Per molte persone i Radiohead sono una malattia. Lo sono anche per me che ho impiegato anni ad organizzare faticosamente un libro di racconti e fumetti sulle canzoni dei geni di Oxford (http://shop.bcdeditore.it/product.php?productid=16300).
Perciò si capirà il mio tuffo al cuore nello scoprire all’improvviso (non sono un rockologo) che è appena uscito un nuovo disco, King of Limbs, come il precedente scaricabile online (http://www.thekingoflimbs.com/DIEUR.htm) in diverse forme, dal semplice mp3 al ricco album con libro di 625 “disegni artistici”.
Lasciamo da parte le discussioni sulle dichiarazioni di Yorke e soci sulla morte del disco a favore del download in Rete: si sa che quando qualcuno annuncia la fine di cose come l’arte, la religione o il rock, è spesso semplicemente il segno di una relativa impossibilità di pensare le forme future dell’arte della religione o del rock.
Cercherò invece di esprimere un giudizio su questo disco, cosa non semplice perché la musica dei Radiohead non è mai omogenea alla media della musica pop, rock ed elettronica odierne: ha invece un buon impianto composizionale dovuto all’incontro tra la diversa genialità di Thom Yorke, ispirato cantante e sperimentatore di sonorità elettroniche, ma analfabeta musicale (non sa leggere le note e per comporre usa software sofisticati) e Johnny Greenwod, chitarrista e tastierista colto e raffinato, con una predilezione per la musica contemporanea, in particolare Olivier Messiaen e Witoslaw Penderecki. Un incontro musicale, questo tra Yorke e Greenwood, che rendeva finora la musica dei Radiohead capace di elevarsi subito al rango di “classico”. Nelle atmosfere elettro-soft di King of Limbs mi sembra però di sentire una scarsa fusione delle due cifre stilistiche, Yorke & Greenwood, la prima rintracciabile in un certo tipo di contrappunto elettronico alla famosa voce falsettistica, la seconda in una ripetitività ritmica disgregata e ossessiva.
La premessa di quanto dirò dovrebbe essere che quella di King of Limbs è forse una musica cangiante: man mano che la sua complessità viene percepita e memorizzata in maniera infinitesimale, ascolto dopo ascolto, cambia anche il suo significato complessivo.
Tuttavia, stando ai primi ascolti e confrontando le reazioni degli ascoltatori, King of Limbs non sembrerebbe all’altezza del precedente capolavoro (In Rainbows), ma in modo talmente esplicito che bisognerebbe forse cogliere l’intenzione di offrire una sorta di B-side del precedente, un album minore che potrebbe quasi segnare il passaggio da una poetica centrata sull’Opera (ogni disco dei Radiohead sembrava ambire a quello statuto, e forse a quello di Capolavoro) a una estetica - forse più adeguata ai tempi - della “musica da tappezzeria”, come la chiamava Erik Satie.
Se ogni sei mesi uscisse un album simile dei Radiohead non potremmo lamentarci, ma sarebbe inevitabile un po’ di rimpianto per i precedenti dischi con i quali i cinque di Oxford parevano ogni volta voler sintetizzare e superare il proprio passato.
È vero che già con l’album precedente (In Rainbows), atteso dai fan per diversi anni, molti pensavano che la band fosse giunta al suo canto del cigno: perciò un nuovo disco non può che rallegrare chi ha individuato nei Radiohead il proprio paradigma di arte rock. Ma è anche vero che Thom Yorke e anche Phil Selway (il batterista) avevano recentemente fatto dischi solisti con non pochi brani superiori (almeno per intenzione autoriale) a questo nuovo disco collettivo.
C’è però un grosso ma. Si dice in Rete che potrebbe esserci in serbo un secondo CD a complemento di King of Limbs, e che il disco segreto dovrebbe essere “quello vero”.
Leggenda metropolitana o ipotesi complottista che sia, io spero come molti che sia vero.
In caso contrario, se d’ora in poi la musica degli oxoniensi fosse in tono minore come quella di King of Limbs, ammetto che inizierei a temere con dispiacere e anche un soffio d’angoscia che al declino non possa sfuggire davvero nessuno.
Nemmeno i Radiohead, maledizione.