicidò. Iniziai a studiarlo allora. Fu lui a salvarmi dalla tristezza decostruzionista, da morto.
Gilles Deleuze si è defenestrato dalla sua casa parigina il 4 novembre 1995, perché una grave insufficienza respiratoria lo aveva ormai costretto in condizioni di vita molto difficili: non poteva stare in piedi né coricato, ma soltanto seduto e attaccato alla sua macchina respiratoria. Ricordo bene il giorno in cui Deleuze è morto perché ero a Strasburgo, me lo comunicò per telefono la mia ex ragazza (quella che odiava i professori universitari) e lo stesso giorno fu ucciso Rabin, il politico israeliano.
Il giorno che Deleuze si è suicidato e Rabin è stato ucciso avevo pensato così: se il buddismo dicesse il vero, dopo la morte l’anima si reincarna in altri corpi, allora perché non nel mio? Avevo iniziato a convincermi che poiché sentivo uno strano formicolio alla mente questo voleva dire qualcosa, era un segno della metempsicosi: era Gilles Deleuze che mi aveva scelto e veniva a reincarnarsi da me, almeno un pezzetto.
Avrei forse anche potuto immaginarmi che non fosse quella di Deleuze bensì l’anima dell’israeliano Rabin a teletrasportarsi fino a me. Ma di Rabin non mi importava nulla.