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sabato 8 luglio 2017

Alcol (Roman nouveau, 23)

Non cominciai a bere a dismisura per la tristezza indotta dal fallimento della mancata traduzione: bevevo tantissimo fin dall'inizio dell'università. Mi avevano insegnato i miei compagni più grandi di un anno, i miei amici ubriaconi insieme ai quali compresi il valore inestimabile dell'amicizia tra uomini liberi. Grazie a loro imparai la potenza dell'alcol come antidepressivo e stimolante all'azione.

Solo in seguito ho scoperto che Deleuze è stato un gran bevitore, fino al 1967. In quell’anno scoprì di essere tisico (ma aveva temuto di avere un tumore ai polmoni) e smise di bere. Scoprì così che molti affetti filosofici che attribuiva all’alcol in realtà non ne dipendevano affatto. Secondo me Deleuze, dopo avere smesso di bere, è diventato molto più chiaro nella scrittura (lasciamo stare l’influenza schizoide di Guattari, nelle opere a due).

Io faccio parte della prima generazione Erasmus: a Strasburgo durante l'Erasmus avevo scoperto la birra. La notte in cui avevo conosciuto Yves, avevamo discusso fino al mattino di filosofia, a casa di un nostro compagno di università che voleva farsi prete ma poi si era innamorato. Aveva dato una festa e poi era andato a dormire con la sua fidanzata, dicendoci di continuare pure a bere indisturbati. Yves e io discutemmo tutta la notte di filosofia, non trovandoci mai d'accordo ma nemmeno mai veramente in disaccordo, il che è tipico di chi studia la filosofia postmoderna, che abolisce il concetto stesso di verità. Verso le sei del mattino menzionai l'argomento di Roland Barthes, secondo il quale il linguaggio è fascista perché obbliga a dire. Yves disse che nella scrittura di Barthes si sente talvolta la croccantezza della tartina.

Dissentendo su quel borghese omosessuale di Barthes, verso le sei di mattina lasciammo la casa del nostro ospite. Barcollando raggiungemmo una fermata d’autobus e Yves raccattò da terra un mozzicone di sigaretta. Nonostante le mie proteste. “Ne ho bisogno” mi disse con aria disgustata, e ci separammo dandoci la mano come fanno sempre i francesi quando si salutano (ormai l'avevo imparato).

Ecco perché l'anno dopo l'Erasmus a Strasburgo, durante il quale scrissi la mia orribile tesi su Deleuze, a casa di mio padre, bevevo molta birra. Mi ero allenato a Strasburgo.

Quando a Parigi seppi del mio fallimento editoriale e che non avrei probabilmente mai tradotto Deleuze la clameur de l'Etre di Alain Badiou (che infatti fu poi tradotto per Einaudi da Davide Tarizzo), intensificai la dose quotidiana di birra.
Alle sette di sera stappavo la prima Kronenbourg da 66 centilitri e iniziavo a sorseggiarla mentre leggevo L'essere e l'evento di Badiou oppure un libro di Deleuze. Verso le otto ero già alticcio e continuavo a bere a cena e dopocena. Spesso quando era ora di andare a dormire ero ubriaco e di ciò che avevo letto avevo capito ben poco, anche perché in preda all'entusiasmo alcolico saltavo da un testo all'altro mescolando Foucault con Houellebecq con Spinoza con…

Un vero disastro.

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