E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

lunedì 8 ottobre 2012

LETTERA APERTA AI MILITANTI DI ALBA, Soggetto Politico tutt'altro che Nuovo

Cari definitivamente ex compagni di ALBA,
oggi senza alcun motivo serio mi avete bannato dal vostro gruppo Facebook di Torino (un gruppo per altro creato da me e popolato di numerosi miei amici e conoscenti ma poi ceduto a voi per dissensi sulla linea comunicativa: voi volevate censurare ogni messaggio fastidioso, io volevo la massima trasparenza).
Questo, naturalmente, è solo l'epilogo della nostra storia comune, all'inizio della quale io ero uno dei due coordinatori torinesi, e alla fine della quale mi ritrovo ad essere stato da voi dimissionato perché iscrittomi nel frattempo al Partito Pirata (nel quale mi trovo benissimo) e  quindi a vostro parere inaffidabile e forse sospetto di tradimento.
Oggi avete anche cancellato diversi post nei quali Rinaldo Locati, l'altro iniziale coordinatore torinese, dopo mesi di vostra frequentazione esprimeva veementemente le sue critiche...
Trovo che per un progetto politico nato all'insegna della democrazia spinta, adottate dei metoducci ben meschini e ridicoli.
Se pensate di poter controllare la comunicazione in Rete siete ridicoli e patetici. (Per esempio quando mi bannate, se sapeste l'ABC dovreste ricordarvi che io di account FB ne ho almeno 2... Ops: e se avessi anche dei fake per spiarvi e farvi gli scherzi? Brrrrrrrr, che paura!).
Ora BANNATEMI SUBITO PER LA SECONDA VOLTA, esercitate questo piccolo potere che vi sentite di avere in virtù dell'investitura che ALBA, il grande Soggetto Politico Nuovo vi ha dato.
FORZA! Bannate! Non potete fare molto altro, ma questo almeno fatelo, CANCELLATE, RIPULITE, ORDINATE, e poi quando fate i vostri congressi sorridete alle masse come quei rivoluzionari perbene che volete essere. Qualcuno tra voi si è persino permesso di invocare la biopolitica dei farmaci per censurare l'opinione di un compagno: un'idea fascista che però sulla vostra bella bacheca non viene censurata. Evidentemente secondo voi la piccola violenza repressiva delle parole da duri va benissimo, se serve per mantenere il vostro ordine: il desiderio di pulizia e innocenza a quanto pare non nuoce troppo alla vostra bella immagine di un'ALBA dorata (ah no, scusate, quello è il nome del partito nazista greco, che strana coincidenza di nomi).
Ma quale immagine pensate di avere costruito? Chi vi segue, oltre ai lettori del Manifesto e a qualche sperduto elettore di una Sinistra ormai morta e sepolta e, all'inizio, qualche babbeo come me? E soprattutto, che siate popolari o meno, COME VI PERMETTETE di censurare il parere di chi vi ha seguito fin dall'inizio, come Rinaldo e il sottoscritto, per poi rimanere profondamente delusi dalla vostra inconcludenza, falsità e opportunismo?
COME VI PERMETTETE? Chi credete di essere, chi credete di rappresentare oltre ai vostri professori universitari le cui parole vi bevete come fossero oro colato? Se foste intelligenti democratici vi mettereste a lavorare per ottenere il consenso dei cittadini e non perdereste tempo a far congressi sui congressi per poi guardare ansiosi e cupidi la televisione ("qualcuno può guardare se nel TGR regionale hanno parlato del convegno?").
Certo, da postmoderni intuitivi e rozzi sapete bene che se nessuno vede l'albero che cade nel fitto della foresta è come se l'albero non fosse caduto per davvero: volete apparire perché temete di non essere, di non essere altro che un gruppuscolo che ha creduto bastasse il Manifesto per fare politica.
(Detto per inciso, siccome siete mediamente abbastanza vecchi ricorderete bene che nel 1972 il Manifesto si presentò alle politiche ottenendo un meritato 0,67% dei voti: io penso che anche impegnandovi non riuscirete a fare molto meglio :-).
Se faceste un buon lavoro politico non avreste tempo da perdere per tenere in ordine il vostro giardinetto su Facebook (un social network di cui per altro non capite nulla, come della Rete in generale: inutile ricordarvi che qualche tempo fa Diego Di Caro e io abbiamo provato a convincervi dell'utilità di avvicinarvi alla democrazia digitale: è stato come voler cavare sangue da una rapa, come voler far volare un asino, ci avete risposto con un assordante e strafottente silenzio, forse perché non avete proprio idea di che cosa sia la politica oggi).

Ora, io ho altro a cui pensare, ma sappiate che da oggi non perderò occasione per dire chi siete veramente: una sinistra vecchia e stanca con qualche ambizioso rinforzo semigiovanile e con un'ingiustificata smania di conquistare spazio nella politica rappresentativa, che per altro vi meriterebbe completamente (peccato per voi che non vi siate dati da fare prima per entrare nel gioco delle poltrone parlamentari).
Soprattutto, non perderò occasione per dire come trattate le persone benintenzionate che con il vostro più gran disappunto non si limitino a eseguire i comandi del vostro Gruppo Dirigente. Già perché voi non siete una struttura democratica, avete un Gruppo Dirigente che vi comanda dall'alto quali iniziative prendere, il dibattito interno non sapete che cosa sia, e sui contenuti politici della vostra proposta siete in alto mare e aspettate tranquilli che ve la confezionino i vostri professori.

Di una cosa sono più contento che di ogni altra: di vedere che alla fine della mia relazione con voi coloro con cui mi sono maggiormente scontrato all'inizio sono gli stessi con cui mi trovo più d'accordo adesso: i compagni Rinaldo Locati, Jasmina Radivojevic e Lino Sturiale. Questo rivolgimento potrebbe insegnare che il confronto e persino lo scontro dialettico, può portare ad insperate sintesi, che il vostro unanimismo perbenista non avrebbe nemmeno permesso di concepire. Ma dubito fortemente che qualcuno di voi possa cogliere l'ironia preziosa di questo insegnamento.

Buona fortuna a tutti, e che la vostra ALBA non vi sia grave.
In ogni caso non credo che siate preparati alla durezza del meriggio.


giovedì 4 ottobre 2012

Deleuze si specchia (vecchio incipit per un blog di fotografia mai aperto)


Deleuze si specchia tra due specchi.
Specchio del mio desiderio, chi è il più singolare del virtuale?
E' nel tra-due che avviene la Differenza, o molteplicità intensa.
Specchiandosi tra due specchi mentre viene fotografato in uno d’essi, Deleuze si sdoppia e si moltiplica all’infinito.
E' una singolarità molteplice: una singolarità con il cappello attuale nebulizzato in un’infinità di copricapi virtuali.
Indossa un soprabito impersonale. La molteplicità in effetti è impersonale, una persona è un fascio di singolarità, non garantita da alcun dio o io.
Deleuze è moltiplicato dal dividersi dell’istante temporale, verso il passato eterno e verso il futuro infinito.
Guarda l’obiettivo. Mi guarda. In ogni fotografia che lo ritrae, Deleuze mi guarda sempre, come se lui fosse una persona, come se lui fosse una persona, come se lui fosse una persona. Come se io fossi una persona e lui volesse mostrarmi che mentre lo vedo sono visto da lui.
Deleuze è una singolarità molteplice, fatta di attuale e di virtuale; il virtuale e l’attuale sono indiscernibili e si scambiano.
Guardando la foto, di primo acchito abbiamo l’impressione di sapere bene qual è il piano del reale e qual è il lato del virtuale. Eppure. Che cosa ce lo garantisce?
La macchina fotografica non può riprendere entrambi gli specchi, perché attuale e virtuale non coesistono mai completamenete. E c’è di mezzo colui che ritrae Deleuze che mi guarda, mi guarda come se lui fosse una persona, come se io fossi una persona e lui volesse mostrarmi che mentre lo vedo sono visto da lui. Ma è falso, sono le potenze del falso che si guardano attraverso i nostri occhi, attuali i miei, virtuali i suoi, o meglio ancora: attuali i suoi, alllora, virtuali i miei, in questo futuro attualizzatosi almeno per me.
Lui non c'è più, nel frattempo, ma le sue singolarità infinite sono ancora qui, con me, formano una nebulosa di concetti che non cessano di avviluppare la noosfera, la sezione di essa che mi è dato vedere dalla mia prospettiva.
In fondo, nell'Essere univoco, Deleuze e io e voi siamo tutti lì, ci teniamo molta compagnia, facciamo giochi bellissimi che non finiscono mai.

mercoledì 3 ottobre 2012

Spazi relazionali per moltitudini in carne e ossa (articolo commissionatomi da un famoso intellettuale organico di sinistra, e mai pagatomi, per una misteriosa rivista)


Gli spazi ipermercatali sono in potenza di infiniti incontri tra individui: le risorse cognitive e comunicative localizzabili in questi luoghi sono dunque sovrabbondanti e la loro attenta considerazione non dovrebbe sfuggire a qualsiasi soggetto interessato alla conoscenza delle dinamiche sociali. Eventualmente per influire positivamente su di esse. 
Avulso dalla scientificità della computer science, il discorso filosofico e culturale contemporaneo sui grandi spazi commerciali ha oscillato tra critiche radicali di scuola marxista (post- o neo-) e considerazioni metafisiche sulla libertà dell’individuo-massa, o piuttosto la mancanza di essa. La filosofia arricchita dall’apporto delle scienze cognitive potrebbe forse iniziare a ripensare queste realtà urbanistiche, economiche e antropologiche guardandole con lenti più variopinte. Tenendo presente che l’epoca degli ipermercati sta forse per tramontare, se è vero che da qualche anno negli USA non se costruiscono più e si iniziano anzi a demolire quelli già esistenti.
Per Guy Debord, il filosofo della Società dello Spettacolo (1971), i termini sono nettissimi: gli spazi extraurbani degli ipermercati sono punti di fuga da una città catturata in un movimento propriamente distruttivo, effetto inevitabile dell’estensione del dominio del capitalismo: “i momenti di riorganizza­zione incompiuta del tessuto urbano si polarizzano transito­riamente attorno a quelle “fabbriche di distribuzione” che sono i supermarkets giganti edificati in terreno nudo, su uno zoccolo di parking; e questi templi del consumo precipitoso sono essi stessi in fuga nel movimento centri­fugo, respinti più lontano via via che divengono a loro volta dei centri secondari sovraccarichi, dal momento che hanno determinato una ricomposizione parziale dell’agglomerato. Ma l’or­ganizzazione tecnica del consumo non è che in primo piano nel processo della dissoluzione generale che ha in tal modo con­dotto la città a consumare se stessa”.
Luoghi centrifughi per la distribuzione delle merci: nel contesto di una filosofia radicalmente negativa della contemporaneità capitalista, Debord non vede altro, anche se percepisce, più intelligentemente di molti epigoni, la positiva possibilità urbanistica e antropologica (“una ricomposizione parziale dell’agglomerato”).
Nella Società dei consumi (1974), Jean Baudrillard fa invece del centro commerciale il simbolo sintetico dell’intera civiltà contemporanea. In modo caratteristicamente iperbolico, il sociologo francese che teorizzerà la scomparsa della realtà ad opera del virtuale, fa del centro commerciale un luogo totalizzante: “Siamo al punto in cui il consumo comprende tutta la vita, in cui tutte le attività si concatenano nello stesso modo combinatorio, dove il canale delle soddisfazioni è tracciato in anticipo, ora per ora, dove l’“ambiente” è totale, completamente condizionato, ordinato, culturalizzato”. Per Baudrillard il sistema contemporaneo delle merci si trasforma in un flusso indifferenziato di segni, dove tutto è l’equivalente universale di tutto. Questa affascinante visione apocalittica sembra oggi più che altro un’invenzione interpretativa non fondata sulle reali dinamiche cognitive ed esperienziali dei soggetti coinvolti negli spazi del consumo di merci.
Un’altra autorevole voce che ha tematizzato i grandi spazi commerciali è quella dell’antropologo Marc Augé, padre della nozione di “non-luogo”: lo spazio extraurbano di un ipermercato, come quello di un aeroporto o di un lunapark, è interpretato da Augé come spazio senza qualità, o dalle qualità pre-determinate (luminosità, decibel, proporzioni, tutto è deciso una volta per tutte nel prototipo di questi spazi seriali). Qui gli individui non entrerebbero in relazione gli uni con gli altri. Questo concetto di relazione è però un concetto teorico non chiaro né distinto, un ideologema del sistema teorico di Augé: prescindendo da un’assiologia implicita, uno spazio in cui moltitudini di individui confluiscono insieme è uno spazio relazionale per definizione.
In anni più recenti, Vanni Codeluppi ha magistralmente riassunto la tradizione degli studi critici sulle merci e i loro spazi: in Lo spettacolo delle merci, Codeluppi rileva molto bene come i centri commerciali debbano mutuare alcune caratteristiche dai tradizionali luoghi di socialità: piazze, luoghi di transito, vie cittadine, spesso mimando le tradizionali strutture urbane (acciottolati, piccole piazze adorne di panchine e piante). Luoghi stereotipici che rinviano a un’idea platonica di città, ideale per l’homo consumens.
La scienza delle reti (Barabási, 2004) insegna che in ogni sistema complesso e strutturato come una rete esistono nodi centrali (hubs) che collegano tra loro nodi minori altrimenti irrelati. Un nodo ricco di collegamenti inediti com’è lo spazio architettonico e antropologico di un ipermercato periferico, frequentatissimo dalla popolazione metropolitana e suburbana, lungi dall’essere un banale esempio di alienazione contemporanea è al contrario un luogo ricco di senso.
Sarebbe bene iniziare a pensarlo come tale.


Testi citati:

Marc Augé M., Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, 2009.

Albert-László Barabási, Link - la scienza delle reti, Einaudi, 2004.

Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, 1976.

Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai passages a Disney World, Bompiani, 2000.

Guy Debord, La società dello Spettacolo, Sugarco edizioni, 1990.

martedì 2 ottobre 2012

La filosofia è una malattia (vecchio appunto)

Leggendo un bel libretto di uno dei miei filosofi italiani viventi preferiti mi sono reso conto che per me la filosofia ha un sottofondo psicologico che lui, uno dei miei filosofi italiani viventi preferiti, trascura completamente.
Un po' come quando ho intervistato il mio Maestro di musica, mi sono accorto che parlava di studio della musica in termini esclusivamente positivi, eppure la mia esperienza mi dice il contrario: sofferenze di vario genere possono accompagnare lo studio della musica, naturalmente se qualcosa è andato storto.
Ma sembra che le cose vadano storte molto spesso.

venerdì 28 settembre 2012

Lo spettacolo della nuda morte

Un mostro si aggira per l'Italia, anzi una mostra: una mostra di cadaveri per l'esattezza.
La mostra-mostro si intitola The Human body Exibitions e ha suscitato aspre polemiche in tutto il mondo (ma su un intellettualissimo quotidiano nostrano, qualche mese fa se ne faceva l'elogio, forse per una malintesa coerenza con il sostegno dato anni addietro all'incipiente arte transumana).
Ora l'orrido spettacolo si mostra a Torino, come se alla città non bastasse già lo shock per la crisi economica e le tensioni politiche.
Le polemiche hanno senso soprattutto perché non è chiara la provenienza dei corpi: si tratta forse delle spoglie di prigionieri cinesi, giustiziati e non reclamati dalle famiglie (crudeltà aggiunta a quel crimine contro l'umanità che è la pena di morte).
Ma le ombre di un'etica spettacolare rivoltante si allungano sull'operazione in sé: è sensato, è lecito, è interessante, è tollerabile che si dia in pasto alle folle la visione diretta (e perché non anche l'esperienza del tatto allora ?) di cadaveri umani plastificati e composti in posture divertenti, come un tempo accadeva agli animali impagliati? Il marketing della mostra blatera di opere d’arte con funzione scientifica, ma non si tratta di opere d'arte e la funzione scientifica è totalmente assente (alla sezione dedicata agli effetti di varie malattie ed errate abitudini alimentari può tutt'al più venire attribuita una funzione terroristica).
Un intelligente esperto di arte contemporanea come Francesco Bonami non ha esitato a scrivere tutto il suo disgusto – che condivido visceralmente – per questa operazione: questa roba (mostruosità, buffonata, pagliacciata, sono solo alcuni dei termini usati dal critico curatore) è pura pornografia [http://intranews.sns.it/intranews/20120525/SIQ5027.PDF]. E mi verrebbe voglia di aggiungere «con tutto il rispetto per la pornografia».
Ma che cosa diremmo se fosse un artista contemporaneo a esporre cadaveri umani per fini artistici? È vero per esempio che Jan Fabre ricopre teschi di coleotteri sgargianti e Damien Hirst espone grandi animali squartati, ma né Hirst né Fabre si sono mai sognati di trasformare cadaveri umani in pupazzi giocattolo. Né si sognerebbero di farlo, se non mi inganno completamente riguardo alla funzione e alle intenzioni dell'arte contemporanea, anche quella più forte, discutibile e « brutta ».
Riprendendo un'intuizione di michel Foucault, il filosofo italiano Giorgio Agamben chiama « nuda vita » la vita umana sottomessa al biopotere, che fa vivere e lascia morire. Qui si dovrebbe forse parlare del suo rovescio, la nuda morte, quella che la società dello spettacolo esibisce da decenni senza alcun pudore. Con l'aggravante della manipolazione tecnica dei corpi a scopo di profitto.
Ovviamente non ne faccio un'ingenua questione di « sacralità » degli esseri umani, per altro quotidianamente sacrificati su grande scala ai meccanismi mortiferi della nostra società planetaria. Vorrei però che si riflettesse su quali siano i limiti insuperabili persino dallo Spettacolo, entità neutra e priva di etica.
Quali che siano, The Human Body Exibition sembra averli irrimediabilmente superati.

PS: Spero che per una volta il perbenismo torinese abbia un senso positivo, e che la mostra sarà un orrendo flop...

martedì 11 settembre 2012

Il programma del Partito Pirata

http://programma.votopirata.it/

Il Partito Pirata si attiva politicamente per la difesa dei diritti dei cittadini ed in particolar modo è interessato allaCultura libera, al Diritto d’Autore ed alla Privacy, dentro e fuori la rete, ed enuncia i seguenti punti per i quali intende operare:

1. Principio di Legalità

Il Partito dei Pirati promuove la modifica delle leggi esistenti al fine di salvaguardare i diritti delle persone, dei consumatori, degli autori e degli operatori economici in modo equilibrato e socialmente accettabile.
Il Partito dei Pirati si riserva il diritto di promuovere delle azioni dimostrative tese a mettere in evidenza le contraddizioni di una legge, od i suoi effetti negativi sull’individuo o sulla società, nei limiti di una normale ed accettabile dimostrazione democratica, di carattere episodico e limitata nel tempo.

2. Riforma del Copyright

Il Partito dei Pirati intende promuovere una estesa e radicale azione di riforma della legislazione che riguarda ilDiritto d’Autore (Copyright), al fine di ripristinare l’equilibrio, ora perduto, tra gli interessi degli operatori economici, quelli dei consumatori, quelli degli autori e quelli della società nel suo complesso.
L’elemento fondante di questa riforma dovrà essere il concetto che i materiali protetti da copyright rappresentano la Cultura di una Nazione e come tale possono essere sottoposti a vincoli di utilizzo solo per brevi periodi di tempo e solo per determinate applicazioni di carattere commerciale.
L’accesso a questi materiali deve essere garantito anche per coloro che non possono permettersi l’accesso al mercato per ragioni economiche, ad esempio grazie ad opportune sovvenzioni o attraverso l’opera di pubbliche mediateche. In particolare, è nostra intenzione affrontare il tema del “corretto uso” dei materiali coperti da diritto d’autore (Fair Use), il tema della creazione e dell’uso di copie per uso personale ed il tema dell’uso di sistemi DRMper la protezione dei contenuti. Su tutti questi temi è nostra intenzione chiedere modifiche, anche estese e radicali, alla legislazione esistente.

3. Riforma del Brevetto

Il Partito dei Pirati intende promuovere una estesa azione di riforma della legislazione che riguarda il Brevetto (Patent), al fine di ripristinare l’equilibrio, ora perduto, tra gli interessi degli operatori economici, quelli dei consumatori, quelli degli inventori e quelli della società nel suo complesso.
L’elemento fondante di questa riforma dovrà essere il concetto che i materiali protetti da brevetto rappresentano la Tecnologia di una Nazione e come tale possono essere sottoposti a vincoli di utilizzo solo per brevi periodi di tempo e solo per determinate applicazioni di carattere commerciale.
L’accesso ad alcuni tipi di queste conoscenze ed ai prodotti che ne derivano, in particolar modo nel campo dellamedicina, deve essere garantito anche per coloro che non possono permettersi l’accesso al mercato per ragioni economiche, ad esempio grazie ad opportune sovvenzioni o attraverso l’opera di pubbliche strutture.
Il Partito dei Pirati vuole garantire che le popolazioni locali non siano ingiustamente private dei materiali e delle tecniche (culinarie, mediche e di altro tipo) che fanno parte della loro tradizione a causa di un brevetto.
Il Partito dei Pirati vuole garantire che non sia possibile sottoporre a brevetto un qualunque elemento del nostro ecosistema, dal DNA all’essere vivente nel suo complesso. Il Partito dei Pirati vuole garantire che non sia possibile sottoporre a brevetto idee astratte, codice per computer, algoritmi e formule matematiche.
Il Partito dei Pirati vuole ottenere il riconoscimento del diritto di un governo sovrano ad espropriare un brevetto in caso di necessità. Il Partito dei Pirati intende chiedere che su queste questioni venga delegato a decidere unorganismo sovrannazionale e super partes di cristallina affidabilità, come potrebbe essere l’ONU od ilParlamento Europeo.
Il Partito dei Pirati vuole garantire che i brevetti non vengano utilizzati per impedire l’accesso dei cittadini ad una tecnologia, per impedire l’accesso al mercato ad aziende concorrenti o come strumento di scambio tra aziende. In tutti questi casi, riteniamo che sia necessario l’annullamento immediato del brevetto.
Il Partito dei Pirati vuole garantire che i brevetti siano validi solo nella misura in cui vengono effettivamente utilizzati per rendere disponibile una tecnologia sul mercato. Riteniamo che un brevetto che non viene utilizzato, per qualunque motivo, debba essere annullato dopo solo un breve periodo di attesa.

4. Riforma del Trademark

Il Partito dei Pirati intende promuovere una modesta azione di riforma della legislazione che riguarda i Marchi, i Disegni ed i Modelli, al fine di ripristinare l’equilibrio, ora perduto, tra gli interessi degli operatori economici (aziende) e quelli dei consumatori.
In particolare, il Partito dei Pirati vuole garantire che non sia possibile sottoporre alla registrazione di Marchio dei nomi e dei simboli che già caratterizzano delle realtà simboliche riconosciute ed utilizzate dalla popolazione ma ancora non consolidate (ad esempio, neologismi non ancora inseriti in nessun dizionario ma già ampiamente riconosciuti dalla popolazione).
Il Partito dei Pirati vuole garantire che le popolazioni locali non siano ingiustamente private delle denominazioni dei prodotti e delle tecniche che fanno parte della loro tradizione a causa di un marchi che viene registrato da una azienda o da un consorzio di aziende.
Il Partito dei Pirati vuole garantire che non sia possibile sottoporre a registrazione di Disegno o Modello idee astratte, o comunque vaghe, di un prodotto, ma solo una sua effettiva e ben definita implementazione stilistica. Lo scopo finale di questo intervento è quello di permettere una più ampia concorrenza sul mercato, tra operatori diversi, in settori in cui l’elemento predominante è di tipo stilistico (prodotti di moda) o di tipo produttivo (prodotti alimentari tipici).

5. Riforma del Segreto Industriale

Il Partito dei Pirati intende promuovere una estesa azione di riforma della legislazione che riguarda il Segreto Industriale, al fine di ripristinare l’equilibrio, ora perduto, tra gli interessi degli operatori economici (aziende), quelli dei consumatori, quelli dei ricercatori e quelli della società nel suo complesso.
L’elemento fondante di questa riforma dovrà essere il concetto che le informazioni raccolte durante il lavoro diricerca all’interno delle aziende e delle università sono un bene di pubblica utilità, che deve entrare a far parte del pubblico dominio nel minor tempo possibile. A questo fine, il Partito dei Pirati intende riconoscere alle aziende il diritto ad un breve periodo di riservatezza, utile alla stesura di una richiesta di brevetto od alla conclusione di una parte sostanziale del processo di ricerca e sviluppo.
Il Partito dei Pirati intende anche chiedere che i ricercatori dell’industria siano liberi di rendere pubbliche le informazioni da loro raccolte in tempi brevi, dell’ordine di non più di 3 anni, dal momento della rivelazione delle informazioni al management aziendale.
Il Partito dei Pirati intende chiedere che il ricercatore sia tenuto per legge a divulgare immediatamente ogni informazione che possa contribuire a salvare vite umane o che possa evitare danni alla salute dei cittadini od all’ambiente in cui essi vivono

6. Diritto di Accesso alla Tecnologia

Il Partito dei Pirati intende ottenere il riconoscimento legale del diritto del cittadino ad accedere alla Tecnologia che è disponibile in ogni singolo momento storico nel suo paese.
Il Diritto di Accesso alla Tecnologia viene violato ogni volta che una azienda si rifiuta di produrre un oggetto di cui possiede i brevetti per ragioni economiche (scarsa remuneratività) o strategiche (logiche di scambio con altre aziende). In questo caso, la responsabilità è dell’azienda e l’intervento dovrà essere teso all’esproprio del brevetto.
Il Diritto di Accesso alla Tecnologia viene violato ogni volta che un cittadino non può accedere ad una tecnologia di carattere medico, e di rilevante importanza per la qualità della sua vita, per ragioni economiche o di altro tipo. In questo caso, la responsabilità è dello Stato e l’intervento dovrà essere teso alla copertura dei costi ed alla soluzione dei problemi tecnici di fornitura.

7. Diritto di Accesso alla Cultura

Il Partito dei Pirati intende ottenere il riconoscimento legale del diritto del cittadino ad accedere alla Cultura che è disponibile in ogni singolo momento storico nel suo paese.
Il Diritto di Accesso alla Cultura viene violato ogni volta che una casa editrice, od un altro operatore economico, si rifiuta di produrre e/o distribuire un’opera di cui possiede i diritti per ragioni economiche (scarsa remuneratività) o strategiche (logiche di scambio con altre aziende). In questo caso, la responsabilità è dell’azienda e l’intervento dovrà essere teso all’esproprio dei diritti.
Il Diritto di Accesso alla Cultura viene violato ogni volta che un cittadino non può accedere ad un’opera, per ragioni economiche o di altro tipo. In questo caso, la responsabilità è dello Stato e l’intervento dovrà essere teso alla copertura dei costi ed alla soluzione dei problemi tecnici di fornitura. Naturalmente, lo Stato ha tutto il diritto di decidere i tempi ed i modi dell’Accesso (Differita TV, DVD, visione/ascolto presso una medioteca, prestito gratuito od a prezzo politico, etc.).

8. Diritto ad una Fornitura Leale

Il Partito dei Pirati intende ottenere il riconoscimento legale del diritto del cittadino ad ottenere una fornitura di Beni e Servizi che sia caratterizzata dalla massima lealtà nei suoi confronti da parte del Fornitore.
Il Diritto ad una Fornitura Leale viene violato ogni volta che vengono imposti dei limiti arbitrari al Bene od al Servizio che viene fornito. Consideriamo casi eclatanti di violazione di questo diritto le limitazioni sul traffico Internet imposte dai fornitori di accesso (Traffic Shaping e Filtering) e le limitazioni imposte al funzionamento dei PC da parte dei produttori grazie a molte tecnologie di tipo DRM e di tipo Trusted Computing.
Consideriamo assolutamente inaccettabili le limitazioni d’uso imposte ai sistemi per pure ragioni di marketing, come la limitazione d’uso a sola Game Console della XboX di Microsoft (che, di fatto, è un vero PC). Consideriamo assolutamente inaccettabili le limitazioni d’uso imposte ai sistemi per pure ragioni di strategia aziendale, come l’uso di formati proprietari che limitano la possibilità di interazione con sistemi equivalenti prodotti dalla concorrenza e come l’assenza delle opportune funzioni di import/export necessarie a scambiare dati con sistemi equivalenti prodotti dalla concorrenza.
La fornitura di un Bene o di un Servizio deve essere improntata alla sua massima utilizzabilità sul mercato ed alla sua massima versatilità d’impiego.

9. Diritto alla Libertà di Scelta e di Azione

Il Partito dei Pirati intende ottenere il riconoscimento legale del diritto del cittadino ad avere la più totale liberta di scelta nell’acquisto di Beni e Servizi e nel loro uso dopo l’acquisto.
Il Diritto alla Libertà di Scelta e di Azione viene violato ogni volta che il cittadino/consumatore viene obbligato o condizionato ad un acquisto a causa della esistenza di vincoli imposti dai suoi fornitori. Consideriamo un esempio eclatante di violazione di questo diritto la politica di molte aziende che non forniscono strumenti adatti per l’interazione dei loro sistemi con sistemi prodotti dalla concorrenza o l’integrazione dei loro sistemi in sistemi di complessità superiore (scarsa o nulla interoperabilità).
Il Diritto alla Libertà di Scelta e di Azione viene violato ogni volta che al cittadino/consumatore viene negato un particolare tipo di utilizzo di un bene regolarmente acquistato senza che questo utilizzo rappresenti un danno diretto per il fornitore. Consideriamo un esempio eclatante di violazione di questo diritto la negazione del diritto alReverse Engineering dei sistemi quando questa attività non è rivolta al superamento dei sistemi di protezione del diritto d’autore (DRM) , bensì all’interazione con altri sistemi od all’integrazione in sistemi di complessità superiore.

10. Diritto alla Privacy

Il Partito dei Pirati intende pretendere il riconoscimento concreto del diritto del cittadino alla privacy, già più volte enunciato nelle Costituzioni Italiana ed Europea ed ancora largamente negato proprio ad opera di quei Governi che dovrebbero garantirlo.
In particolare, il Partito dei Pirati intende rivolgere la propria attenzione alla riservatezza delle comunicazionied intende ottenere la equiparazione di qualunque tipo di comunicazione (audio, telefonica, radio, digitale, etc.) alla comunicazione postale che è, tradizionalmente, l’oggetto di elezione di questo diritto all’interno della legislazione esistente.
Il Partito dei Pirati intende anche richiedere l’esplicito riconoscimento del diritti del cittadino ad usare sistemi crittografici per garantire la riservatezza della proprie comunicazioni

11. Diritto alla Comunicazione

Il Partito dei Pirati intende ottenere il riconoscimento legale del diritto del cittadino a comunicare con qualunque altra persona in qualunque momento ed in qualunque modo.
Il Diritto alla Comunicazione viene violato ogni volta che al cittadino viene negato l’uso di un canale di comunicazione per ragioni tecniche o commerciali risolvibili con ragionevole facilità. Consideriamo un esempio eclatante di violazione di questo diritto la negazione del libero uso di sistemi Wi-Fi dentro e fuori del domicilio privato. Consideriamo un esempio eclatante di violazione di questo diritto la negazione o la limitazione dell’uso di sistemi di File sharing (Peer-to-Peer), già messa in atto da alcuni governi.

12. Diritto alla Espressione

Il Partito dei Pirati intende pretendere il riconoscimento concreto del diritto del cittadino alla libertà di espressione, già più volte enunciato nelle Costituzioni Italiana ed Europea ed ancora largamente negato proprio ad opera di quei Governi che dovrebbero garantirlo.
In particolare, il Partito dei Pirati intende chiedere la modifica della legislazione esistente in fatto di attività giornalistica in modo da liberare la figura emergente del blogger dai vincoli che erano stati pensati per i giornalisti professionisti. Chi parla a proprio nome, od a nome di una associazione di qualunque tipo, e non a nome di un giornale, deve essere libero di dire ciò che vuole, nel modo e nei tempi che ritiene più opportuni. L’unico limite accettabile a questo diritto è quello rappresentato dal reato di diffamazione e dall’offesa personale.

venerdì 7 settembre 2012

Quali sono gli elementi distintivi che caratterizzano Liquidfeedback?

  • 01) Software caricato su due server del PP-De gestito da un'apposito team dedicato alla sicurezza dello stesso
  • 02) L’utente accede dal browser in https, non serve alcun installazione di software aggiuntivo
  • 03) Partecipazione tramite pseudonimo (dall’interno del sistema gli iscritti possono conoscere i real name degli utenti) per questione di privacy verso l’esterno che invece vede solo il nick
  • 04) Processi strutturati con tempistiche pretabilite e fisse
  • 05) Possibilità di discussione dentro e fuori dal sistema (il dibattito sulle proposte viene preferibilmente indirizzato verso l’esterno)
  • 06) Delegazione su più livelli con possibilità di concessione/rimozione senza limiti “quantitativi” e temporali (tante volte quanti si vuole e in ogni momento)
  • 07) Neutralità della Piattaforma
  • 08) Tracciabilità su tutti i processi
  • 09) Nessun filtro sulla creazione delle Proposte, ogni membro/utente ha uguale diritto e possibilità
  • 10) Nessuna moderazione dei contenuti delle proposte (a meno di proposte razziste o criminali)
  • 11) I numeri identificativi di Temi e Proposte sono assegnati automaticamente dal sistema
  • 12) La Proposta che origina il Tema viene trattata allo stesso modo di quelle immesse successivamente
  • 13) Tutti i processi software e gli esiti del voto sono traasparenti
  • 14) L’intera amministrazione della Piattaforma è chiaramente documentata ed il software open source è controllabile da chiunque 
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mercoledì 29 agosto 2012

La doctrine deleuzienne des concepts philosophiques (un pezzo di mémoire de DEA?)


La doctrine deleuzienne des concepts philosophiques a été exposée de façon complète en Deleuze & Guattari 1995: il s’agit d’une théorie ouvertement métaphysique, d’une métaphysique préscriptive qui a été assez critiquée semblant ne pas se confronter avec la science et la logique contemporaine1. Cette théorie des concepts oppose nettement les concepts philosophiques aux pseudo-concepts de la science (les fonctifs) de la logique (prospects) et de l’art (percepts et affects), au point qu’elle doit bien apparaître comme

"un exemple particulièrement caractéristique et en même temps extrème de ce type de croyance “philosophante” (...) qui nous dit que les philosophes créent des concepts qui sont de leurs exclusive propriété.
Deleuze et Guattari appartiennent en effet à ces philosophes qui] diront que ce que les psychologues peuvent dire à propos des concepts ne les intèresse pas (ils ont même la tendence à penser que les concepts sont des créatures purement philosophiques)"2.

Le style philosophique est le dynamisme métaphorique propre aux concepts (philosophiques). Qu’il s’agisse de métaphore est certain, même si Deleuze, pour seconder les exigence du matérialisme spiritualiste3 qui informe sa pensée, tend à nier l’existence de la dimension métaphorique, atteignant sans doute les jugements de Wittgenstein et Lacan sur l’inexistence réelle du métalangage. Les concepts sont des entités immatérielles, donc ils ne peuvent subir un mouvement que métaphorique : il faudrait alors expliquer en quoi cela consiste. En bergsonien Deleuze amplifie l’ontologie du mouvement jusqu’à y comprendre «la perception, l’affection, e l’action comme trois espèces du mouvement»4. Sur le plan métaphysique tout est mouvement, devenir, et la stase n’est qu’une illusion (transcendentale)5. Aussi il résulte cohérent penser que les concepts vivent une forme de mouvement. Mais il est pour nous difficile comprendre qu’il s’agisse d’un mouvement métaphysique et non d’un mouvement historico-culturel, mouvement d’idées qui serait accettable à l’intérieur d’un modèle “épidémiologique” de la transmission culturelle, tel celui de Sperber 1996. Deleuze parle d’un mouvement qui doit forcément être conçu comme mental: est-ce qu’il nous faudrait une sorte d’intuition (un quale) du mouvement conceptuel?


1 Soulez 19???
2 Engel 1996, p. 204 et n.1 it
3 Acotto [1998], p.19: nous y qualifions la métaphysique deleuzienne comme un «matérialisme idéaliste»..
4 Deleuze [1990], p.166
5 Pour naïve qu’elle puisse paraître, cette métaphysique est peut-être plus proche de la Théorie de la Rélativité que d’autres métaphysiques plus scientifiques qui hypostatisent les formes e les objets. Sur la Rélativité et la Méchanique Quantique, cfr. Nozick [2001].

Jacques Derrida da me medesimo manualizzando


Presentazione.
La genealogia filosofica di Derrida è del tutto tipica della cultura francese degli anni ’40-‘50, e in particolare della formazione degli allievi dell’Ecole Normale Supérieure [vedi GEOGRAFIA DEL POST-STRUTTURALISMO]: si tratta delle canoniche “tre H” (Hegel, Husserl e Heidegger) e degli autori della cosiddetta (da Paul Ricoeur) scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud). Rispetto a Foucault e Deleuze, Derrida è un pensatore ancor più emblematico del postmodernismo, e come tale ha sempre ricevuto le più accese critiche da parte dei filosofi avversi al postmodernismo: significativa a questo proposito fu la contestazione dell’assegnazione della laurea honoris causa a Cambridge, nel 1992, con il pretesto che nella filosofia derridiana non fosse possibile reperire una teoria della verità (in un senso accettabile dagli analitici). Più di altri filosofi postmoderni (o ascritti a tale “corrente”) Derrida è stato ripetutamente accusato di non essere un vero filosofo ma piuttosto uno scrittore (un’accusa, questa, spesso mossa anche a Nietzsche): i suoi testi sarebbero infatti sprovvisti delle caratteristiche minime richieste al genere filosofico (argomentazione chiara, tematizzazione adeguata dei problemi e dei concetti, indicazione di soluzioni ai problemi proposti, ricerca di una teoria soddisfacente). Ma proprio l’originalità del trattamento sperimentale che Derrida riserva alla filosofia, da una parte sottoponendola a qualcosa di simile a una psicoanalisi freudiana, dall’altra sollecitandola fino ai suoi confini con la letteratura e l’arte, costituisce buona parte dell’importanza e dell’influenza che questo grande filosofo ha esercitato ed esercita tuttora.


Decostruzione e differenza
I due concetti cui il nome di Derrida è inscindibilmente legato sono la Decostruzione e la differenza. Di Decostruzione aveva già parlato Heidegger (in tedesco Dekonstruktion o Abbau): è un’operazione metafisica che ha luogo nell’ambito della storia dell’essere; è il venire meno, il destrutturarsi, o decostruirsi appunto, delle tradizionali istanze concettuali del pensiero metafisico, ossia – nella lettura nietzscheana e poi heideggeriana – del pensiero tout court, almeno di quello occidentale, e per un portato idealista sotteso a tutta l’ermeneutica (“l’essere che possiamo comprendere è linguaggio”, Gadamer) della realtà che non è pensabile al di fuori del pensiero/linguaggio.
La metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, consterebbe di una serie di opposizioni concettuali, quali: sensibile/soprasensibile, uomo/animale, uomo/donna, mito/logos, razionale/irrazionale, voce/scrittura, bene/male, ecc. Il “metodo” decostruttivo (ma in realtà si tratta di un procedimento così erratico e per certi versi poeticamente creativo da rendere impossibile parlare di metodo) mostra che all’interno di ogni testo filosofico della tradizione il discorso si struttura necessariamente sulla base di qualche opposizione del genere, mirando a mettere in luce che gli opposti stanno tra loro in una tensione dialettica sempre aperta su un terzo termine, che per Hegel era la Sintesi.
Nella conferenza omonima Derrida pensa il concetto di Differenza - o differanza come scrivono alcuni traduttori (in francese différance, con la a anziché con la e) - come alla differenza metafisica che è l’origine di tutte le differenze, ossia di tutti i segni e di tutte le cose: l’arci-differenza. La Differenza non è questa o quella differenza empirica o trascendentale perché la stessa opposizione empirico/trascendentale è possibile grazie al differire della Differenza: è la Differenza in sé, ciò che Plotino chiamava, con un’espressione spesso citata da Derrida, l’informe traccia della forma. Il nome stesso, différance, non è comprensibile se non leggendolo, il che è un buon esempio dell’idea centrale di Derrida riguardo alla scrittura, dalla metafisica tradizionalmente rimossa rispetto alla voce.


Metafisica della scrittura. La tematica della Differenza trova nella scrittura un suo banco di prova privilegiato. In una serie di opere infatti (La voce e il fenomeno; Della grammatologia; La scrittura e la differenza) Derrida ha facile gioco nel mostrare come la filosofia abbia tradizionalmente subordinato la scrittura alla voce, ipostatizzando lo spirito vivente (si pensi alla coscienza della fenomenologia husserliana) e considerando la scrittura come un supplemento privo di vita e al limite perverso e nocivo (il Fedro platonico è all’inizio di questa storia di rimozione della scrittura). Derrida pensa invece che la scrittura, intesa come iscrizione, preservazione del presente attraverso tracce che testimoniano il passato e permettono l’interpretazione futura, sia originaria rispetto al pensiero e alle sue manifestazioni viventi, come la voce in tutte le sue declinazioni: voce della coscienza, soliloquio interiore, dialogo, ecc. Derrida ha chiamato “logocentrismo” questa rimozione strutturale della scrittura: la metafisica pospone e subordina la materialità del significante (la traccia in tutti i suoi aspetti non significativi) all’idealità del significato, il logos.
Di tutte le coppie concettuali decostruite da Derrida quella di scrittura e voce è senz’altro la più significativa: da essa deriva la corrente “testualista”, teorizzata da Richard Rorty e di cui Derrida sarebbe il massimo esponente. La famosa affermazione derridiana secondo cui “non esiste fuori-testo” è stata infatti interpretata nel senso che non esisterebbe nulla al di fuori di un discorso teorico, di un mondo testuale costruito da questa o quella tradizione filosofica, venendo a sostenere qualcosa di simile al filosofo della scienza Willard Van Orman Quine, secondo cui nulla esiste al di fuori di una teoria. Derrida ha successivamente attenuato il senso di questa affermazione, intendendo che nulla avrebbe senso al di fuori del suo contesto: se questa attenuazione rischia di risultare banalmente vera, si mostrano qui altre possibili analogie del pensiero filosofico derridiano, in particolare con la filosofia del secondo Wittgenstein e la sua tematizzazione delle forme di vita e dei giochi linguistici, che vanno osservati più che pensati.


Verità, metodo, teoria
In comune con il post-strutturalismo (e a differenza di alcuni suoi successori come Alain Badiou, cfr. cap. Pop-filosofia, maitres-à-penser e neurofilosofi) Derrida questiona il concetto stesso di verità, pur non approdando affatto a posizione relativistiche (questo sarà evidente nell’ultima fase della produzione derridiana, quella più spiccatamente etico-politica), ma piuttosto a un arcitrascendentalismo di stile non incompatibile con quello kantiano. Se ogni dato empirico ha un’origine trascendentale, il trascendentale è l’origine della verità; tuttavia il trascendentale non potrà essere ridotto all’elenco kantiano di forme pure dell’intuizione, categorie e schemi, ma si rivelerà di volta in volta come Differenza attraverso l’operazione di decostruzione dei testi e delle tracce di cui la storia della metafisica è la disseminazione.
Cade così da sé l’accusa di mancanza di metodo, spesso rivolta a Derrida e alla decostruzione, e che rappresenta una differenza forte rispetto all’ermeneutica gadameriana cui pure spesso Derrida viene avvicinato. La decostruzione non può avere un metodo semplicemente perché la decostruzione decostruisce ogni metodo, mostrando l’impalcatura logica e concettuale e la sua non-assolutezza, la sua relatività dialettica che fa sì che ogni concetto chiaro e distinto sia sempre dipendente e quindi intrinseco al proprio opposto: non per nulla si è parlato di un iper-hegelismo di Derrida.
In questo modo si indebolisce anche la possibilità di una teoria filosofica compiuta: la decostruzione si caratterizza come dissoluzione di tutte le teorie esistenti, non certo per spirito distruttivo ma perché queste si basano su presupposti che celano la struttura dialettica della realtà e del pensiero: portare alla luce il rimosso di ogni pensiero non può che essere un’operazione demistificatrice e salutare.


Messianismo e politiche spettrali. L’ultima fase della filosofia derridiana è caratterizzata da un forte interesse per l’etica e la politica, che in precedenza erano sempre stati sullo sfondo degli scritti derridiani, con prese di posizione anche molto forti (per esempio contro l’eurocentrismo dello Husserl della Crisi delle scienze occidentali). In una serie di opere in cui si decostruiscono come sempre i testi della tradizione letteraria, filosofica, etica e politica, Derrida sferra un potente attacco all’umanismo progressista e al relativismo postmodernista, a dispetto del fatto che la sua filosofia sia spesso stata criticata come una delle forme filosofiche del relativismo contemporaneo.
Parallelamente a un accresciuto interesse per la politica si accentua anche l’insistenza di Derrida sulla tematica del messianismo ebraico, che viene trasposto dal campo religioso a quello puramente metafisico. La struttura logica soggiacente a tutti gli atti di decostruzione mostrati nei testi derridiani è sempre quella per cui se è vero che, secondo la lezione di Heidegger, non si dà mai una pura presenza (il vero dono non è quello che si può donare, il vero perdono non è quello che si può concedere ecc.) è anche vero che gli esseri umani sono costantemente in cerca di una piena presenza. L’analogia con la filosofia di Kant è evidente, e infatti vi è un’istanza “illuministica” in quest’ultima fase del pensiero derridiano: ciò che non è coglibile dalla ragione come oggetto del pensiero acquista il suo senso in prospettiva tendenziale, come idea della ragione (o come orizzonte della decostruzione).
In Spettri di Marx (1993) Derrida esplicita definitivamente il suo interesse per la filosofia politica. Marx viene riletto in una chiave originale, quasi “letteraria”, e messo a confronto con Shakespeare: lo spettro del comunismo che si aggira per l’Europa (Manifesto del partito comunista) viene paragonato al fantasma del padre di Amleto e analizzato nei termini freudiani del ritorno del rimosso, per cui il naufragio del comunismo – sovietico – non è un argomento decisivo contro la persistenza delle istanze rivoluzionarie e di emancipazione, di cui Marx nella lettura derridiana (che ne fa più un pensatore messianico dell’emancipazione e della giustizia che un filosofo della rivoluzione) appare un campione.
Gli ultimissimi testi di Derrida testimoniano di un impegno politico diretto e radicale in un modo insospettabile nelle prime fasi della sua opera: il filosofo francese mette infatti il suo armamentario decostruttivo a confronto con l’attualità mondiale, stigmatizzando per esempio la guerra americana in Afghanistan e Iraq e interpretando l’attentato dell’11 settembre alle due Torri Gemelle come una conseguenza della politica di terrore attuata dagli Stati Uniti nel corso del dopoguerra. Inoltre, molti tra gli ultimi testi di Derrida decostruiscono l’opposizione uomo/animale, inserendosi in modo peculiare nel recente dibattito filosofico animalista.

lunedì 27 agosto 2012

MANGIAR TANTO, MANGIAR POCO (Vecchi racconti, 1998))

Al collegio G. spesso accanto a me mangiava un ragazzo dalle strane abitudini alimentari. Fino alla fine del pasto, sei mele giacevano inesorabilmente davanti al suo piatto: alla fine due venivano mangiate e quattro le raccoglieva con le grosse mani femminee, per consumarle in stanza durante la serata di studio.
R. mangiava tanto ma un tempo era stato anoressico. A quell'epoca avevo scoperto da poco che cos'è l'anoressia, perché me l’aveva spiegato V., che era stata anoressica negli USA. All'età di diciotto anni V., di ritorno dall'Intercultura negli USA, era irriconoscibile, scheletrica, una persona diversa rispetto a prima. Anoressica. Gli ultimi tempi negli USA mangiava mezzo toast al giorno, adesso invece V. è in carne, è guarita perfettamente dall'anoressia, più di recente però ha avuto altri problemi psicologici di cui non mi sono interessato perché non eravamo più per niente amici.
Io peso 55 chilogrammi e sono alto un metro e settantasette, dovrei pesare minimo dieci chili in più. Mangio troppo poco. Al tempo del liceo, l'anno prima della maturità, avevo smesso di mangiare carboidrati per un certo tempo, perché credevo di avere la pancia. Per un altro periodo mangiavo pasta scondita al posto del pane anche a colazione, perché avevo letto su un libro di macrobiotica che il pane occidentale diluisce il sangue. Non volendo indebolirmi a causa del sangue diluito preparavo tanta pasta e la lasciavo nel colapasta in forno (il colapasta era di plastica), cosi al mattino benché non fosse per niente buona me la trovavo in forno, fredda da accompagnarsi con la soia prima di andare a scuola. L'avrò fatto per poco tempo ma nel mio ricordo è un'intera epoca.
Adesso invece ho deciso di mangiare tanto. Per la verità l'avevo già deciso l'anno scorso, mi ero detto che è importante avere un corpo forte se non ci si vuole ammalare facilmente e morire come mio padre, e mi ripromettevo di prendere cinque chili entro Natale. Ma non c’è stato niente da fare, non ci sono riuscito.
Ora da qualche giorno cerco di mangiare a ogni pasto sia proteine che carboidrati, e questo dovrebbe farmi ingrassare.
Sabato sera abbiamo cenato in un ristorante giapponese di Place Saint Opportune, e mentre parlava di quanto piaccia il sushi a Franco Quadri A. ha preso il tempura dopo il sushi, cioè ha mangiato due volte. Mi ha fatto piacere vedere uno che mangiava tanto. Suppongo che lo facesse per un motivo preciso, però non mi era chiaro quale fosse questo motivo che lo spingeva a mangiar tanto.

domenica 26 agosto 2012

L'educazione esistenziale dell'intellettuale squattrinato (intervista inedita e troppo personale a Gianluigi Ricuperati )

Lo scrittore e giornalista Gianluigi Ricuperati esordisce con un romanzo molto bello e toccante (Il mio impero è nell'aria, Minimum Fax), nel quale visita alcune possibilità contemporanee di inautenticità esistenziale e dolorosa. Il denaro, e l'ansia di disporne prendendolo a prestito, è uno dei motori narrativi delle vicende di Vic Gamalero (alter-ego virtuale dello scrittore?). Ma il rapporto con i genitori e l'amore ricevuto e dato, con una faticosa presa di coscienza, sono la vera chiave per comprendere questo libro, che merita letteralmente la definizione che il filosofo Gilles Deleuze dava di un'opera d'arte: blocco di sensazioni.

Vic Gamalero è un intellettuale - anche se tu non lo presenti come tale (diciamo che camuffi un po' il suo status sociale). Mi domando se la sua formazione incompleta e fluttuante, che lo porta a occuparsi di cose di cui non sa nulla pur essendone attratto, come l’architettura, sia un’implicita critica a un tipo di intellettuale odierno (quello postmoderno) oppure se tu abbia piuttosto voluto fotografare un tipo umano particolare, affetto da una debolezza di volontà slegata dal contesto storico.
La tua impressione è corretta. Vic Gamalero è un intellettuale, ma un intellettuale marginale dell'era hyper-finanziaria, con un cumulo di conoscenze e strumenti assai superiore a quelli richiestigli. È un intellettuale sottoutilizzato, come molti altri - in questo è una rappresentazione realistica, il romanzo, per nulla metaforica, a mio parere. Non sono d'accordo invece con la tua definizione di 'debolezza di volontà' riguardo alle azioni e ai pensieri di Vic. Mi pare invece l'esatto opposto: a intrappolarlo è un eccesso di volontà, con una totale assenza di strategia. Cos'è un intellettuale, se non un agente deputato alla produzione di conoscenza? Ecco, in questo senso Vic è capace di produrre conoscenza, pur nella sua volatilità e superficialità, tocca forse delle corde nascoste e abbastanza profonde all'interno dei 'sistemi' in cui s'infila più o meno lecitamente: l'architettura, la pubblicità, il recupero crediti, l'élite economica. Dice cose ‘vere’ - come direbbe Franca D'Agostini - rispetto al suo sfregamento con questi 'mondi', e anche rispetto a questi mondi in se stessi. Il punto è un altro. È che Vic, pur essendo a tutti gli effetti un agente della produzione di conoscenza, non si accontenta della conoscenza: vuole produrre realtà. Vuole influenzare i processi che accadono nella cosiddetta realtà: vuole influenzare gli altri, che sono parte consistente della 'realtà'. Per rovesciare il famoso motto coniato a mo' di titolo dal grande Tommaso Landolfi - uno degli eroi citati e nascosti di questo personaggio, con la sua languida attrazione per il nulla e per la creazione e la distruzione di valori, economici e sentimentali - 'cosa importa / se non la realtà'?

Nonostante si muova in un ambiente normalmente politico (c’è il cattolicesimo borghese dei genitori; viene anche evocatala figura di un giudice che combatte la mafia), Vic è un personaggio impolitico. Per esempio, abbandona l’Opus Dei nel giorno stesso della beatificazione di Escrivà de Balaguer; ci si potrebbe attendere un giudizio sul personaggio beatificato (notoriamente simpatizzante per il nazionalsocialismo), invece sembra quasi che Vic prenda le distanze dall'Opus Dei in virtù dell'ascolto del mitico disco dei Velvet Underground. Il tuo è cinismo verso la politica?
Impolitico è una definizione interessante. Considerazioni di un impolitico di Mann è uno dei miei libri prediletti e la sua posizione rispetto alle turbolenze ideologiche del 900 è per me un modello di relazione corretta (e impermeabile alle mode) di relazione fra un letterato e la politica. Come cittadino ho opinioni contraddittorie e screziate, pur all'interno di una generale adesione a ciò che potremmo chiamare liberalismo di sinistra: provo simpatia per Vendola, che ho conosciuto recentemente, ma ritengo che l'Italia abbia bisogno disperato di un nuovo Prodi. Generalmente giudico un politico verificando la sua attitudine verso la letteratura, perché in un mondo che emargina sempre di più il sapere letterario, sostenerlo e amarlo è per me prova di coriacea appartenenza al meglio del passato e coraggiosa diffidenza nei confronti di un futuro che sembrerebbe poco incline ai polverosi abissi gratuiti che allignano al fondo di ogni educazione letteraria. Io detesto gli scrittori che emettono giudizi semplicistici per bocca dei loro personaggi. Vic è indifferente alla beatificazione di Jose Maria Escrivà perché è rapito dalla testa ai piedi: completamente avvinto dalla scoperta di un meraviglioso disco che fa parte per me della storia della letteratura e dell'arte contemporanea non meno che della musica rock. La beatificazione è per lui un rito fatto da adulti morti. I Velvet e il loro mondo sono un rito fatto da giovani immortali.

Il bisogno di denaro di una persona “irregolare” ma di estrazione benestante è uno dei motori narrativi del tuo romanzo e ha una fortissima valenza emotiva e affettiva. A un certo punto però raffiguri in maniera grottesca un ricco miliardario che si priva di tutti i suoi soldi per motivi etici (un po’ come fece il filosofo Ludwig Wittgenstein). Non hai dato un’immagine troppo sbrigativa e ingenerosa di chi col denaro ha (o cerca di avere) un rapporto non egoistico?
Non credo. Anzi. È una storia vera, quella del miliardario, che ho di peso trasferito nella realtà romanzesca; occupa un momento importante del libro, e non contiene commenti del narratore, che in un romanzo trainato dal continuo commentare del narratore è un segno di appartenenza a uno status speciale: è un'isola di fuga da alcune dinamiche psicotiche dominanti nella narrazione, ma lasciata così, come una porta che si potrebbe aprire, o forse l'incipit di un romanzo futuro. Il fatto che il miliardario, privandosi del proprio capitale progressivamente e radicalmente, finisca col compiere alcune gesta obbiettivamente grottesche (come cercare di farsi espiantare il fegato in un disperato bisogno di ‘donare’ anche parti del corpo) certamente fa acquisire un punto alla squadra di coloro che ritengono l'istinto alla proprietà e al difenderla un tratto 'naturale’ e non troppo modificabile culturalmente (cioè eticamente). Non ti dirò come la penso, anche se è facile intuirlo. Però ti dirò questo: nella mia vita, personale intendo, ho sperimentato e sperimento delle pulsioni verso la generosità che trovo talvolta inquietanti: cioè mi appaiono come inversioni della natura, sebbene possiedano l'indubbia qualità di farmi stare molto bene. È come dire: non essere egoisti con la proprietà e con le proprie cose (materiali e immateriali) rende un po' più felici e un po' più strani, irregolari rispetto al decorso umano.

Ti ho sentito dichiarare che il tuo potrebbe essere il primo “personaggio post-berlusconiano” della letteratura italiana contemporanea. Ma per configurare alternative antropologiche al berlusconismo imperante non ci vorrebbe un personaggio un po’ più engagé di Vic, che rispetto all'Italia contemporanea appare comunque come un outsider (e anche piuttosto simpatico)?
I personaggi engagé producono talvolta letteratura che non suscita interesse, almeno in me. Io credo che la svolta antropologica non dipenderà dalla letteratura o dal cinema, ma da un complesso, troppo complesso coincidere di effetti e conseguenze – un incrocio fra un crollo e una prova d'orchestra. I personaggi che m'interessano di più sono i faccendieri, figuriamoci se può funzionare l'engagement di un faccendiere...

A differenza di Vic tu non sei certo un intellettuale disorientato e in crisi con la realtà: Vic rappresenta un destino che hai pensato possibile per te?
Sono disorientato, ma non in crisi con la realtà. Mi piace maneggiarla, affrontarla, influenzarla per come posso. Il destino di Vic è esattamente l'opposto, e spero con ogni vivacità d'animo che non sia il mio.

Mi pare che il tuo romanzo si presterebbe molto bene a una versione cinematografica: ci sono progetti in questo senso?

Sarebbe cosa buona e giusta. Ci sono contatti ma per ora non posso dire nulla.

venerdì 17 agosto 2012

Sceneggiatura film Heidegger, 1


Scena Arendt.

Mdp nell’angolo in basso a destra dell’aula, orientata dal basso in alto in modo da riprendere gli scranni degli studenti.

Arendt siede in mezzo a un gruppo di allievi, al centro degli scranni; due ragazze sedute in prima fila al centro, altre due in fondo a destra (rispetto mdp). Arendt è vestita di un sobrio abito verde, le braccia stese dritte sul banco; il suo sguardo è inespressivo, immobile, ma dolce, e punta verso Heidegger che tiene lezione.

Heidegger:

... [un brano di Ontologia sul senso dell’esistenza]

Alla fine della lezione uno studente va da H e gli porge la mano con gravità; mentre ancora gliela serra gli dice:

Studente: «Lei ha saputo elevare lo spazio accademico alla tensione dialettica di un autentico spazio sacro. Le rispondenze essenziali del Suo pensiero con lo spirito del tempo ne mutano autenticamente la struttura epocale. Ma la Germania ha bisogno di un Führer, acciocché la decisione esistenziale del popolo tedesco trovi modo di formularsi nella sua originarietà.»

Heidegger non dice nulla e resta dietro la cattedra; lo studente abbassa lo sguardo ed esce dall’aula. Hannah resta seduta nel banco. Lei e Heidegger si fissano l’un l’altro in silenzio per diversi secondi (mezzo minuto).

Arendt (guardando Heidegger, con tono inespressivo): «Nella passione, con la quale, soltanto, l’amore coglie il chi dell’altro, va per così dire in fiamme l’interstizio mondano che ci collega agli altri e al tempo stesso ce ne separa. Ciò che separa gli amanti dal resto del mondo è che essi sono privi di mondo, che il mondo che si pone fra gli amanti è bruciato».

I due continuano a fissarsi immobili, mentre lo spazio fra di loro si consuma in dissolvenza bianca (cfr. Querelle de Brest) fino a lasciare le due figure avvolte su uno sfondo abbagliante che infine le avvolge.

[Sonoro: Un suono insistente, ossessivo, simile a un brano di Ligeti, accompagna la dissolvenza dello sfondo.]

Stupidario heideggeriano

A Heidegger devo molto, incluso il fatto di aver *deciso [noterò con un * tutti i concetti che si possono ricondurre alla mia *comprensione della filosofia heideggeriana] di studiare filosofia. All'ultimo anno di liceo mi pareva che il suo *essere-per-la-morte fosse la cosa più importante che si potesse studiare, che io potessi studiare. La *possibilità suprema, ossia la possibilità che tutte le possibilità diventino impossibili.
Se non avessi incontrato Heidegger al liceo, di sicuro mi sarei *salvato...

Di ritorno dal Giappone per un breve viaggio, mi è tornato in mente un libretto in mio possesso su "H e l'Oriente" e me lo sono portato appresso per la vacanza agostana. Non l'avessi mai fatto, e soprattutto non ne avessi mai scritto su Facebook, dove Jacopo Valli mi attendeva al varco col suo nondualismo antiscientista...
Risultato: ora devo leggermi diversi libri su H e i filosofi giapponesi della Scuola di Kyoto, a cominciare da "On Buddhism" di Keiji Nishitani, interlocutore di H, nonché tutto ciò che mi permetta di ricollegarmi ai miei antichi studi universitari heideggeriani (fu Deleuze a salvarmi da H e Derrida).

La mia attuale intuizione, è che HEIDEGGER FOSSE STUPIDO. Lo so che a molti questa affermazione sembrerà la definitiva dimostrazione della MIA stupidità, non importa: la *storia della filosofia è costellata di filosofi che detestano cordialmente qualche Grande del *pensiero.
(Nota: con questo non intendo che io sia parte della storia della filosofia. Non sono stupido).
D'ora in poi - e per il resto della mia vita! - cercherò di collezionare tutte le stupidaggini di Heidegger, impegnandomi naturalmente a dimostrare che si tratta effettivamente di stupidaggini.
Insigni ricercatori (Adorno, Bourdieu, Farias, Faye) hanno dedicato parte del loro tempo a dimostrare che H fosse intrinsecamente nazista, che il suo pensiero fosse nazista: questo, assieme a nonno Deleuze, io lo do per scontato.
Cercherò piuttosto di mettere in luce gli aspetti RIDICOLI del profeta di Todnauberg, così come essi appaiono ai miei (ridicolo) occhi.
Ritengo che tali aspetti costituiscano materia essenziale per un film su H (un film su H è un mio vecchio progetto, ma in passato mi sfuggiva la vena comica del poetastro baffuto).

PS: fu Edgard Reitz a rivelarmi, un mattino in cui lo accompagnai a colazione al collegio Ghislieri, che avrebbe voluto fare un film su Wittgenstein presentandolo come "comico". L'idea era buona, ma il filosofo giusto non era Wittgenstein: era Heidegger.

PSS (30/04/14): rettifico, non mi impegnerò affatto a dimostrare che le seguenti stupidaggini sono stupidaggini. Se non siete stupidi dovreste essere d'accordo con me.

STUPIDAGGINE 1, H e la tecnica secondo Franco Volpi: "Per Heidegger, in sostanza, non si va oltre la tecnica assumendo degli atteggiamenti di reazione rispetto ad essa. Nel vortice del nichilismo della tecnica l'uomo non deve assumere, come dire, degli atteggiamenti semplicemente di ritorno, di battaglia, di conservazione del pretecnico, perché la tecnica consumerebbe e roderebbe qualsiasi tentativo di reagire. Proprio perché per Heidegger essa è una potenza epocale non può essere riscattata attraverso degli atteggiamenti di semplice reazione o di conservazione. Per oltrepassare la tecnica è indispensabile lasciare che la tecnica si dispieghi in tutte le sue potenzialità. L'unico atteggiamento possibile che Heidegger vede in questo dispiegarsi della tecnica consiste nell'aiutare la tecnica a sviluppare tutte le sue possibilità fino all'estremo, e dunque un atteggiamento che, come dire, raccolga le risorse ancora integre, per poter mantenere l'equilibrio nel vortice che la mobilitazione totale della tecnica ha scatenato."

COMMENTO: eliminando le parole retoriche come "vortice" e "mobilitazione totale" (titolo di un libro di Junger) sembra quasi che (secondo Volpi) secondo Heidegger bisognerebbe costruire il maggior numero possibile di centrali nucleari, space shuttle e scudi stellari per affrettare la fine di un'epoca e l'inizio di una nuova epoca. Il tutto, inanellando raffinati testi filosofico-poetici in compagnia di professori universitari occidentali e orientali in visita alla propria semplice baita nel bosco...

STUPIDAGGINE 2: dalla biografia di H. W. Petzet, paragrafo sull'incontro con

Heidegger aveva parlato di ‘abbandono’, di ‘apertura al mistero’. Così, alla fine si parla dell’essenza della meditazione [Meditation]: cosa significa per l’uomo orientale? Il monaco risponde del tutto semplicemente: “Raccogliersi”. E spiega: quanto più l’uomo, senza sforzo di volontà, si raccoglie, tanto più dis-fa [ent-werde] se stesso. L’‘io’ si estingue. Alla fine, vi è solo il niente. Il niente, tuttavia, non è ‘nulla’, ma proprio tutt’altro: la pienezza [die Fülle]. Nessuno può nominarlo. Ma è, niente e tutto, la piena realizzazione [Erfüllung]. Heidegger ha compreso e dice: “Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto.”
Ancora una volta il monaco ripete: “Venga nella nostra terra. Noi La comprendiamo”.
Heidegger è molto scosso. Chiude il colloquio con le parole (rivolte a me): “Le dica che tutta la mia fama nel mondo non significherebbe per me nulla, se io non fossi compreso e trovassi comprensione. Di questo non solo sono grato, ma in questo colloquio ne ho avuto una conferma, quale raramente mi è toccata.”
Entrambi si alzano e si guardano a lungo. Poi il monaco si inchina profondamente e va via. Il colloquio è durato più di due ore e si è fatto notte.
Solo lentamente si scioglie la tensione. Gli Heidegger mi pregano di restare a cena. Prima, devo mostrare alla Signora Elfride dove si trova Bangkok su di un vecchio atlante scolastico. Poi vengono in luce molte piccole osservazioni. Heidegger ed io conveniamo sul fatto che il volto del monaco ha una purezza infantile, tra l’animale e lo spirituale, ma mostrata senza ‘infantilità’, poiché vi è la più profonda consapevolezza. E che attraverso il viso diventa visibile la santità di tutta la persona. Meravigliosi i profondi occhi che, a differenza dei giapponesi, guardano dritto negli occhi. Nessun dualismo tra spirito e sensi. La serietà, ma anche la serena allegria: questo resta indimenticabile.
D’altra parte, Heidegger ha sentito fortemente che uomini come il monaco non avvertono neanche ciò che significa realmente l’apparato tecnico che noi usiamo. Essi lo prendono e lo usano come un martello o un ago. Tanto poco sono impressionati dalla tecnica occidentale, altrettanto poco sanno cosa accade nella ‘In-stallazione’[Ge-Stell].
Doveva aver ragione. Circa un anno dopo l’incontro con il monaco (o forse di più?), un giorno mi chiamò: aveva da parteciparmi qualcosa di triste. “Il monaco col quale ebbi quel bel colloquio ha abbandonato il suo Ordine e ha assunto un lavoro in una società televisiva americana.”

COMMENTO: numerosi spunti, qui, gustosissimi. Inizierei sottolineando la necessità di "mostrare alla Signora Elfride dove si trova Bangkok su di un vecchio atlante scolastico". La signora Elfride, nazista convinta e antisemita conclamata, evidentemente nelle scuole del Terzo Reich non aveva imparato a consultare un atlante. Ma a Martin piaceva per la sua fresca e originaria femminilità.
Venendo a Martin, frasi come "Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto" mi riportano alla mente il caro zio Leone: anche lui diceva sempre "io dico sempre...".
Pregevolissimo l'epico momento in cui Heidegger è "molto scosso": “Le dica che tutta la mia fama nel mondo non significherebbe per me nulla, se io non fossi compreso e trovassi comprensione.”
Si evince che Martin temeva moltissimo di essere ammirato senza reale comprensione, solo per vezzo, magari per il suo severo e diginitoso aspetto fisico (non fu lui che una volta disse a Jaspers che Hitler aveva delle mani bellissime?). Mettiamoci nei suoi panni: stuoli di ammiratori lo considerano uno dei più importanti filosofi viventi e lui è triste perché pochi lo comprendono davvero. Terribile. Per fortuna ogni tanto arriva un monaco buddhista dalla Tailandia a risollevare la media della comprensione di Heidegger. Anzi no, perchè poco dopo si capisce che anche il tailandese era un babbione come gli occidentali: "D’altra parte, Heidegger ha sentito fortemente che uomini come il monaco non avvertono neanche ciò che significa realmente l’apparato tecnico che noi usiamo. Essi lo prendono e lo usano come un martello o un ago. Tanto poco sono impressionati dalla tecnica occidentale, altrettanto poco sanno cosa accade nella ‘In-stallazione’[Ge-Stell]."
Non per nulla il monaco furbastro, l'anno successivo (forse dopo aver capito il senso della filosofia di Heidegger) decise di andare negli USA a lavorare in televisione. O tempora o mores.

STUPIDAGGINE 3. A Zollikon, Ginvera Bompiani chiese in francese a Heidegger se conoscesse la musica di Nietzsche. Poiché Heidegger non capiva bene il francese, equivocò che Ginevra gli stesse chiedendo se conosceva Nietzsche.
COMMENTO: Quando si dice "insight", "principio di carità" e "massimizzazione della pertinenza" non si pensa di sicuro a Heidegger.

STUPIDAGGINE 4. Citato in "Perché ancora la filosofia", Carlo Cellucci, p.4:«nessun sapiente proverà invidia per gli ‘scienziati’ – gli schiavi più miseri dei tempi più recenti».
COMMENTO: no comment.


STUPIDAGGINE 5. Citato in "Heidegger, antisemita e vero nazista", Ranieri Polese: «Ma può essere un caso che il mio pensiero e le mie questioni nell’ultimo decennio siano stati rifiutati proprio in Inghilterra, e che non si sia fatta nessuna traduzione delle mie opere?».
COMMENTO: Ehi, Martin, non credo affatto che sia stato un caso: a quel tempo, prima che voi crucchi cominciaste a bombardarli, i britannici avevano già a che fare con Wittgenstein. Wittgenstein, hai presente? (Che pure apprezza la tua nozione di angoscia, in un suo frammento).

sabato 28 luglio 2012

Il professore va al congresso

Questa missione a Sapporo è l'ultima, lo giuro. Non andrò più ai convegni, tanto non è premiante dal punto di vista accademico. Però mi sono divertito un sacco...

La prima fu a Roma, Codisco, un semplice convegno di dottorandi in scienze cognitive.

[to be continued]

sabato 14 luglio 2012

Giovanni Salio: Complessità, globalità e ignoranza: fondamenti epistemologici della conoscenza ecologica


Centre for Studies on Federalism (CSF)


Political Ecology and Federalism:
A Multidisciplinary Approach Towards a New Globalization?

Turin, April 27-28, 2006


Giovanni Salio (Secretary of Italian Peace Research Institute- Civilian Peace Corps Network and Chairman of Centro Studi Sereno Regis, Turin, Italy)

Complessità, globalità e ignoranza: fondamenti epistemologici della conoscenza ecologica

Controversie, conflitti ambientali, tecnoscienza

La tecnoscienza è diventata una delle fonti principali di controversie e di conflitti (Daniel Sarewitz:How science makes environmental controversies worse, www.cspo.org/ourlibrary/documents/environ_controv.pdf ). Si osserva, da tempo, che su problemi sufficientemente complessi, scienziati, tecnici ed esperti sono sempre in disaccordo tra loro. Le controversie scientifiche si trasformano in conflitti sociali quando si passa dal campo della ricerca a quello dellapplicazione, che coinvolge la cittadinanza nel processo decisionale.
Pur essendo sempre esistiti, a partire dagli anni70 i conflitti ambientali sono diventati particolarmente frequenti sia nei paesi ricchi, ad alta industrializzazione, sia in quelli poveri, ancora prevalentemente agricoli (si veda: Joan Martin Alier, The Environementalism of the Poor, Edward Elgar, Cheltenham 2002. In rete è disponibile la traduzione dellinteressante Introduzione, con il titolo: Lambientalismo dei poveri. Conflitti ambientali e linguaggi di valutazione, www.ecologiapolitica.it/web2/200401/articoli/Alier.pdf ). Nel primo caso, può succedere che i conflitti degenerino in episodi di violenza su scala locale, solitamente di intensità relativamente contenuta. Nel secondo, essi si trasformano sovente in veri e propri conflitti armati o addirittura in guerre, tanto che si parla correntemente diguerre per lacqua(Vandana Shiva, Le guerre dellacqua, Feltrinelli, Milano 2003) ,guerre per il petrolio(Ugo Bardi, La fine del petrolio, Editori Riuniti, Roma 2003; Benito Li Vigni, Le guerre del petrolio, Editori Riuniti, Roma 2004; Michael Klare, Blood and Oil, Metropolitan Books 2004) e più in generaleguerre per le risorse(Michael Klare, Resource Wars, Owl Books 2002; dello stesso autore:Is Energo-Fascism in Your Future? The Global Energy Race and Its Consequences(Part 1), www.truthout.org_2006/011507H.shtml ;Petro-Power and the Nuclear Renaissance: Two Faces of an Emerging Energo-Fascism(Part 2), www.truthout.org/docs_2006/printer_o11707G.shtml dei quali esiste una traduzione parziale con il titolo Potere nero, in Internazionale, n. 679, 9/15 febbraio 2007, pp.22-27).
Ben presto, questa tipologia di conflitti è diventata oggetto di studi specifici che hanno prodotto una letteratura vasta e complessa, animata da controversie teoriche tra diverse scuole di pensiero che interpretano in modo differente sia le dinamiche causali sia le modalità di gestione, trasformazione, intervento e mediazione dei conflitti stessi.
Tobias Hagmann, ricercatore presso listituto Swisspeace di Berna, mette in evidenza i limiti del concetto diconflitti indotti dallambienteperché in realtà non esisterebbe unparadigma causale, ovvero un nesso causale forte, deterministico tra ambiente e violenza intergruppi (Tobias Hagmann, Confronting the Concept of Environmentally Induced Conflict, (www.peacestudiesjournal.org.uk/docs/Environmental%20conflict%20final%20version%20edited.pdf ). Come già aveva osservato nei suoi studi pionieristici Ivan Illich, la scarsità o labbondanza di risorse è una relazione tra i gruppi sociali e il loro ecosistema definita da processi sociali. Questa relazione può essere manipolata mediante le politiche imprenditoriali e linfluenza esercitata dalle classi dominanti per conseguire fini politici, che spesso sono legati alla appropriazione illegittima delle risorse. Hagmann osserva chei conflitti ambientali si collocano per definizione nellinterfaccia tra le sfere della natura e del sociale(ibid, p. 17) e propone quindi di parlare più correttamente diconflitti sulluso delle risorse naturali. Non è tanto la scarsità o il degrado ambientale che predispongono al conflitto violento, quanto luso delle risorse che si iscrive in una dinamica di relazioni che possono essere cooperative o conflittuali.
Casi di studio: clima ed energia
Due delle questioni ambientali più controverse e complesse, strettamente correlate tra loro, sono relative al cambiamento climatico globale e alla problematica dell’energia
Per quanto riguarda il clima, oltre alle difficoltà previsionali sull’aumento della temperatura, ci troviamo di fronte a una grande incertezza sugli effetti locali in specifiche regioni. Il sistema climatico comprende infatti le interazioni tra atmosfera e oceani e il graduale scioglimento delle calotte polari potrebbe comportare un drastico e improvviso cambiamento della corrente del Golfo, con conseguente abbassamento della temperatura nell’America del nord e nell’Europa del nord.
Sebbene nessuno neghi in assoluto la concausa antropica del cambiamento climatico, alcuni hanno assunto una tesi minimalista. Tra i sostenitori di questa posizione spicca il contributo di Bjorn Lomborg che con il suo testo Lambientalista scettico (Mondadori, Milano 2003) ha suscitato unaccesa controversia, sulla quale si è accumulata una quantità sterminata di materiali. La tesi di Lomborg può essere riassunta con le sue stesse parole: «in realtà, il riscaldamento globale è un problema limitato, perché prima o poi smetteremo di usare i combustibili fossili []. Probabilmente smetteremo di farlo verso la fine del secolo []. Forse la temperatura non salirà più di due o tre gradi [] ma questo aumento [] riguarderà soprattutto il Terzo Mondo []. A questo punto la questione è: stiamo affrontando il problema del riscaldamento globale nel modo più sensato? La cosa importante è che il protocollo di Kyoto non fermerà il riscaldamento globale. Con un costo molto più basso [] potremmo ottenere un risultato decisamente migliore, e potremmo spendere il resto per fare qualcosa di buono per il Terzo Mondo»
In uno studio commissionato dal Pentagono e pubblicato nellottobre 2003, con il titolo assai significativo An Abrubt Climate Change Scenario And Its Implications for United States National Security, (www.gbn.com/GBNDocumentDisplayServlet.srv?aid=26231&url=/UploadDocumentDisplayServlet.srv?id=28566 ) Peter Schwartz (particolarmente noto e apprezzato come studioso di scenari futuri) e Dong Randall, checome Lomborgnon sono scienziati di professione, lanciano un appello senza mezzi termini: «pensare limpensabile. Cè una prova fondata per supporre che un cambiamento climatico globale si verificherà nel XXI secolo. Poiché sinora il cambiamento è stato graduale, e le proiezioni lo indicano altrettanto graduale in futuro, gli effetti del riscaldamento globale sarebbero potenzialmente gestibili dalla maggior parte dei paesi. Tuttavia, recenti ricerche suggeriscono che cè la possibilità che questo graduale riscaldamento globale possa portare a un relativamente improvviso rallentamento della convezione termoalina oceanica, che a sua volta potrebbe portare a condizioni invernali più dure, a una drastica riduzione della fertilità del suolo, a venti più intensi in alcune regioni che attualmente forniscono una quota significativa della produzione alimentare mondiale. Senza una preparazione adeguata, il risultato potrebbe essere una drastica caduta della capacità di carico dellambiente terrestre». Gli autori non si limitano a lanciare lallarme, ma formulano anche un ambizioso piano denominato Un progetto per liberare gli USA dal petrolio, centrato sulleconomia dellidrogeno.
L’altra grande controversia verte infatti sulle soluzioni energetiche che possono consentire di far fronte congiuntamente alla necessità di ridurre drasticamente (sino all’80%) le emissioni di gas climalteranti e alla giusta aspirazione di centinaia di milioni o addirittura di miliardi di persone a vivere in condizioni più eque e dignitose.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a scenari previsionali assai diversi. La prima grande incertezza riguarda lentità delle risorse disponibili di petrolio la fonte fossile per eccellenza dellattuale sistema energetico mondiale. Le stime di studiosi indipendenti, come C. J. Campbell portano a concludere che stiamo ormai entrando nel picco di produzione geofisica del petrolio, noto comepicco di Hubbert(R. Heinberg, La festa è finita, Fazi, Roma 2004; suggeriamo inoltre il sito www.aspoitalia.net per un continuo aggiornamento). Altre stime, di fonte istituzionale o delle principali compagnie petrolifere, sono più ottimistiche e spostano di qualche decennio lafine del petrolioa basso prezzo.
È la natura globale di questi problemi a rendere le previsioni quanto mai incerte. Gli studi sui vari scenari energetici o climatici sono costruiti non con esperimenti di laboratorio e mediante luso di strumenti che permettano di compiere misure dirette, ma con una successione di passaggi analitici che comportano stime spesso alquanto arbitrarie. Come afferma John Holdren autore di famosi contro-rapporti sulla questione del nucleare civile, con una quantità sufficiente di tempo e di denaro è sempre possibile costruire un rapporto apparentemente rigoroso, con il quale sostenere una tesi preconcetta. Per far ciò è sufficiente scegliere nelle stime i valori più consoni alla tesi che si vuole dimostrare. Lesempio più classico è la valutazione del ciclo di vita di un prodotto mediante la tecnica nota come LCA (life cycle assessment; un buon manuale è quello di Gian Luca Baldo, Massimo Marino, Stefano Rossi, Analisi del ciclo di vita LCA. Materiali, prodotti, processi, Edizioni Ambiente, Milano 2005) applicata alle situazioni più disparate per calcolare il contenuto energetico di un prodotto. Salvo casi in cui il risultato è particolarmente evidente, in generale è difficile giungere a una comparazione rigorosa tra il contenuto energetico di un prodotto ottenuto mediante un particolare ciclo produttivo e un altro. Lincertezza conoscitiva può essere talmente elevata da non consentire di trarre conclusioni definitive.
Nel caso di macrosistemi che riguardano lintero pianeta siamo in presenza di un modo diverso di fare scienza rispetto a quello tradizionale sperimentale di laboratorio. Come hanno osservato da tempo vari autori, tra i quali spicca per lungimiranza lanalisi di Gunther Anders (Luomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino, 1956 e 1980, riedizione 2003), è avvenuto il passaggio definitivo dal locale al globale «Gliesperimentinucleari oggi non sono più esperimenti []. Quelli che vengono chiamatiesperimentisono porzioni della nostra realtà, sono avvenimenti storici». La stessa osservazione è stata espressa da altri autori, in tempi diversi. Sin dal 1957, in un lavoro apparso sulla nota rivista scientifica «Tellus» (9, 18-27, 1957) due geofisici, Roger Revelle e Hans Suess, si servirono di una espressione simile a quella di Anders per esprimere i grandi cambiamenti prodotti dalla nostra specie: «gli uomini stanno compiendo un esperimento di geofisica su larga scala, di un tipo quale non avrebbe mai potuto effettuarsi in passato, potrebbe essere ripetuto in avvenire». E più recentemente, John R. McNeill nel suo importante contributo di storia dellambiente osserva: «il genere umano ha sottoposto la Terra a un esperimento non controllato di dimensioni gigantesche. Penso che, col passare del tempo, questo si rivelerà laspetto più importante della storia del XX secolo: più della seconda guerra mondiale, dellavvento del comunismo, dellalfabetizzazione di massa, della diffusione della democrazia, della progressiva emancipazione delle donne» (Qualcosa di nuovo sotto il sole, Einaudi, Torino 2002).
In sostanza, siamo passati dall’esperimento di laboratorio, che permetteva di controllare una sezione circoscritta del reale, a esperimenti compiuti direttamente nel laboratorio-mondo, sull’intero pianeta, con l’umanità che funge da cavia. Mentre la scienza tradizionale è nata in laboratorio ed è stata costruita per prove ed errori, imparando dagli errori stessi che si commettevano, ora ci troviamo ad avere bisogno di una nuova scienza, che non esiste ancora, una “scienza postmoderna”. Non abbiamo un secondo pianeta di riserva sul quale fare gli esperimenti globali che stiamo compiendo, per vedere cosa succede continuando a immettere gas-serra nell’atmosfera e ad alterare il flusso di energia che entra nella biosfera appropriandocene in modo prevalente rispetto alle altre specie viventi. Già oggi la potenza impiegata dall’intero sistema industriale mondiale ha raggiunto un valore nient’affatto piccolo, dell’ordine di un centesimo della potenza del flusso solare. Nell’ipotesi che tale potenza non venga più fornita da risorse fossili, ma sia tutta di origine solare, non si potrebbe affatto ritenere che tale transizione sia da considerarsi ininfluente: essa innescherebbe una perturbazione non trascurabile.

Convivere con l’incertezza
Abbiamo, dunque, scenari molto diversi tra loro, con scuole di pensiero che portano a conclusioni che sovente sono diametralmente opposte, sostenute da “esperti” che sono sempre in disaccordo tra loro. Tutto ciò non è nuovo, ma oggi è ancor più accentuato che in passato e pone serie difficoltà ai decisori politici e più in generale a chiunque desideri partecipare responsabilmente ai processi decisionali. Come si fa a decidere in simili condizioni di incertezza e, peggio ancora, di ignoranza? Come governare le innovazioni scientifico-tecnologiche in modo tale da minimizzarne i rischi e massimizzarne i benefici?
Una classificazione delle condizioni nelle quali siamo chiamati a decidere è quella proposta da David Collingridge (Il controllo sociale della tecnologia, Editori Riniti, Roma 1983) tra i primi a occuparsene, che definisce decisioni in condizioni deterministiche quelle in cui siamo in grado di prevedere e calcolare con certezza gli esiti di ciascuna scelta; decisioni in condizioni di rischio quelle in cui per almeno una delle scelte siamo in grado di fare previsioni probabilistiche; decisioni in condizioni di incertezza quelle in cui sono definibili tutti gli esiti finali relativi a ciascuna decisione, ma non si è in grado di formulare una previsione probabilistica; decisioni in condizione di ignoranza quelle in cui non siamo in grado di stimare non solo le probabilità dei singoli esiti finali, ma neppure tutti gli esiti possibili che si manifestano comeeventi inattesiche ci colgono di sorpresa, impreparati (come nel caso dellimpatto dei CFC sullo strato protettivo di ozono).
Gran parte delle decisioni sulle questioni più controverse (OGM, cambiamento climatico, politiche energetiche, nanotecnologie) rientrano nelle due ultime categorie, quelle più problematiche, da prendere in condizioni di incertezza e ignoranza.

Paradossi
Lodierna ricerca scientifica e tecnologica genera un paradosso: man mano che procede si amplia sia la nostra conoscenza sia il campo dellignoranza. La natura di questo paradosso è stata interpretata da Silvio Funtowictz e Jerry Ravetz introducendo il concetto discienza postnormaleNel grafico in figura, sui due assi cartesiani sono riportati, rispettivamente, in orizzontale lincertezza dei sistemi, e in verticale la posta in gioco, entrambe comprese tra un valore basso e uno alto. Lo schema permette di individuare tre principali situazioni. La scienza applicata corrisponde allarea definita da una incertezza e da una posta in gioco basse. Quando entrambe queste variabili hanno un valore intermedio, siamo nellambito della consulenza professionale. Infine quando i valori diventano alti entriamo nel campo della scienza postnormale una metodologia per affrontare i problemi STS (scienza, tecnologia, società) in fase di esplorazione, che non esiste ancora in forma compiuta, «una scienza [] alternativa, ancora nelle prima fasi di sviluppo, che potrebbe essere chiamataprecauzionale[], preoccupata degli effetti nocivi non intenzionali del progresso. Il suo stile èpostnormale, si trova nellinterfaccia controversa tra scienza e politica. Le questioni a cui si riferisce sono, tipicamente, che i fatti sono incerti, i valori oggetto di dispute, la posta in gioco elevata e le decisioni urgenti []. I tradizionali scopi gemelli della scienza, lavanzamento della conoscenza e la conquista della natura, sono insufficienti per guidare la ricerca in questa situazione postnormale []; le questioni sollevate dai problemi etici, sociali ed ecologici possono essere riassunte in due termini: sicurezza e sostenibilità» (Jerry Ravetz, The Post-Normal Science of Precaution, http://www.nusap.net/downloads/articles/pnsprecaution.pdf).
La scienza applicata è essenzialmente scienza di laboratorio, nella quale si è accumulata molta esperienza e si opera in condizioni di rischio controllato e prevedibile sulla base di una probabilità statistica. Aumentando la posta in gioco e la scala del sistema cresce anche l’incertezza e in questo campo gli scienziati svolgono spesso il ruolo di consulenti, con il compito di offrire un parere informato al decisore politico, affinché questi possa assumere le soluzioni più razionali e responsabili sulle questioni controverse.
Ampliando ancora la scala, l’incertezza e la posta in gioco, ci si trova a decidere su questioni che per loro natura sono irriducibilmente complesse, nelle quali prevalgono condizioni di ignoranza. È questo il campo della scienza postnormale oggetto di ricerca e attenta sperimentazione per individuare criteri di gestione delle controversie scientifiche e dei conflitti sociali che ne derivano.


Di questi temi si stanno occupando anche altri autori, non di formazione scientifica, tra i quali spicca il contributo del sociologo tedesco Ulrich Beck (La società globale del rischio, Asterios, Trieste 2001), che ha messo in evidenza la condizione strutturale, intrinseca alla modernità, delle nostre società definitesocietà del rischio
Mentre in passato le conoscenze scientifiche e tecnologiche hanno avuto un ruolo soltanto progressivo, di graduale riduzione di alcuni rischi e disagi della condizione umana, oggi ci troviamo di fronte a tre principali paradossi generati dal successo della scienza: «uno: nelleconomia globale della conoscenza, la continua accelerazione dellinnovazione crea una sicurezza temporanea per le industrie rispetto alla competizione, ma non può garantire la sicurezza delle loro innovazioni nellambiente. Due: di fronte a questi possibili pericoli dellinnovazione, i governi perdono la fiducia del pubblico quando cercano di rassicurarlo sullassenza di pericoli e ne guadagnano la fiducia ammettendone lesistenza. Tre: ma ammettendo il pericolo e quindi inibendo linnovazione, i governi perdono la sicurezza nella politica delleconomia globale della conoscenza» (Jerry Ravetz, Paradoxes and the Future of Safety in the Global Knowledge Economy, http://www.nusap.net/downloads/articles/safetyparadoxes.pdf Per una introduzione generale di questi temi, si veda, dello stesso autore: The no nonsense guide to science, The New Internationalist, Oxford 2006).
Questi tre paradossi formano un circolo vizioso da cui è difficile uscire applicando gli schemi classici della scienza tradizionale fondata sulla certezza. Beck sostiene che «i rischi della modernizzazione sono estremamente difficili da valutare, se non impossibili, e quindi lo è anche la loro gestione secondo linee scientifiche tradizionali».

Imparare dagli errori
Non sembra esserci altra via, al momento, che quella di imparare dagli errori procedendo con cautela, lentamente, senza fretta, in modo tale da rendere tali errori correggibili e le decisioni reversibili.
Christine von Weizsäcker ha creato il termine error-friendliness («buona disposizione nei confronti degli errori»). Il concetto di error-friendliness comprende le idee di produzione degli errori, di tolleranza agli errori, e della cooperazioneamichevoledi questi due aspetti per lesplorazione di nuove opportunità. Ed è in questa cooperazione che si colloca lutilizzazione degli errori, che è una caratteristica assolutamente generale di tutti i sistemi viventi, indipendentemente dal livello gerarchico che si voglia prendere in esame. (E.Weizsäcker e C.Weizsäcker, Come vivere con gli errori? Il valore evolutivo degli errori, in: M. Ceruti-E. Laszlo, a cura di, Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano 1988).
Contrariamente a quanto si sente affermare in vari dibattiti, la correggibilità comporta la possibilità di tornare indietro, sui propri passi. Con una metafora, l’umanità si trova nella stessa condizione di un alpinista che salga lungo una impervia via inesplorata. Il bravo alpinista, oltre che audace, dev’essere in grado di tornare indietro, di non restare “incrodato”, come si dice nel gergo, incapace sia di salire sia di scendere a valle.
Quando agiamo e decidiamo in condizioni di ignoranza, non siamo in grado di prevedere il futuro, ma dobbiamo esplorarlo con cautela, passo passo, pronti a correggere la rotta in caso di errore.
David Collingridge ha dato significativi contributi per definire cosa si intende per correggibilità di una decisione: «una decisione è facile da correggere, o largamente correggibile, quando, se è sbagliata, l’errore può essere scoperto rapidamente ed economicamente, e quando l’errore implica solo piccoli costi che possono essere eliminati rapidamente e con poca spesa». Questa filosofia della correggibilità e della reversibilità delle decisioni ha trovato una formulazione più generale nell’odierno principio di precauzione «ove vi siano minacce di danno serio e irreversibile, l’assenza di certezze scientifiche non deve servire come pretesto per posporre l’adozione di misure, anche non a costo zero, volte a prevenire il degrado ambientale».
Il principio di precauzione deriva dal più generale principio di responsabilità formulato, tra gli altri, da Hans Jonas (Principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990). Esso riecheggia il famoso ragionamento di Pascal sullesistenza o meno di Dio. Se crediamo in Dio, conduciamo unesistenza morigerata e timorosa. Qualora, dopo la morte, scoprissimo che Dio non esiste, avremmo pagato un prezzo per il nostro errore, non particolarmente pesante. Se invece non crediamo in Dio, ci comportiamo in maniera dissoluta e dopo la morte scopriamo che Dio esiste, lerrore commesso comporterà un prezzo altissimo da pagare, le pene dellinferno per leternità. Questo stesso ragionamento può essere applicato al cambiamento climatico globale, assumendo per buono lo scenario peggiore, come ci suggeriscono di fare gli estensori del progetto per il Pentagono, contrariamente a quanto sostenuto da altri autori, quali Lomborg.
Una riflessione analoga è stata svolta da Richard Leajey e Roger Lewin a proposito della perdita di biodiversità. Dopo aver posto varie domande sullo stato della nostra conoscenza degli ecosistemi e aver sistematicamente risposto con un laconico «non sappiamo», essi dichiarano: «il livello della nostra ignoranza relativamente al mondo naturale dal quale dipendiamo è talmente vasto da essere frustrante. Poi concludono con un ragionamento simile a quello proposto da Pascal:di fronte alla nostra ignoranza sulla frazione dellattuale biodiversità necessaria per sostenere un biota terrestre sano, è più responsabile dire: a) poiché non sappiamo se tutta la biodiversità sia indispensabile, possiamo tranquillamente concludere che non lo sia; oppure: b) riconosciamo le complessità del sistema, e riteniamo che la biodiversità sia tutta indispensabile? La risposta è ovvia, perché il prezzo da pagare nel caso si segua il primo atteggiamento, e quello, si riveli errato, è enorme []. Con la continua distruzione della biodiversità, sulla scia dello sviluppo economico, potremmo finire per spingere il mondo della natura a un punto oltrepassato il quale esso potrebbe non essere più in grado di sostenere in primo luogo se stesso e, in ultima analisi, noi. Lasciato libero di agire, Homo sapiens potrebbe non solo essere la causa della sesta estinzione, ma rischiare anche di essere nellelenco delle sue vittime» (Leajey e Lewin, La sesta estinzione, Bollati Boringhieri, Torino 1998).
Anche a proposito del principio di precauzione è sorta unaspra controversia. Da un lato esso è stato assunto dallUnione europea come criterio ispiratore della propria politica ambientale e sanitaria e in Francia si discute se includerlo nella carta costituzionale (Gilbert Charles, Qui à peur du principe de précaution?, LExpress, 29/03/2004,http://www.lexpress.fr/info/sciences/dossier/precaution/dossier.asp).Dallaltra, alcuni lo definiscono spregiativamenteprincipio di non sperimentazione (H. I. Miller, Contro il principio di non sperimentazione, in: P. Donghi, a cura di, Il governo della scienza Laterza, Bari 2003), e ne chiedono esplicitamente labrogazione(http://www.enel.it/magazine/boiler/arretrati/boiler85/html/articoli/focusgiammatteo-galileo.asp Per una rassegna: http://www.fondazionebassetti.org/0due/threads/01precauzione.htm#biodiversita ). In molti di questi interventi, si assiste a una curiosapoliticizzazione della scienza, con livelli argomentativi scadenti, quasi che ci si debba chiedere se la scienza è didestra o di sinistra. Sovente si ignorano studi ben più qualificati, come lampio rapporto dellEuropean Environment Agency (The Precautionary Principle in the 20th Century. Late Lessons from Early Warnings, Earthscan., London 2002, http://reports.eea.eu.int/environmental_issue_report_2001_22/en/Issue_Report_No_22.pdf ) che attraverso lanalisi di 12 casi di studio stabilisce basi sufficientemente rigorose per unazione capace di intervenire per tempo valutando sia i rischi dellazione sia quelli dellinazione e gli studi di chi, come Mariachiara Tallacchini, ha contribuito a introdurre nella nostra università gli studi discienza, tecnologia e diritto(Principio di precauzione e filosofia pubblica dellambiente, in: Cosimo Quarta, a cura di, Una nuova etica per lambiente, Dedalo, Bari 2006, pp. 95-115). Può essere interessante osservare che persino nellambito della riflessione suidiritti umanisi sta facendo strada una linea di pensiero che potremmo definire precauzionale. Nella sua riflessione sullorigine dei diritti, Alan Dershowitz, (Rights From Wrongs. Una teoria laica dellorigine dei diritti, Codice, Torino2005) ai esprime in favore di un approcciodal basso verso lalto, fondato su un ragionamento strettamente induttivo e arriva a una conclusione apparentemente paradossale: il diritto deriva dallerrore. Edai grandi errori della storia, come la Shoah, che abbiamo appreso un sistema basato sulla difesa di alcuni diritti fondamentali.Ma occorre che da questigrandi errorilumanità sappia e possa imparare. I più grandi errori, come quello di una guerra nucleare generalizzata o di un global change su larga scala, non permetterebbero certo di imparare e molte società del passato sono collassate proprio per questa ragione, come ci ricorda Jared Diamond (Collasso, Einaudi, Torino 2006).
L’odierna politica della scienza è dunque caratterizzata da un grado di complessità senza precedenti e da un insieme di paradossi che richiedono di procedere con cautela, senza fretta, stabilendo in modo partecipato gli ordini di priorità attraverso un processo di dialogo, che Jerry Ravetz descrive in questi termini: «questo è il mondo “postnormale” della politica della scienza. in cui le dimostrazioni scientifiche debbono essere integrate da dialoghi […] nei quali tutte le parti sono consapevoli che i loro specifici punti di vista e interessi sono solo una parte della storia, e debbono pertanto essere pronte a imparare l’una dall’altra e negoziare in buona fede. Questo processo può sembrare paradossale a coloro che sono stati educati pensando alle scienze naturali come dispensatrici di verità in cui ogni problema ha una e una sola risposta corretta. Sarà altrettanto paradossale per quelli che ritengono che la posizione della loro parte politica abbia il monopolio della ragione e della moralità. Ma è solo rendendoci conto di tutti questi paradossi che potremo risolvere gli enigmi della sicurezza dell’economia globale della conoscenza, sviluppare una politica critica dell’ignoranza e muoverci verso una nuova creatività sia nella scienza sia nella capacità di governo».

Quale futuro?
Per procedere in questa analisi, possiamo cercare di chiederci quale sarà il nostro futuro, partendo da alcune riflessioni del noto astrofisico inglese Martin Rees contenute nel suo brillante testo, Our final century (2003, ed.it. Il secolo finale. Perché lumanità rischia di autodistruggersi nei prossimi cento anni, Mondadori, Milano 2005), dove afferma onestamente: «qualsiasi previsione per la metà del secolo è nel regno delle congetture e degli scenari». Tuttavia non si astiene dallesaminare, con molta cautela, le possibili e molteplici minacce, di origine naturale oppure antropica, che gravano sul futuro del nostro pianeta e dellumanità. Per quelle di origine naturale si può formulare una probabilità basata sulla serie storica degli eventi, siano essi di natura cosmica (asteroidi, comete) o terrestre (vulcani, terremoti, siccità). Gli eventi indotti dalluomo (guerre, impatto economico e ambientale) sono maggiormente imprevedibili. Sommando tra loro le probabilità di questi due ordini di eventi, Rees giunge a stimare che lumanità abbia una probabilità complessiva del 50% di sopravvivere al XXI secolo.

Scenari

Al fine di orientarci nell’ardua impresa di delineare e valutare possibili e plausibili scenari futuri, come quello preconizzato da Rees, possiamo partire da un modello relativamente semplice, proposto nel 1973 da Barry Commoner, Paul Ehrlich e John Holdren, noto come modello IPAT o più esplicitamente IMPACT secondo una successiva versione aggiornata.
Questo modello è caratterizzato dalla relazione funzionale I = I (P; A; T), che si limita a tre variabili principali. Edunque un modello di complessità intermedia, troppo semplice troppo complesso, scritto comunemente nella forma I = P × A × T, dove limpatto I sul pianeta dipende dalla popolazione P, dallo stile di vita A, ovvero i consumi pro capite e dal fattore tecnologico T.
Secondo alcuni importanti indicatori quali limpronta ecologica (M. Wackernagel eW. E. Rees, Limpronta ecologica, Edizioni Ambiente, Milano 20002000) e la PPN (produzione primaria netta stimata da Ehrlich et al., 1986) limpatto I ha già superato i limiti di sostenibilità del pianeta e occorre pertanto ridurre limpatto I di almeno il 20%, se si vuole rientrare nei limiti di sostenibilità ambientale e sociale (giustizia sociale, equa ripartizione delle risorse). A tal fine proponiamo un esercizio aritmetico, che si presta a molteplici varianti a seconda di quanto si voglia ridurre limpatto e riequilibrare la distribuzione delle risorse, supponendo di riuscire a intervenire su ciascuna delle tre variabili principali.

Popolazione

Dall’inizio del secolo scorso, la popolazione è cresciuta di un fattore 4 e continuerà a crescere, anche se meno di quanto si prevedesse anni fa. Le stime più attendibili prevedono che verso la metà del secolo in corso P si assesterà intorno ai 9 miliardi, con un aumento del 50% rispetto ai valori attuali, per iniziare poi una lenta decrescita.
Consumi
Più difficile è stimare la variazione dei consumi pro capite che dipende da stili di vita e orientamenti economici generali della società. Piuttosto che ipotizzare ciò che avverrà, possiamo valutare che cosa sarebbe necessario fare per riportare I entro i limiti di sostenibilità La questione dei consumi è inoltre differenziata a seconda delle aree regionali e delle classi sociali. È non solo auspicabile, ma necessaria, una decrescita per le regioni e fasce più ricche e una crescita per quelle più povere, ovvero un riequilibrio e una ridistribuzione dei consumi e della ricchezza, in altri termini una maggiore eguaglianza. Tale riequilibrio potrebbe essere raggiunto, almeno parzialmente, mediante i seguenti cambiamenti del fattore A: riduzione graduale del 30-50% per la fascia più ricca della popolazione mondiale (20%), raddoppio per la fascia intermedia (60%) e crescita di 4 volte per la fascia più povera in assoluto (20%).
Nella realtà, assistiamo invece alla crescita indiscriminata dei consumi da parte di una classe di consumatori che ormai non solo comprende la quasi totalità (80%) della popolazione del mondo industrializzato, ma si sta allargando anche alle fasce più ricche della popolazione di altri paesi, in particolare della Cina (240 milioni, pari al 20%) e dell’India (120 milioni, pari al 10%). Tra il 1960 e il 2000, la crescita dei consumi privati globali è cresciuta di “oltre quattro volte, passando da 4800 a 20.000 miliardi di dollari equivalenti” (Greco, 2004; Worldwatch Institute, 2004).
Si stanno avverando, a quanto sembra, le previsioni che gli autori de I limiti dello sviluppo, hanno riformulato venti anni dopo il loro primo lavoro (Meadows, Meadows e Randers, 1992; Dennis L. Meadow,Evaluating Past Forecast: Reflection on One Critique of The Limits to Growth, in: Robert Costanza, Lisa J: Graumlich and Will Steffen, eds., Sustainability or Collapse. An Integrated Historyand Future of People on Earth, MIT Press, Cambridge-London 2007). Lo sottolineano gli estensori del progetto Fattore 4: «i Meadows hanno ragione, nonostante nel frattempo siano state scoperte materie prime nuove e nonostante nuove conoscenze e modifiche a vecchi modelli: i limiti dello sviluppo si avvicinano a un ritmo preoccupante». E riassumono drasticamente: «abbiamo cinquantanni solo, quindi poco tempo da perdere» (Weizsäcker, Lovins e Lovins, 1998).
In conclusione, si può ragionevolmente affermare che delle tre principali variabili, la popolazione P sembra avviata oggi a essere sotto controllo, mentre le due variabili critiche sono A e T. Mentre in passato si pensava che la crescita di A potesse essere compensata dai miglioramenti dellefficienza del fattore T, «la verità è che neppure linnovazione tecnologica e lefficienza ambientale dei sistemi di produzione riescono a tener dietro alla richiesta di beni da parte dellaclasse dei consumatoriormai globalizzata» (Greco, 2004).
A conclusioni totalmente diverse giunge, invece, lanalisi svolta da William Cline del Copenhagen Consensus Project (www.copenhagenconsensus.org ), diretto dallo stesso Lomborg In tutti gli scenari descritti da Cline, il rapporto tra costo di abbattimento delle emissioni e benefici è positivo e lo diventa via via di più se si prendono in considerazione i casi più estremi (Bjorn Lomborg, Come va la salute nel mondo: miti e priorità, in: P. Donghi, a cura di, Il governo della scienza Laterza, Bari).

Tecnologia
Per quanto riguarda la terza variabile, il fattore tecnologico T, le incertezze sono ancora più accentuate. Cè un generale accordo sulle possibilità di migliorare sensibilmente lefficienza dei processi produttivi in modo tale da ridurre la quantità di energia per unità di prodotto e di conseguenza le emissioni e limpatto ambientaleLe stime elaborate dai ricercatori del Wuppertal Institute a questo proposito variano da unfattore 4sino a unfattore 10(E. U. Weizsäcker, A. B. Lovins e L. H. Lovins,
Fattore 4, Edizioni Ambiente, Milano 1998).
In termini più generali, qualitativi, si ha una gamma assai vasta di posizioni. Una aspettativa iperottimistica è quella di Edward Teller il quale sottolinea limportanza della crescita del sapere e sostiene che «se ogni secolo portasse a un raddoppio delle conoscenze rispetto al precedente, alla fine del prossimo millennio il sapere umano sarebbe aumentato circa di un migliaio di volte rispetto alle conoscenze attuali, qualsiasi cosa possa significare unaffermazione di questo tipo» (E. Teller, Sullimportanza della scienza e delleticaI, in: AA. VV., a cura di, Scienza ed etica alle soglie del terzo millenni,o Società Italiana di Fisica, Città di Castello 1993). In tal caso, ci si potrebbe aspettare che, a parità di stile di vita e consumi pro capite, la variabile tecnologica T comporti una riduzione dellimpatto I di almeno un fattore 100. Questo atteggiamento ottimistico è sostanzialmente condiviso da coloro che ritengono che le nuove tecnologie, le cosiddette high-tech (biotecnologie robotica e nanotecnologie), consentiranno di utilizzare le risorse terrestri mediante nanorobot capaci di operare su scala molecolare in condizioni di straordinaria efficienza.
Di parere opposto è chi intravede proprio nell’avvento di queste tecnologie dei potenziali pericoli che metterebbero a repentaglio la possibilità di sopravvivenza della specie umana. Noti scienziati e tecnologi come Bill Joye Eric Drexler hanno lanciato l’allarme sui pericoli di queste nuove tecnologie che nel caso limite potrebbero comportare la realizzazione di automi autoreplicanti i quali, sfuggiti al controllo dell’uomo, assumerebbero un comportamento ecofago, divorando l’ambiente circostante sino a distruggere l’intera biosfera
Il dibattito tra gli opposti schieramenti si sta tuttora svolgendo su alcune delle più note riviste del settore. In particolare, Eric Drexler e Richard Smalley hanno difeso tesi opposte, portando ciascuno argomenti specifici anche se non conclusivi. Smalley, premio Nobel, ha sostenuto partendo dalla sua esperienza di chimico limpossibilità di costruire macchine autoreplicanti su scala molecolare, invocando tre ostacoli che richiamano il diavoletto di Maxwell del secondo principio della termodinamica senza riuscire, tuttavia, a far cambiare opinione a Drexler Sembra tuttavia ragionevole assumere che il fattore tecnologico possa portare a un aumento dellefficienza valutabile in modo cautelativo tra 4 e 10. Combinando fra loro le variazioni previste per i tre fattori (aumento della popolazione, ridistribuzione del fattore A e aumento dellefficienza T) si osserva che è possibile ridurre complessivamente limpatto I di un fattore compreso tra 3 e 4 riconducendolo entro i limiti generali di sostenibilità. Questo grossolano esercizio diaritmetica della sostenibilitàinduce a una cauta speranza, purché si agisca con tempestività in tutte e tre le direzioni principali (P. Greco, A. P. Salimbeni, Lo sviluppo insostenibile, Mondadori, Milano 2003).

Progettare la transizione: cambiamento di paradigma e di scala

Come abbiamo visto anche dallesercizio precedente, la questione ambientale ci pone di fronte a interrogativi che non possiamo aggirare con sotterfugi e ambiguità. È lintero stato delle nostre conoscenze scientifiche, ecologiche, economiche, etiche e politiche che deve essere sottoposto a una profonda revisione. Siamo in presenza di quello che gli studiosi dei sistemi chiamano una biforcazione. Ma quale strada imboccare? Oltre allincertezza e allignoranza delle nostre conoscenze scientifiche, ci troviamo anche in uno stato di ignoranza persino più grave e clamoroso per quanto riguarda i principi etici e i sistemi economici e politici: quali sono quelli che potranno consentirci un più efficace governo della questione ambientale? Possiamo utilizzare gli stessi criteri che abbiamo individuato per lanalisi dello stato della conoscenza scientifica per dirimere le controversie e i conflitti di natura sociale, economica e politica che nascono intorno alle problematiche ambientali?
Le variabili che compaiono nel modello IPAT sono in misura maggiore o minore connesse con i modelli di sviluppo, i principi etici e le teorie economiche dominanti, che sono stati ideati e si sono imposti nel corso del tempo senza tener nel giusto conto i vincoli della biosfera È come se il mondo della cultura accademica fosse scisso tra ecologi ed economisti. Gli uni studiano il sistema della biosfera e i vincoli che essa pone all’attività umana. Gli altri continuano a credere nella possibilità di agire senza vincoli, al di fuori di qualsiasi limite.
Questa scissione nella nostra conoscenza dei sistemi sociali e ambientali ha portato due noti fautori di queste tesi contrapposte, Paul Ehrlich e Julian Simon, ecologo il primo ed economista il secondo, a confrontarsi in una famosascommessa. Ehrlich prevedeva che, di a qualche anno, si sarebbe verificato un aumento del prezzo di alcuni metalli, mentre Simon sosteneva il contrario. Allo scadere della previsione, nel 1990, Ehrlich, perdente, pagò la somma pattuita nella scommessa. Ma la storia non finisce lì. Ehrlich individuò «quindici voci su cui scommettere, confrontando gli andamenti del 1994 con quelli del 2004. Ehrlich prevedeva [] che sarebbero aumentati la CO2 e lossido di azoto, lozono inquinante nella bassa atmosfera, lanidride solforosa emessa dai paesi asiatici in via di industrializzazione, lerosione dei terreni coltivabili, i morti per AIDS e la distanza di reddito tra il 10% più ricco e il 10% più povero dellumanità []. Questa volta tuttavia Simon rifiutò la sfida» (Franco Carlini, Scommesse sul pianeta inquinato, Il Manifesto, 5 ottobre 2003). Gli ecologi pensano che si debbano valutare le condizioni del contesto ambientale, mentre gli economisti sono fiduciosi nella possibilità che il progresso risolverà tutto. Ma possiamo permetterci di scommettere sul futuro del pianeta, oppure dobbiamo seguire un processo decisionale più razionale e meno rischioso per tutti?
Si possono individuare quattro principali scuole di pensiero economico rispetto alla questione ambientale, a seconda che siano centrate su una dimensione tecnocentrica/antropocentrica, oppure ecocentrica/biocentrica, e che a loro volta possono assumere una posizione estrema oppure moderata: tecnocentrismo antropocentrismo estremofiducia nel progresso che risolverà ogni problema, nella crescita economica illimitata e nellinnovazione high-tech tecnocentrismo/antropocentrismo moderato: introduzione del concetto di sviluppo sostenibile considerato compatibile con una crescita sostenibile, regolata da politiche di governance globale e di ecoefficienza egocentrismo biocentrismo moderato: politiche di conservazione ambientale, ipotesi di stato stazionario; ecocentrismo/biocentrismo estremo: riconoscimento del valore intrinseco della natura, ipotesi di decrescita economica e della popolazione.
Le principali divergenze di vedute tra le scuole tecnocentriche e quelle ecocentriche sono essenzialmente di due ordini: sul piano dei valori, le prime due scuole attribuiscono alla natura un significato prevalentemente strumentale, mentre le altre due riconoscono un valore intrinseco, indipendente dagli interessi economici dellumanità. Dal punto di vista scientifico, il punto centrale consiste nel riconoscere o meno la diverse caratteristiche dei sistemi viventi rispetto a quelli tecnologici. Come osservano Pignatti e Trezza (Assalto al pianeta. Attività produttiva e crollo della biosfera, Bollati Boringhieri, Torino 2000), mentre la biosfera è un sistema auto-organizzante lontano dallequilibrio sostenuto dal flusso di energia solare capace di autoregolarsi in modo da mantenersi in una condizione stazionaria, «si è ora sviluppato un sistema produttivo creato dalluomo che può espandersi senza vincoli in quanto può creare denaro in quantità illimitata. Viene attivato un flusso di energia che è interamente di origine tecnologica, estranea alla biosfera, che ne può assorbire senza danno soltanto in minima parte. Quindi questa energia, nella quasi totalità, viene a modificare in maniera traumatica le condizioni della biosfera []. I sistemi costruiti dalluomo, e che formano il sistema produttivo industriale, sono sistemi termodinamici vicini allequilibrio,. non [] in grado di auto-organizzarsi; sono alimentati da una riserva di energia liberata dai combustibili fossili oppure da altre fonti energetiche differenti dalla sintesi clorofilliana, ed a queste fonti possono attingere senza limiti; non dispongono di un sistema di autoregolazione».
Mentre i fautori delle prime due scuole ritengono che vi siano sufficienti gradi di compatibilità tra lattuale sistema economico e lambiente e propongono misure di riforma cautelative, che tuttavia non intaccano in profondità la concezione strutturale di base, altri autori (Georgescu-Roegen il principale esponente di un nuovo indirizzo di studi noto come bioeconomia, Arne Naess il fondatore della scuola di deep ecology, che qui è stata indicata con il termine di ecocentrismo estremo; Pignatti e Trezza; Serge Latouche) propongono risolutamente la fuoruscita dalleconomia capitalista, considerata incompatibile con le esigenze di salvaguardia della biosfera. Secondo questa visione, la fuoruscita dallindustrialismo (di tipo sia capitalista sia socialista) dovrebbe avvenire con gradualità attraverso un processo di transizione che potrebbe seguire a grandi linee i seguenti passi, al fine di garantire condizioni di sicurezza e stabilità della biosfera lontane da rischi globali imminenti: «popolazione stabilizzata a circa 1,5 miliardi di abitanti, e conseguente abbandono dellagricoltura fondata sui fertilizzanti di sintesi, progressiva eliminazione del divario tra paesi industrializzati e Terzo Mondo; consumo energetico dellordine di 1010 Gcal; area forestale aumentata del 50% rispetto a quella attuale; decomposizione dei prodotti industriali dopo luso e generale sistema di riciclaggio dei rifiuti (Pignatti e Trezza, 2000).
Questo è sostanzialmente uno scenario a “bassa potenza”, intesa sia nel senso energetico del termine, sia dal punto di vista della densità, della capacità di carico e dell’impronta ecologica Esso delinea una società a piccola scala, decentrata, con forme di democrazia diretta e partecipata e tecnologie appropriate. Esistono esempi significativi di comunità che già sono orientate in questa direzione.
Quale dei vari modelli si imporrà nel tempo e quale dovrebbe essere la politica più razionale e saggia da seguire? Ci troviamo ancora una volta di fronte a un processo decisionale in condizione di ignoranza. Se dovessimo seguire il principio di precauzione saremmo portati a scegliere il modello che, in caso di errori, ci permetterebbe di correggerli senza gravi danni e costi, in condizioni di massima sicurezza: grandi progetti e grande scala sono sinonimi di grandi incertezza rischio ed errore. Viceversa, piccoli progetti e piccola scala comportano lesposizione a piccoli incertezza, rischio ed errore. Saremo così saggi e razionali da seguire la filosofia del «piccolo è bello», sostenuta da Ernst Fritz Schumacher oppure la nostra hybris sarà tale da farci abbagliare dalle sirene dei megaprogetti e dei megarischi?


Altri riferimenti

Jean Pierre Dupuy, Piccola metafisica degli tsunami, Donzelli, Roma 2006

Sheila Jasanoff, Fabbriche della natura, Il Saggiatore, Milano 2008

venerdì 11 aprile 2008 1.27 info@csfederalismo.it info@csfederalismo.it

From: bifo <istubalz <at> libero.it>
Subject:
l'invisibilità del male
Newsgroups:
gmane.culture.internet.rekombinant
Date:
2008-03-25 09:58:57 GMT (2 weeks, 1 day, 22 hours and 53 minutes ago)


DUPUY Jean-Pierre, Tchernobyl et linvisibilité du mal, http://www.esprit.presse.fr/print/article.php?code=14471
Nassim Nicholas Taleb, Il cigno nero, Il Saggiatore, Milano 2008