Domani o al più presto ne scrivo.
Film interessante e dibattito ancor più interessante.
Ritengo questi punti di riflessione:
1) la questione del canone letterario nell'era digitale
2) la (dis)funzione del critico nell'epoca dei mass-media
Nonostante le eventuali denegazioni, il Critico Trasformatore si riferisce ancora al soggetto cartesiano: pensa ai soggetti come enti unitari dotati di attributi, i pensieri, le idee, che avrebbero proprietà causali.
Ma il potere causale del soggetto è oggi decostruito, non dico dalla filosofia postmoderna - sarebbe una banale e irritante ovvietà - ma dalla neuroscienza, dalla scienza cognitiva e dalla cosiddetta neurofilosofia.
Il gap da colmare per la cultura umanista, anche nell'intento di recuperare efficacia critica e sociale, è proprio quello relativo all' "immagine del pensiero" (Deleuze), o semplicemente alla teoria della mente.
Giudico IMPOSSIBILE per la cultura umanista recuperare terreno sul campo del reale sociale, a meno che gli umanisti, critici, autori, lettori, non si dotino di più moderni strumenti tratti dalla neurofilosofia cognitiva della mente (etichetta inesistente ma sintetica).
3) l'invidia/risentimento = peronismo della Rete (avevo già uno spunto a partire da un articolo di Ricuperati e da uno di Belpoliti)
Che la Rete sia l’arena di un nuovo peronismo digitale è giudizio allarmistico di molti, tra i quali si colloca anche Cortellessa. Sono certo che questi critici abbiano le loro buone ragioni per gridare al peronista: in Rete gli scontri e le fiammate sono molto frequenti (complice, probabilmente l’interazione in absentia che consegna ogni comunicatore ai propri fantasmi e alle proprie idealizzazioni dell’altro interlocutore, per non dire: dell’Altro).
Tuttavia a monte della Rete ci sono sempre i medesimi individui che pochi anni or sono venivano descritti dai sociologi come “atomizzati”, e che oggi qualcuno cerca ancora di compatire come poveri individui postmoderni troppo “liquidi” per essere autentici.
La Rete è un luogo/mezzo di comunicazione, e poiché non è affatto vero che il mezzo sia il messaggio, almeno non finché si riconduca lo slogan mcluhaniano a un senso concretamente comprensibile, ecco che gli individui comunicanti in Rete si scambiano innumerevoli messaggi altrimenti impossibili.
Cortellessa riconduce il modello della comunicazione in Rete a quello vetusto della televisione, argomentando (come anche Gilda Policastro, sulla cui opinione non mi soffermo ora) che in Rete la fruizione letteraria e culturale (e non soltanto, suppongo , a seguire l’argomento, che non condivido) diventerà necessariamente “egoscopica” (G. Ricuperati), frammentaria, distratta e superficiale.
Mi pare che Cortellessa, e chi come lui non vuole sforzarsi di riconoscere la specificità ontologica e comunicativa della Rete, utilizzi per comprenderla e criticarla un modello che ad essa non è semplicemente applicabile, quello della comunicazione broadcasting, la passività top-down della fruizione televisiva.
Se l’esempio personale conta (e conta proprio perché, come credo, la Rete delinea, fortifica e responsabilizza gli individui anziché infantilizzarli come la televisione), nel mio caso, ossia dal 2001 pre-Genova G8 la Rete è stata un luogo appassionante e arricchente nel quale ho potuto trasmettere messaggi, e riceverne, a persone altrimenti irraggiungibili dalla mia limitatissima sfera privata e pubblica di intellettuale piccolo borghese di provincia.
La gerarchia intellettuale di cui Cortellessa lamenta la mancata considerazione da parte del popolo della Rete, è anche un mio valore: tuttavia non ritengo che tale gerarchia debba essere difesa istituzionalmente. Essa si esplica e stabilisce attraverso una selezione interattiva, sorta di evoluzione darwiniana delle credenze e opinioni.
Sfido chiunque ad argomentare che le credenze di massa dell'epoca digitale siano più false di quelle dell'epoca precedente!
L’atteggiamento che Gianluigi Ricuperati raccomandava ieri allo scrittore – scrivere senza curarsi dell’effetto che il libro sortirà sui lettori – è anche il modello di autoformazione intellettuale che mi pare di veder funzionare in Rete. Mi sembra che gli internauti applichino tale modello, poiché sono in principio sempre pronti (ovvia eccezion fatta per i casi patologici) ad ammettere di avere torto e a ricredersi su opinioni espresse avventatamente. In Rete ci si confronta, si sbaglia, ci si può correggere, talvolta si diventa migliori. Non sempre, è ovvio, ma nemmeno nella cosiddetta “vita reale” le persone sono particolarmente propense a correggere i propri errori come già Descartes aveva ben notato (“le bon sens est la chose du monde la mieux partagée: car chacun pense en être si bien pourvu”).
4) la questione dell'economia della cultura: si può essere anti-capitalisti in maniera frammentaria (ossia soltanto riguardo alla letteratura)?
E’ tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell’oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all’intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)
lunedì 27 settembre 2010
venerdì 24 settembre 2010
Cecilia Bartoli, Domina
Questa sera ho assistito al concerto strepitoso della Bartoli, Sacrificium, col repertorio di musiche della Scuola dei Castrati.
Superato l'iniziale inorridimento al pensiero della castrazione (vedi i contorcimenti di Woody Allen all'udire la parola, in Bananas), mi sono trovato a udire musiche assolutamente soavi.
La Bartoli è notoriamente una virtuosa, come io non ne avevo mai sentite: se avete in mente il concetto di "virtuosismo", ecco, lei lo esemplifica PERFETTAMENTE.
In certe arie la sua voce spaziava per scrosci sonori di cui potevi quasi vedere l'onda il periodo e la frequenza, sentivi la sua voce roteare nello spazio e colmare la distanza tra la sua bocca e te, per accarezzarti suadente, calda e brillante, o per schiaffeggiarti scherzosamente a suon di gorgheggi.
In certi brani ti pareva di vedere il paesaggio arcadico descritto nel testo del Metastasio o immaginavi l'intera storia di certi personaggi mitologici di cui udivi appena quattro versi. L'inevitabile ellissi testuale diveniva oltremodo allusiva.
Il pubblico in visibilio non capiva più nulla, scattavano applausi tra un tempo e l'altro dei concerti strumentali, splendidamente eseguiti dal Giardino Armonico, intermezzi tra le arie.
Scattavano persino applausi quando la Bartoli e l'orchestra tacevano improvvisamente, con un effetto comico implicito ma forte (il pubblico rideva come un bambino collettivo).
In effetti non ho mai visto un pubblico classico più rilassato di questo.
E nemmeno ho mai visto un pubblico più entusiasta: si sono spellati le mani in applausi, credo di aver visto schizzare il sangue per lo sfregamento delle palme abrase delle mani.
La Bartoli ha cambiato quattro costumi maschili, con ampi mantelli colorati.
Solo alla fine aveva una specie di strascico di raso rosso, che nel secondo bis - strappato con il solito dolore di mani - si completava con due pennacchi rossi piumati: sul finire dell'ultimo pezzo se li è strappati di dosso e ne ha scherzosamente lanciato uno sul leggìo del direttore, avviandosi fuori dal palco.
Di tutto questo, dico grazie ad Alfonso Maria Petrosino, che mi ha offerto questa esperienza notevole. Tu, Alfonso, ne avresti certo ricavato poesia migliore di questa stanca mia entusiasta cronachetta...
Qui un exemplum
Superato l'iniziale inorridimento al pensiero della castrazione (vedi i contorcimenti di Woody Allen all'udire la parola, in Bananas), mi sono trovato a udire musiche assolutamente soavi.
La Bartoli è notoriamente una virtuosa, come io non ne avevo mai sentite: se avete in mente il concetto di "virtuosismo", ecco, lei lo esemplifica PERFETTAMENTE.
In certe arie la sua voce spaziava per scrosci sonori di cui potevi quasi vedere l'onda il periodo e la frequenza, sentivi la sua voce roteare nello spazio e colmare la distanza tra la sua bocca e te, per accarezzarti suadente, calda e brillante, o per schiaffeggiarti scherzosamente a suon di gorgheggi.
In certi brani ti pareva di vedere il paesaggio arcadico descritto nel testo del Metastasio o immaginavi l'intera storia di certi personaggi mitologici di cui udivi appena quattro versi. L'inevitabile ellissi testuale diveniva oltremodo allusiva.
Il pubblico in visibilio non capiva più nulla, scattavano applausi tra un tempo e l'altro dei concerti strumentali, splendidamente eseguiti dal Giardino Armonico, intermezzi tra le arie.
Scattavano persino applausi quando la Bartoli e l'orchestra tacevano improvvisamente, con un effetto comico implicito ma forte (il pubblico rideva come un bambino collettivo).
In effetti non ho mai visto un pubblico classico più rilassato di questo.
E nemmeno ho mai visto un pubblico più entusiasta: si sono spellati le mani in applausi, credo di aver visto schizzare il sangue per lo sfregamento delle palme abrase delle mani.
La Bartoli ha cambiato quattro costumi maschili, con ampi mantelli colorati.
Solo alla fine aveva una specie di strascico di raso rosso, che nel secondo bis - strappato con il solito dolore di mani - si completava con due pennacchi rossi piumati: sul finire dell'ultimo pezzo se li è strappati di dosso e ne ha scherzosamente lanciato uno sul leggìo del direttore, avviandosi fuori dal palco.
Di tutto questo, dico grazie ad Alfonso Maria Petrosino, che mi ha offerto questa esperienza notevole. Tu, Alfonso, ne avresti certo ricavato poesia migliore di questa stanca mia entusiasta cronachetta...
Qui un exemplum
Giuseppe Genna: la moda è il dedalo dell’ego (Vogue9)
Pubblicato su Vogue.it
Lo scrittore Giuseppe Genna, acclamato autore di Assalto a un tempo devastato e vile, Dies Irae, Italia de Profundis e Hitler, sta scrivendo il suo nuovo romanzo Fine Impero, di prossima uscita per Einaudi Stile Libero. Più di un suo capitolo avrà a che fare con la moda...
I tuoi romanzi hanno spesso un piglio coraggiosamente filosofico: nel tuo nuovo libro rifletterai concettualmente sulla moda o invece ne trarrai spunti narrativi?
Per me il pensiero è movimento di fantasmi e quindi è narrazione –un racconto lineare sollo all’apparenza. Se lo si ingrandisce, tutto è sconnesso. La passerella stessa pare lineare e invece, nella luce, tutto è allucinato.
Potresti darci un’idea precisa di come intendi scrivere di moda nel tuo romanzo?
In maniera letterale. Sono stato su una passerella prima dell’inizio di una sfilata, ho osservato l’esercito di cloni androgini sotto riflettori accecanti, ho partecipato a feste di stilisti. Il protagonista del mio romanzo farà lo stesso, in modo più tragico.
Intorno al mondo della moda sono stati scritti molti saggi, ma, mi pare, poca narrativa (il cinema ha maggiormente sfruttato l’argomento): secondo te nella moda c’è una componente spettacolare che non è facilmente narrabile?
E’ lo spettacolo quintessenziato, un elemento indiscernibile da quella “vita dei nervi” che il filosofo Georg Simmel, autore di un fondamentale saggio sulla moda, pone a fondamento elettrico della metropoli, cioè della vita spettacolare. Fare una narrazione dei nervi è difficile.
Credi che sia possibile determinare l’essenza della moda o non sarebbe più corretto parlare di “mode” al plurale?
Io la prendo da questa prospettiva, tra le infinite possibili – la moda è il dedalo dell’ego, il suo mostrarsi, il suo abolirsi mentre si esibisce, il suo vestirsi, il suo essere legione aberrante ma che si considera attraente, una foggia letale, il riflettore del mondo demonico.
Giuseppe Genna alle sfilate di Milano: http://www.giugenna.com/2010/02/26/un-miserabile-alle-sfilate-di-milano/
Lo scrittore Giuseppe Genna, acclamato autore di Assalto a un tempo devastato e vile, Dies Irae, Italia de Profundis e Hitler, sta scrivendo il suo nuovo romanzo Fine Impero, di prossima uscita per Einaudi Stile Libero. Più di un suo capitolo avrà a che fare con la moda...
I tuoi romanzi hanno spesso un piglio coraggiosamente filosofico: nel tuo nuovo libro rifletterai concettualmente sulla moda o invece ne trarrai spunti narrativi?
Per me il pensiero è movimento di fantasmi e quindi è narrazione –un racconto lineare sollo all’apparenza. Se lo si ingrandisce, tutto è sconnesso. La passerella stessa pare lineare e invece, nella luce, tutto è allucinato.
Potresti darci un’idea precisa di come intendi scrivere di moda nel tuo romanzo?
In maniera letterale. Sono stato su una passerella prima dell’inizio di una sfilata, ho osservato l’esercito di cloni androgini sotto riflettori accecanti, ho partecipato a feste di stilisti. Il protagonista del mio romanzo farà lo stesso, in modo più tragico.
Intorno al mondo della moda sono stati scritti molti saggi, ma, mi pare, poca narrativa (il cinema ha maggiormente sfruttato l’argomento): secondo te nella moda c’è una componente spettacolare che non è facilmente narrabile?
E’ lo spettacolo quintessenziato, un elemento indiscernibile da quella “vita dei nervi” che il filosofo Georg Simmel, autore di un fondamentale saggio sulla moda, pone a fondamento elettrico della metropoli, cioè della vita spettacolare. Fare una narrazione dei nervi è difficile.
Credi che sia possibile determinare l’essenza della moda o non sarebbe più corretto parlare di “mode” al plurale?
Io la prendo da questa prospettiva, tra le infinite possibili – la moda è il dedalo dell’ego, il suo mostrarsi, il suo abolirsi mentre si esibisce, il suo vestirsi, il suo essere legione aberrante ma che si considera attraente, una foggia letale, il riflettore del mondo demonico.
Giuseppe Genna alle sfilate di Milano: http://www.giugenna.com/2010/02/26/un-miserabile-alle-sfilate-di-milano/
giovedì 23 settembre 2010
Qual è l'elemento eccezionale nella lista?
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Alfonso Maria Petrosino (1) Badiou (3) blog (2) capitalismo (2) critica letteraria (2) culturalismo (2) decadenza (2) Deleuze (9) Derrida (2) Facebook (4) filosofia francese (2) filosofia politica (2) Gilda Policastro (5) Guattari (2) letteratura (3) matematica (2) moda (6) Parigi (3) pensiero (2) poesia (2) postmodernismo (3) psicoterapia (2) sinistra (2) social network (2) società dello spettacolo (2) umanità (2) Wittgenstein (2)
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Hubert L. Dreyfus, Kierkegaard on the Internet: Anonymity vrs. Commitment in the Present Age
http://socrates.berkeley.edu/~hdreyfus/html/paper_kierkegaard.html
Abstract
To understand why Kierkegaard would have hated the Internet we need to understand what he meant by the Public and why he was so opposed to the Press. The focus of his concern was what Habermas calls the public sphere which, in the middle of the 18th century, thanks to the recent democratization and expansion of the press, had become a serious problem for many intellectuals. But while thinkers like Mill and Tocqueville thought the problem was "the tyranny of the masses", Kierkegaard thought that the Public Sphere, as implemented in the Press, promoted risk-free anonymity and idle curiosity that undermined responsibility and commitment. This, in turn, leveled all qualitative distinctions and led to nihilism, he held.
Kierkegaard might well have denounced the Internet for the same reasons. I will spell out Kierkegaard’s likely objections by considering how the Net promotes Kierkegaard’s two nihilistic spheres of existence, the aesthetic and the ethical, while repelling the religious sphere. In the aesthetic sphere, the aesthete avoids commitments and lives in the categories of the interesting and the boring and wants to see as many interesting sights (sites) as possible. People in the ethical sphere could use the Internet to make and keep track of commitments but would be brought to the despair of possibility by the ease of making and unmaking commitments on the Net. Only in the religious sphere is nihilism overcome by making a risky, unconditional commitment. The Internet, however, which offers a risk-free simulated world, would tend to undermine rather than support any such ultimate concern.
I. How the Press and the Public Undermine Responsibility and Commitment
In his essay, The Present Age, Kierkegaard, who was always concerned with nihilism, warns that his age is characterized by a disinterested reflection and curiosity that levels all differences of status and value. He blames this leveling on what he calls the Public. He says that "In order that everything should be reduced to the same level, it is first of all necessary to produce a phantom, its spirit a monstrous abstraction...and that phantom is the Public."(59) But the real villain behind the Public Kierkegaard claims is the Press. He feared that "Europe will come to a standstill at the Press and remain at a standstill as a reminder that the human race has invented something which will eventually overpowered it." (Journals, Vol. 2, 483.) and he adds "Even if my life had no other significance, I am satisfied with having discovered the absolutely demoralizing existence of the daily press." (JP 2163)
But why blame leveling on the Public rather than on democracy, technology, consumerism, or loss of respect for the tradition, to name a few candidates? And why this monomaniac demonizing of the Press? Commentators have noted the problem. For example, Hakon Strangerup remarks that "the Danish daily press was on an extremely modest scale in [Kierkegaard’s] lifetime." and asks: "How, then, is SK’s preoccupation with these trifling papers to be explained?" He answers that Kierkegaard’s strident opposition to the Press had political, psychological and sociological motivations.
First, the Press was the mouthpiece for liberalism and this "filled the deeply conservative SK with horror." But this is not convincing for, in The Present Age at least, Kierkegaard does not attack the Press for being liberal or for any political stand. I will argue in a minute that Kierkegaard would have hated the newspapers and TV talk shows on the right just as much as those on the left. Then there was, of course, the Corsair affair. Strangerup tell us that "From then on the tone of SK’s polemic with the Press changes from irony to hatred of the Press as such." But what is this "as such"? Does SK hold that the essential function of the Press is to attack outstanding individuals like himself? The Corsair affair certainly hurt Kierkegaard but I think the evidence is clear that he thinks this is only one possible unfortunate side effect of what is essentially dangerous about the Press as such. Indeed, Kierkegaard quite sensibly holds that such degrading gossip is only a "minor affair". Finally, Strangerup tells us that Kierkegaard had "contempt for [journalist’s] low social status" but I think it will soon be clear that he would have hated the snobbish and self righteous William Buckley as much as the lower class felon, Gordon Liddy. None of Strangeup’s three reasons, nor all of them combined, explains why Kierkegaard says in his journals that "Actually it is the Press, more specifically the daily newspaper...which make[s] Christianity impossible." Clearly, besides his political, psychological and sociological reservations concerning the daily press, Kierkegaard saw the Press as a unique Cultural/Religious threat.
It is no accident that, writing in 1846, Kierkegaard choose to attack the Public and the Press. To understand why he did so, we have to begin a century earlier. In The Structural Transformation of the Public Sphere Jürgen Habermas locates the beginning of what he calls the Public Sphere in the middle of the 18th century. He explains that at that time the Press and coffee houses became the locus of a new form of political discussion. This new sphere of discourse is radically different from the ancient polis or republic; the modern public sphere understands itself as being outside political power. This extra-political status is not just defined negatively, as a lack of political power, but seen positively. Just because public opinion is not an exercise of political power, it is protected from any partisan spirit. Enlightenment intellectuals saw the Public Sphere as a space in which the rational, disinterested reflection that should guide government and human life could be institutionalized and refined. Such disengaged discussion came to be seen as an essential feature of a free society. As the Press extended the Public debate to a wider and wider readership of ordinary citizens, Burke exalted that, "in a free country, every man thinks he has a concern in all public matters."
Over the next century, thanks to the expansion of the daily press, the Public Sphere became increasingly democratized until this democratization had a surprising result which, according to Habermas, "altered [the] social preconditions of ‘public opinion’ around the middle of the [19th] century." "[As] the Public was expanded ... by the proliferation of the Press...the reign of public opinion appeared as the reign of the many and mediocre." Many people including J. S. Mill and Alexis de Tocqueville feared "the tyranny of public opinion" and Mill felt called upon to protect "nonconformists from the grip of the Public itself." According to Habermas, Tocqueville pointed out that "education and powerful citizens were supposed to form an elite public whose critical debate determined public opinion."
But leveling to the lowest common denominator was not primarily what Kierkegaard feared. The Present Age is not primarily concerned with "the merging of the individual with the group", nor with the conformism of the masses which Kierkegaard called "the crowd", nor with what Alastair Hannay calls "the eliminating of grades of authority within and between groups." Although Kierkegaard is concerned with all these phenomena. According to Kierkegaard, these phenomena are not dangerous in themselves since they can and do occur in a positive, passionate revolutionary age such as the age of the French revolution. If an elitist disgust with the crowd were the basis of Kierkegaard’s attack on the Public and the Press, his polemic would ironically itself be a case of conforming to the intellectual worries of his time.
In fact, however, The Present Age shows just how original Kierkegaard was. He saw that "the public is a concept that could not have occurred in antiquity, because the people en masse... took part in any situation which arose, and were responsible for the actions of the individual." (60). And, while Tocqueville and Mill claimed that the masses needed better philosophical leadership and education and, while Habermas agrees with them that what happen around 1850 with the democratization of the Public Sphere by the daily press is an unfortunate decline into conformism from which the Public Sphere must be saved, Kierkegaard sees the Public Sphere as a new and dangerous cultural phenomenon in which the leveling produced by the Press brings out something that was deeply wrong from the start with Enlightenment idea of detached reflection. Thus, while Habermas is concerned to recapture the moral and political virtues of the Public Sphere, Kierkegaard brilliantly sees that there is no way to salvage the Public Sphere since, unlike concrete groups and crowds, it was from the start the source of nihilistic leveling.
This leveling was produced in several ways. First, the new massive distribution of desituated information was making every sort of information immediately available to anyone, thereby producing a desituated, detached spectator. The new power of the Press to disseminate information to everyone in a nation led its readers to transcend their local, personal involvement and overcome their reticence about what did not directly concern them. As Burke had noted with joy, the Press encouraged everyone to develop an opinion about everything. This was seen by Habermas as a triumph of democratization but Kierkegaard saw that the Public Sphere was destined to become a realm of idle talk in which spectators merely pass the word along.
This demoralization reaches its lowest form in the yellow journalism of scandal sheets like The Corsair. Since the members of the Public being outside political power take no stand, the Public Sphere, though the Press, removes all seriousness from human action so that, at the limit, the Press becomes a voyeuristic form of irresponsible amusement that enjoys the undermining of "outstanding individuals".
If we imagine the Press growing weaker and weaker because no events or ideas catch hold of the age, the more easily will the process of leveling become a harmful pleasure. More and more individuals, owing to their bloodless indolence, will aspire to be nothing at all---in order to become the Public: that abstract whole formed in the must ludicrous way, by all participants becoming a third-party (an onlooker)....This gallery is on the look-out for distraction and soon abandons itself to the idea that everything that any one does is done in other to give it (the Public) something to gossip about." (64, 65)
But this demoralizing effect was not Kierkegaard’s main concern. For Kierkegaard the deeper danger is just what Habermas applauds about the public sphere produced by the coffee houses and cosmopolitan press, viz., as Kierkegaard puts it, "a public ...destroys everything that is relative, concrete and particular in life." (62) The public sphere thus promotes ubiquitous commentators who deliberately detach themselves from the local practices out of which specific issues grow and in terms of which these issues must be resolved though some sort of committed action. What seems a virtue to detached Enlightenment reason, therefore, looks like a disastrous drawback to Kierkegaard. The public sphere is a world in which everyone has an opinion on and comments on all public matters without needing any first-hand experience and without having or wanting any responsibility. Even the most conscientious commentators don’t have to have firsthand experience or take a concrete stand. Rather, they justify their views by citing principles, and, as Kierkegaard notes with disapproval, their "ability, virtuosity and good sense consists in trying to reach a judgment and a decision without ever going so far as action." (33) Moreover, since the conclusions such abstract reasoning reaches are not grounded in the local practices, its solutions are equally abstract. Such proposals would presumably not enlist the commitment of the people involved and therefore not work even if acted upon. Kierkegaard concludes that " what...the speakers at a meeting understand perfectly presented to them as a thought or an observation, they cannot understand at all in the form of action." (39)
More basically still, that the Public Sphere lies outside of political power meant, for Kierkegaard, that one could hold an opinion on anything without having to act on it. This opens up the possibility of endless reflection. If there is no possibility of decision and action, one can look at all things from all sides and always find some new perspective from which to put everything into question again. Kierkegaard saw, when everything is up for endless critical commentary, action finally becomes impossible. "[A]t any moment reflection is capable of explaining everything quite differently and allowing one some way of escape...." (42) He is therefore clear that "reflection by transforming the capacity for action into a means of escape from action, is both corrupt and dangerous...."(68) Therefore the motto Kierkegaard suggested for the Press was: "Here men are demoralized in the shortest possible time on the largest possible scale, at the cheapest possible price." (Journals, Vol. 2, 489) This demoralization clearly transcends liberal politics, yellow journalism, and the uncouth manners of reporters.
The real problem is that the Press speaks for the Public but no one stands behind the views the Public holds. Thus Kierkegaard wrote in his Journal: "...here ... are the two most dreadful calamities which really are the principle powers of impersonality--the Press and anonymity" (Journals and Papers Vol. 2, 480). As Kierkegaard puts it even more clearly in The Present Age: "A public is neither a nation, nor a generation, nor a community, nor a society, nor these particular men, for all these are only what they are through the concrete; no single person who belong to the Public makes a real commitment."(63)(My italics.) As we shall see, this is the sense in which the Public and the Press make Christianity impossible.
In The Present Age Kierkegaard succinctly sums up his view of the relation of the Press, the Public Sphere, and the leveling going on in his time. The desituated and anonymous press and the lack of passion or commitment in our reflective age combine to produce the Public, the agent of the nihilistic leveling characteristic of his time and ours.
The Press is an abstraction (since a newspaper is not a concrete part of a nation and only in an abstract sense an individual) which in conjunction with the passionless and reflective character of the age produces that abstract phantom: a public which in its turn is really the leveling power.(64)
Kierkegaard would surely have seen in the Internet, with its web sites full of anonymous information from all over the world and its interest groups which anyone in the world can join and where one can discuss any topic endlessly without consequences, the hi-tech synthesis of the worst features of the newspaper and the coffee house. On their web page anyone can put any alleged information into circulation. Kierkegaard could have been speaking of the Internet when he said of the Press, "It is frightful that someone who is no one ... can set any error into circulation with no thought of responsibility and with the aid of this dreadful disproportioned means of communication" (Journals and Papers, Vol. 2, p 481.) And in interest groups anyone can have an opinion on anything. In both cases, all are only too eager to respond to the equally deracinated opinions of other anonymous amateurs who post their views from nowhere. Such commentators do not take a stand on the issues they speak about. Indeed, the very ubiquity of the Net generally makes any such local stand seem irrelevant.
What is striking about such interest groups is that no experience or skill is required to enter the conversation. Indeed, a serious danger of the Public Sphere, as illustrated on the Internet, is that it undermines expertise. Learning a skill requires interpreting the situation as being of a sort that requires a certain action, taking that action, and learning from the results. As Kierkegaard understood, there is no way to gain wisdom but by making risky commitments and thereby experiencing both failure and success. Studies of skill acquisition have shown that, unless the outcome matters and unless the person developing the skill is willing to accept the pain that comes from failure and the elation that comes with success, the learner will be stuck at the level of competence and never achieve mastery. Since expertise can only be acquired through involved engagement with actual situations, what is lost in disengaged discussion is precisely the conditions for acquiring practical wisdom. Thus the heroes of the Public Sphere who appear on serious radio and TV programs, such as the United States's MacNeil/Lehrer News Hour, have a view on every issue, and can justify their view by appeal abstract principles, but they do not have to act on the principles they defend and therefore lack the passionate perspective that alone can lead to risk of serious error and also to the gradual acquisition of wisdom.
Kierkegaard even saw that the ultimate activity the Internet would encourage would be speculation on how big it is, how much bigger it will get, and what, if anything, all this means for our culture. This sort of discussion is, of course, in danger of becoming part of the very cloud of anonymous speculation Kierkegaard abhorred. Ever sensitive to his own position as a speaker, Kierkegaard concluded his analysis of the dangers of the present age and his dark predictions of what was ahead for Europe with the ironic remark that: "In our times, when so little is done, an extraordinary number of prophecies, apocalypses, glances at and studies of the future appear, and there is nothing to do but to join in and be one with the rest" (85).
The only alternative Kierkegaard saw to this paralyzing reflection was to plunge into some kind of activity -- any activity -- as long as one threw oneself into it with passionate involvement. In The Present Age he exhorts his contemporaries to make such a leap:
There is no more action or decision in our day than there is perilous delight in swimming in shallow waters. But just as a grown-up, struggling delightedly in the waves, calls to those younger than himself: ‘Come on, jump in quickly’–the decision in existence ... calls out.... Come on, leap cheerfully, even if it means a lighthearted leap, so long as it is decisive. If you are capable of being a man, then danger and the harsh judgment of existence on your thoughtlessness will help you become one.(36-37).
II. The Aesthetic Sphere: The Enjoyment of Endless Possibilities
Such a light hearted leap into the deeper water is typified by the net-surfer for whom information gathering has become a way of life. Such a surfer is curious about everything and ready to spend every free moment visiting the latest hot spots on the Web. He or she enjoys the sheer range of possibilities. Something interesting is only a click away. Commitment to a life of curiosity where information is a boundless source of enjoyment puts one in the reflective version of what Kierkegaard calls the aesthetic sphere of existence -- his anticipation of postmodernity. For such a person just visiting as many sites as possible and keeping up on the cool ones is an end in itself. The only meaningful distinction is between those sites that are interesting and those that are boring. Life consists in fighting off boredom by being a spectator at everything interesting in the universe and in communicating with everyone else so inclined. Such a life produces a self that has no defining content or continuity but is open to all possibilities and to constantly taking on new roles.
But we have still to explain what makes this use of the Web attractive. Why is there a thrill in being able to find out about everything no matter how trivial? What motivates a passionate commitment to curiosity? Kiekegaard thought that in the last analysis people were addicted to the Press, and we can now add the Web, because the anonymous spectator takes no risks. The person in the aesthetic sphere keeps open all possibilities and has no fixed identity that could be threatened by disappointment, humiliation or loss.
Surfing the Web is ideally suited to such a life. On the Internet commitments are at best virtual commitments. Sherry Turkle has described how the Net is changing the background practices that determine what kinds of selves we can be. In Life on the Screen, she details "the ability of the Internet to change popular understandings of identity." On the Internet, "we are encouraged to think of ourselves as fluid, emergent, decentralized, multiplicious, flexible, and ever in process," she tells us. Thus "the Internet has become a significant social laboratory for experimenting with the constructions and reconstructions of self that characterize postmodern life." Chat rooms lend themselves to the possibility of playing at being many selves, none of whom is recognized as who one truly is, and this possibility is not just theoretical but actually introduces new social practices. Turkle tells us that:
The rethinking of human ... identity is not taking place just among philosophers but "on the ground," through a philosophy in everyday life that is in some measure both proved and carried by the computer presence.
She realizes that the Net encourages what she calls "experimentation" because what one does on the Net has no consequences. She therefore thinks that the Net not only gives people access to all sorts of information; it frees people to develop new and exciting selves.
The person in the aesthetic sphere of existence would surely agree, but according to Kierkegaard: "As a result of knowing and being everything possible, one is in contradiction with oneself" (68). When he is speaking from the point of view of the next higher sphere of existence, Kierkegaard tells us that the self requires not "variableness and brilliancy" but "firmness, balance, and steadiness" (Either/Or Vol. II (16,17).
We would therefore expect the aesthetic sphere to reveal that it was ultimately unlivable, and, indeed, Kierkegaard held that if one threw oneself into the aesthetic sphere with total commitment it was bound to break down under the sheer glut of information and possibilities. Without some way of telling the relevant from the irrelevant and the significance from the insignificant everything becomes equally interesting and equally boring. Writing from the perspective of someone experiencing the melancholy that signals the breakdown of the aesthetic sphere he laments: "My reflection on life altogether lacks meaning. I take it some evil spirit has put a pair of spectacles on my nose, one glass of which magnifies to an enormous degree, while the other reduces to the same degree" (Either/Or, 46).
This inability to distinguish the trivial from the important eventually stops being thrilling and leads to the very boredom the aesthete and net surfer dedicate their lives to avoiding. Thus, Kierkegaard concludes: "every aesthetic view of life is despair, and everyone who lives aesthetically is in despair whether he knows it or not. But when one knows it a higher form of existence is an imperative requirement" (Either/Or, Vol. II, 197).
III. The Ethical Sphere: Making Concrete Commitments
That higher form of existence Kierkegaard calls the ethical sphere. In it one has a stable identity and one is committed to involved action. Information is not denigrated but is sought and used for serious purposes. As long as information gathering is not an end in itself, whatever reliable information there is on the Web can be a valuable resource. It can serve serious commitments. Such commitments require that people have life plans and take up serious tasks. They then have goals that determine what needs to be done and what information is relevant for doing it. Can the Net support this life of committed action?
If the Internet could reveal and support the making and maintaining of commitments for action, it would support, not undermine, the ethical commitments Kierkegaard maintains human beings need. Happily, we are now entering a second stage of information technology where it is becoming clear how the ethical sphere can be implemented by using computers to keep track of commitments in order to further the coordination of action. When people communicate, they do not simply pass information back and forth; they get things done. In their activity they depend on speech acts such as requesting and promising to make commitments. Moreover, not only do such speech acts as requests and promises enable them to operate successfully within a shared world; other speech acts such as offers and declarations open up new worlds --domains of discourse and action such as industries, governments, professions and so forth. So far as the Internet develops means of communication that enable people to keep track of their commitments and to see how their speech acts open new domains of action, the Internet supports the ethical sphere.
But Kierkegaard would probably hold that, when the use of the Internet for the coordination of commitments is successfully instantiated in a communications system, the very ease of making commitments would further the inevitable breakdown of the ethical sphere. Each commitment we make has an enormous number of consequences, and we are solicited to take active responsibility for all the consequences that we recognize. So the more sensitive we are to commitments, the more conflicting solicitations we will encounter. And the more we decide a conflict by making one or another commitment, the more our commitments will proliferate into conflicts again. Thus the more developed a system for keeping track of commitments is, the more possible commitments it will keep track of, and its very ability to keep track of all commitments, which should have supported action, will lead instead to paralysis or arbitrary choice.
To avoid arbitrary choice, one might, like Judge William, Kierkegaard’s pseudonymous author of the description of the ethical sphere in Either/Or, turn to one’s talents and one’s job description to limit one’s commitments. Judge William says that his range of possible relevant actions are constrained by his abilities and social roles as judge and husband. But Judge William admits, indeed he is proud of the fact, that as an autonomous agent he is free to give whatever meaning he chooses to his talents and his roles so his freedom is not constrained by his given station and its duties.
But, Kierkegaard argues, if everything is up for choice, including the standards on the basis of which one chooses, there is no reason for choosing one set of standards rather than another. Moreoever, choosing the guidelines for ones life never makes any serious difference, since one can always choose to rescind one’s previous choice. The ethical net-enthusiast will presumably answer that all the learner has to do is to choose a perspective --something that matters-- and care about the outcome. But Kierkegaard would respond that the very ease of making choices on the Internet would ultimately lead to the inevitable breakdown of serious choice and so of the ethical sphere. Commitments that are freely chosen can and should be revised from minute to minute as new information comes along. But where there is no risk and every commitment can be revoked without consequences, choice becomes arbitrary and meaningless.
The ethical person responds to this breakdown by trying to choose which commitments are the most important ones. This choice is based on a more fundamental choice of what is worthy and not worthy, what good and what evil. As Judge William puts it:
The good is for the fact that I will it, and apart from my willing, it has no existence. This is the expression for freedom. ... By this the distinctive notes of good and evil are by no means belittled or disparaged as merely subjective distinctions. On the contrary, the absolute validity of these distinctions is affirmed" (Either/Or, Vol. II, 228).
The ethical thus breaks down because the power to make commitments undermines itself. Any commitment I make does not get a grip on me because I am always free to revoke it. Or else it must be constantly reconfirmed by a new commitment to take the previous one seriously. As Kierkegaard puts it:
If the despairing self is active, ... it is constantly relating to itself only experimentally, no matter what it undertakes, however great, however amazing and with whatever perseverance. It recognizes no power over itself; therefore in the final instance it lacks seriousness.... The self can, at any moment, start quite arbitrarily all over again and, however far an idea is pursued in practice, the entire action is contained within an hypothesis (Sickness unto Death, 100).
Thus the choice of qualitative distinctions that was supposed to support action thwarts it, and one ends up in what Kierkegaard calls the despair of the ethical. Kierkegaard concludes that one can not stop the proliferating of information and commitments by deciding what is worth doing; one can only do that by having an individual identity that opens up an individual world.
IV. The Public Sphere vrs. the Religious Sphere: Making One Unconditional Commitment
The view of commitments as open to being revoked does not seem to hold for those commitments that are most important to us. These special commitments are experienced as grabbing my whole being. When I respond to such a summons with what Kierkegaard calls infinite passion, i.e. when I make an unconditional commitment, this commitment determines what will be the significant issue for me for the rest of my life. In Kierkegaard’s terms, it gives me the eternal in time. Political and religious movements can grab us in this way as can love relationships and, for certain people, such vocations as the law or music.
These unconditional commitments are different from the normal sorts of commitments. They determine what counts as worthwhile by determining who we are. Strong identities based on unconditional commitments, then, stop the proliferation of everyday commitments by determining what ultimately matters and why. They also define the world in which our everyday commitments are made and even what sorts of new domains are worth opening up. They thus block nihilism by establishing qualitative distinctions between what is important and trivial, relevant and irrelevant, serious and playful in one’s life.
But, of course, such a commitment is risky. One’s cause may fail. One’s lover may leave. The curiosity of the present age, the hyperflexibility of the aesthetic sphere, and the unbounded freedom of the ethical sphere are all ways of avoiding risk, but it turns out, Kierkegaard claims, that for that very reason they level all qualitative distinctions and end in the despair of meaninglessness. Only an unconditioned commitment and the strong identity it produces gives an individual a world with that individual’s unique qualitative distinctions.
This leads to the perplexing question: What role can the Internet play in encouraging and supporting unconditional commitments? A first suggestion might be that the movement from stage to stage will be facilitated by the Web just as flight simulators help one learn to fly. One would be solicited to thrown oneself into net surfing and find that boring; then into making and keeping commitments until they proliferated absurdly; and so finally be driven to let oneself be drawn into a risky identity as the only way of out despair. Indeed, at any stage from looking for all sorts of interesting Web sites as one surfs the Net, to striking up a conversation in a chat room, to making commitments that open up new domains, one might just get hooked by one of the ways of life opened up and find oneself drawn into a world-defining lifetime commitment. No doubt this might happen--people do meet in chat rooms and fall in love--but it is highly unlikely.
Kierkegaard would surely argue that, while the Internet, like the Press, allows unconditional commitments, far from encouraging them, it tends to turn all of life into a risk free game. So, although it does not prohibit such commitments, in the end, it inhibits them. Like a simulator the Net manages to capture everything but the risk. Our imaginations can be drawn in, as they are in playing games and watching movies, and no doubt game simulations sharpen our responses for non-game situations, but so far as games work by capturing our imaginations, they will fail to give us serious commitments. Imagined commitments hold us only when our imaginations are captivated by the simulations before our ears and eyes. And that is what computer games and the Net offer us. The temptation is to live in a world of stimulating images and simulated commitment and thus to lead a simulated life. As Kierkegaard says of the present age, "It transforms the real task into an unreal trick and reality into a play." (38) And he adds that "[when] life’s existential tasks have lost the interest of reality; illusion cannot build a sanctuary for the divine growth of inwardness which ripens to decisions." (78)
The test as to whether one had acquired an unconditional commitment would come if one had the incentive and courage to transfer what one had learned to the real world. Then one would confront what Kierkegaard calls "the danger and the harsh judgment of existence". And precisely the attraction of the Net like that of the Press in Kierkegaard’s time, would inhibit that final plunge. Indeed, anyone using the Net who was led to risk his or her real identity in the real world would have to act against the grain of what attracted him or her to the Net in the first place. Thus Kierkegaard is right, the Press and the Internet are the ultimate enemy of the unconditional commitment which is the basis of Christianity, and only this highest religious sphere of existence can save us from the leveling launched by the Enlightenment and perfected in the Press and the Public Sphere.
© Copyright 2004, Regents of the University of California
Abstract
To understand why Kierkegaard would have hated the Internet we need to understand what he meant by the Public and why he was so opposed to the Press. The focus of his concern was what Habermas calls the public sphere which, in the middle of the 18th century, thanks to the recent democratization and expansion of the press, had become a serious problem for many intellectuals. But while thinkers like Mill and Tocqueville thought the problem was "the tyranny of the masses", Kierkegaard thought that the Public Sphere, as implemented in the Press, promoted risk-free anonymity and idle curiosity that undermined responsibility and commitment. This, in turn, leveled all qualitative distinctions and led to nihilism, he held.
Kierkegaard might well have denounced the Internet for the same reasons. I will spell out Kierkegaard’s likely objections by considering how the Net promotes Kierkegaard’s two nihilistic spheres of existence, the aesthetic and the ethical, while repelling the religious sphere. In the aesthetic sphere, the aesthete avoids commitments and lives in the categories of the interesting and the boring and wants to see as many interesting sights (sites) as possible. People in the ethical sphere could use the Internet to make and keep track of commitments but would be brought to the despair of possibility by the ease of making and unmaking commitments on the Net. Only in the religious sphere is nihilism overcome by making a risky, unconditional commitment. The Internet, however, which offers a risk-free simulated world, would tend to undermine rather than support any such ultimate concern.
I. How the Press and the Public Undermine Responsibility and Commitment
In his essay, The Present Age, Kierkegaard, who was always concerned with nihilism, warns that his age is characterized by a disinterested reflection and curiosity that levels all differences of status and value. He blames this leveling on what he calls the Public. He says that "In order that everything should be reduced to the same level, it is first of all necessary to produce a phantom, its spirit a monstrous abstraction...and that phantom is the Public."(59) But the real villain behind the Public Kierkegaard claims is the Press. He feared that "Europe will come to a standstill at the Press and remain at a standstill as a reminder that the human race has invented something which will eventually overpowered it." (Journals, Vol. 2, 483.) and he adds "Even if my life had no other significance, I am satisfied with having discovered the absolutely demoralizing existence of the daily press." (JP 2163)
But why blame leveling on the Public rather than on democracy, technology, consumerism, or loss of respect for the tradition, to name a few candidates? And why this monomaniac demonizing of the Press? Commentators have noted the problem. For example, Hakon Strangerup remarks that "the Danish daily press was on an extremely modest scale in [Kierkegaard’s] lifetime." and asks: "How, then, is SK’s preoccupation with these trifling papers to be explained?" He answers that Kierkegaard’s strident opposition to the Press had political, psychological and sociological motivations.
First, the Press was the mouthpiece for liberalism and this "filled the deeply conservative SK with horror." But this is not convincing for, in The Present Age at least, Kierkegaard does not attack the Press for being liberal or for any political stand. I will argue in a minute that Kierkegaard would have hated the newspapers and TV talk shows on the right just as much as those on the left. Then there was, of course, the Corsair affair. Strangerup tell us that "From then on the tone of SK’s polemic with the Press changes from irony to hatred of the Press as such." But what is this "as such"? Does SK hold that the essential function of the Press is to attack outstanding individuals like himself? The Corsair affair certainly hurt Kierkegaard but I think the evidence is clear that he thinks this is only one possible unfortunate side effect of what is essentially dangerous about the Press as such. Indeed, Kierkegaard quite sensibly holds that such degrading gossip is only a "minor affair". Finally, Strangerup tells us that Kierkegaard had "contempt for [journalist’s] low social status" but I think it will soon be clear that he would have hated the snobbish and self righteous William Buckley as much as the lower class felon, Gordon Liddy. None of Strangeup’s three reasons, nor all of them combined, explains why Kierkegaard says in his journals that "Actually it is the Press, more specifically the daily newspaper...which make[s] Christianity impossible." Clearly, besides his political, psychological and sociological reservations concerning the daily press, Kierkegaard saw the Press as a unique Cultural/Religious threat.
It is no accident that, writing in 1846, Kierkegaard choose to attack the Public and the Press. To understand why he did so, we have to begin a century earlier. In The Structural Transformation of the Public Sphere Jürgen Habermas locates the beginning of what he calls the Public Sphere in the middle of the 18th century. He explains that at that time the Press and coffee houses became the locus of a new form of political discussion. This new sphere of discourse is radically different from the ancient polis or republic; the modern public sphere understands itself as being outside political power. This extra-political status is not just defined negatively, as a lack of political power, but seen positively. Just because public opinion is not an exercise of political power, it is protected from any partisan spirit. Enlightenment intellectuals saw the Public Sphere as a space in which the rational, disinterested reflection that should guide government and human life could be institutionalized and refined. Such disengaged discussion came to be seen as an essential feature of a free society. As the Press extended the Public debate to a wider and wider readership of ordinary citizens, Burke exalted that, "in a free country, every man thinks he has a concern in all public matters."
Over the next century, thanks to the expansion of the daily press, the Public Sphere became increasingly democratized until this democratization had a surprising result which, according to Habermas, "altered [the] social preconditions of ‘public opinion’ around the middle of the [19th] century." "[As] the Public was expanded ... by the proliferation of the Press...the reign of public opinion appeared as the reign of the many and mediocre." Many people including J. S. Mill and Alexis de Tocqueville feared "the tyranny of public opinion" and Mill felt called upon to protect "nonconformists from the grip of the Public itself." According to Habermas, Tocqueville pointed out that "education and powerful citizens were supposed to form an elite public whose critical debate determined public opinion."
But leveling to the lowest common denominator was not primarily what Kierkegaard feared. The Present Age is not primarily concerned with "the merging of the individual with the group", nor with the conformism of the masses which Kierkegaard called "the crowd", nor with what Alastair Hannay calls "the eliminating of grades of authority within and between groups." Although Kierkegaard is concerned with all these phenomena. According to Kierkegaard, these phenomena are not dangerous in themselves since they can and do occur in a positive, passionate revolutionary age such as the age of the French revolution. If an elitist disgust with the crowd were the basis of Kierkegaard’s attack on the Public and the Press, his polemic would ironically itself be a case of conforming to the intellectual worries of his time.
In fact, however, The Present Age shows just how original Kierkegaard was. He saw that "the public is a concept that could not have occurred in antiquity, because the people en masse... took part in any situation which arose, and were responsible for the actions of the individual." (60). And, while Tocqueville and Mill claimed that the masses needed better philosophical leadership and education and, while Habermas agrees with them that what happen around 1850 with the democratization of the Public Sphere by the daily press is an unfortunate decline into conformism from which the Public Sphere must be saved, Kierkegaard sees the Public Sphere as a new and dangerous cultural phenomenon in which the leveling produced by the Press brings out something that was deeply wrong from the start with Enlightenment idea of detached reflection. Thus, while Habermas is concerned to recapture the moral and political virtues of the Public Sphere, Kierkegaard brilliantly sees that there is no way to salvage the Public Sphere since, unlike concrete groups and crowds, it was from the start the source of nihilistic leveling.
This leveling was produced in several ways. First, the new massive distribution of desituated information was making every sort of information immediately available to anyone, thereby producing a desituated, detached spectator. The new power of the Press to disseminate information to everyone in a nation led its readers to transcend their local, personal involvement and overcome their reticence about what did not directly concern them. As Burke had noted with joy, the Press encouraged everyone to develop an opinion about everything. This was seen by Habermas as a triumph of democratization but Kierkegaard saw that the Public Sphere was destined to become a realm of idle talk in which spectators merely pass the word along.
This demoralization reaches its lowest form in the yellow journalism of scandal sheets like The Corsair. Since the members of the Public being outside political power take no stand, the Public Sphere, though the Press, removes all seriousness from human action so that, at the limit, the Press becomes a voyeuristic form of irresponsible amusement that enjoys the undermining of "outstanding individuals".
If we imagine the Press growing weaker and weaker because no events or ideas catch hold of the age, the more easily will the process of leveling become a harmful pleasure. More and more individuals, owing to their bloodless indolence, will aspire to be nothing at all---in order to become the Public: that abstract whole formed in the must ludicrous way, by all participants becoming a third-party (an onlooker)....This gallery is on the look-out for distraction and soon abandons itself to the idea that everything that any one does is done in other to give it (the Public) something to gossip about." (64, 65)
But this demoralizing effect was not Kierkegaard’s main concern. For Kierkegaard the deeper danger is just what Habermas applauds about the public sphere produced by the coffee houses and cosmopolitan press, viz., as Kierkegaard puts it, "a public ...destroys everything that is relative, concrete and particular in life." (62) The public sphere thus promotes ubiquitous commentators who deliberately detach themselves from the local practices out of which specific issues grow and in terms of which these issues must be resolved though some sort of committed action. What seems a virtue to detached Enlightenment reason, therefore, looks like a disastrous drawback to Kierkegaard. The public sphere is a world in which everyone has an opinion on and comments on all public matters without needing any first-hand experience and without having or wanting any responsibility. Even the most conscientious commentators don’t have to have firsthand experience or take a concrete stand. Rather, they justify their views by citing principles, and, as Kierkegaard notes with disapproval, their "ability, virtuosity and good sense consists in trying to reach a judgment and a decision without ever going so far as action." (33) Moreover, since the conclusions such abstract reasoning reaches are not grounded in the local practices, its solutions are equally abstract. Such proposals would presumably not enlist the commitment of the people involved and therefore not work even if acted upon. Kierkegaard concludes that " what...the speakers at a meeting understand perfectly presented to them as a thought or an observation, they cannot understand at all in the form of action." (39)
More basically still, that the Public Sphere lies outside of political power meant, for Kierkegaard, that one could hold an opinion on anything without having to act on it. This opens up the possibility of endless reflection. If there is no possibility of decision and action, one can look at all things from all sides and always find some new perspective from which to put everything into question again. Kierkegaard saw, when everything is up for endless critical commentary, action finally becomes impossible. "[A]t any moment reflection is capable of explaining everything quite differently and allowing one some way of escape...." (42) He is therefore clear that "reflection by transforming the capacity for action into a means of escape from action, is both corrupt and dangerous...."(68) Therefore the motto Kierkegaard suggested for the Press was: "Here men are demoralized in the shortest possible time on the largest possible scale, at the cheapest possible price." (Journals, Vol. 2, 489) This demoralization clearly transcends liberal politics, yellow journalism, and the uncouth manners of reporters.
The real problem is that the Press speaks for the Public but no one stands behind the views the Public holds. Thus Kierkegaard wrote in his Journal: "...here ... are the two most dreadful calamities which really are the principle powers of impersonality--the Press and anonymity" (Journals and Papers Vol. 2, 480). As Kierkegaard puts it even more clearly in The Present Age: "A public is neither a nation, nor a generation, nor a community, nor a society, nor these particular men, for all these are only what they are through the concrete; no single person who belong to the Public makes a real commitment."(63)(My italics.) As we shall see, this is the sense in which the Public and the Press make Christianity impossible.
In The Present Age Kierkegaard succinctly sums up his view of the relation of the Press, the Public Sphere, and the leveling going on in his time. The desituated and anonymous press and the lack of passion or commitment in our reflective age combine to produce the Public, the agent of the nihilistic leveling characteristic of his time and ours.
The Press is an abstraction (since a newspaper is not a concrete part of a nation and only in an abstract sense an individual) which in conjunction with the passionless and reflective character of the age produces that abstract phantom: a public which in its turn is really the leveling power.(64)
Kierkegaard would surely have seen in the Internet, with its web sites full of anonymous information from all over the world and its interest groups which anyone in the world can join and where one can discuss any topic endlessly without consequences, the hi-tech synthesis of the worst features of the newspaper and the coffee house. On their web page anyone can put any alleged information into circulation. Kierkegaard could have been speaking of the Internet when he said of the Press, "It is frightful that someone who is no one ... can set any error into circulation with no thought of responsibility and with the aid of this dreadful disproportioned means of communication" (Journals and Papers, Vol. 2, p 481.) And in interest groups anyone can have an opinion on anything. In both cases, all are only too eager to respond to the equally deracinated opinions of other anonymous amateurs who post their views from nowhere. Such commentators do not take a stand on the issues they speak about. Indeed, the very ubiquity of the Net generally makes any such local stand seem irrelevant.
What is striking about such interest groups is that no experience or skill is required to enter the conversation. Indeed, a serious danger of the Public Sphere, as illustrated on the Internet, is that it undermines expertise. Learning a skill requires interpreting the situation as being of a sort that requires a certain action, taking that action, and learning from the results. As Kierkegaard understood, there is no way to gain wisdom but by making risky commitments and thereby experiencing both failure and success. Studies of skill acquisition have shown that, unless the outcome matters and unless the person developing the skill is willing to accept the pain that comes from failure and the elation that comes with success, the learner will be stuck at the level of competence and never achieve mastery. Since expertise can only be acquired through involved engagement with actual situations, what is lost in disengaged discussion is precisely the conditions for acquiring practical wisdom. Thus the heroes of the Public Sphere who appear on serious radio and TV programs, such as the United States's MacNeil/Lehrer News Hour, have a view on every issue, and can justify their view by appeal abstract principles, but they do not have to act on the principles they defend and therefore lack the passionate perspective that alone can lead to risk of serious error and also to the gradual acquisition of wisdom.
Kierkegaard even saw that the ultimate activity the Internet would encourage would be speculation on how big it is, how much bigger it will get, and what, if anything, all this means for our culture. This sort of discussion is, of course, in danger of becoming part of the very cloud of anonymous speculation Kierkegaard abhorred. Ever sensitive to his own position as a speaker, Kierkegaard concluded his analysis of the dangers of the present age and his dark predictions of what was ahead for Europe with the ironic remark that: "In our times, when so little is done, an extraordinary number of prophecies, apocalypses, glances at and studies of the future appear, and there is nothing to do but to join in and be one with the rest" (85).
The only alternative Kierkegaard saw to this paralyzing reflection was to plunge into some kind of activity -- any activity -- as long as one threw oneself into it with passionate involvement. In The Present Age he exhorts his contemporaries to make such a leap:
There is no more action or decision in our day than there is perilous delight in swimming in shallow waters. But just as a grown-up, struggling delightedly in the waves, calls to those younger than himself: ‘Come on, jump in quickly’–the decision in existence ... calls out.... Come on, leap cheerfully, even if it means a lighthearted leap, so long as it is decisive. If you are capable of being a man, then danger and the harsh judgment of existence on your thoughtlessness will help you become one.(36-37).
II. The Aesthetic Sphere: The Enjoyment of Endless Possibilities
Such a light hearted leap into the deeper water is typified by the net-surfer for whom information gathering has become a way of life. Such a surfer is curious about everything and ready to spend every free moment visiting the latest hot spots on the Web. He or she enjoys the sheer range of possibilities. Something interesting is only a click away. Commitment to a life of curiosity where information is a boundless source of enjoyment puts one in the reflective version of what Kierkegaard calls the aesthetic sphere of existence -- his anticipation of postmodernity. For such a person just visiting as many sites as possible and keeping up on the cool ones is an end in itself. The only meaningful distinction is between those sites that are interesting and those that are boring. Life consists in fighting off boredom by being a spectator at everything interesting in the universe and in communicating with everyone else so inclined. Such a life produces a self that has no defining content or continuity but is open to all possibilities and to constantly taking on new roles.
But we have still to explain what makes this use of the Web attractive. Why is there a thrill in being able to find out about everything no matter how trivial? What motivates a passionate commitment to curiosity? Kiekegaard thought that in the last analysis people were addicted to the Press, and we can now add the Web, because the anonymous spectator takes no risks. The person in the aesthetic sphere keeps open all possibilities and has no fixed identity that could be threatened by disappointment, humiliation or loss.
Surfing the Web is ideally suited to such a life. On the Internet commitments are at best virtual commitments. Sherry Turkle has described how the Net is changing the background practices that determine what kinds of selves we can be. In Life on the Screen, she details "the ability of the Internet to change popular understandings of identity." On the Internet, "we are encouraged to think of ourselves as fluid, emergent, decentralized, multiplicious, flexible, and ever in process," she tells us. Thus "the Internet has become a significant social laboratory for experimenting with the constructions and reconstructions of self that characterize postmodern life." Chat rooms lend themselves to the possibility of playing at being many selves, none of whom is recognized as who one truly is, and this possibility is not just theoretical but actually introduces new social practices. Turkle tells us that:
The rethinking of human ... identity is not taking place just among philosophers but "on the ground," through a philosophy in everyday life that is in some measure both proved and carried by the computer presence.
She realizes that the Net encourages what she calls "experimentation" because what one does on the Net has no consequences. She therefore thinks that the Net not only gives people access to all sorts of information; it frees people to develop new and exciting selves.
The person in the aesthetic sphere of existence would surely agree, but according to Kierkegaard: "As a result of knowing and being everything possible, one is in contradiction with oneself" (68). When he is speaking from the point of view of the next higher sphere of existence, Kierkegaard tells us that the self requires not "variableness and brilliancy" but "firmness, balance, and steadiness" (Either/Or Vol. II (16,17).
We would therefore expect the aesthetic sphere to reveal that it was ultimately unlivable, and, indeed, Kierkegaard held that if one threw oneself into the aesthetic sphere with total commitment it was bound to break down under the sheer glut of information and possibilities. Without some way of telling the relevant from the irrelevant and the significance from the insignificant everything becomes equally interesting and equally boring. Writing from the perspective of someone experiencing the melancholy that signals the breakdown of the aesthetic sphere he laments: "My reflection on life altogether lacks meaning. I take it some evil spirit has put a pair of spectacles on my nose, one glass of which magnifies to an enormous degree, while the other reduces to the same degree" (Either/Or, 46).
This inability to distinguish the trivial from the important eventually stops being thrilling and leads to the very boredom the aesthete and net surfer dedicate their lives to avoiding. Thus, Kierkegaard concludes: "every aesthetic view of life is despair, and everyone who lives aesthetically is in despair whether he knows it or not. But when one knows it a higher form of existence is an imperative requirement" (Either/Or, Vol. II, 197).
III. The Ethical Sphere: Making Concrete Commitments
That higher form of existence Kierkegaard calls the ethical sphere. In it one has a stable identity and one is committed to involved action. Information is not denigrated but is sought and used for serious purposes. As long as information gathering is not an end in itself, whatever reliable information there is on the Web can be a valuable resource. It can serve serious commitments. Such commitments require that people have life plans and take up serious tasks. They then have goals that determine what needs to be done and what information is relevant for doing it. Can the Net support this life of committed action?
If the Internet could reveal and support the making and maintaining of commitments for action, it would support, not undermine, the ethical commitments Kierkegaard maintains human beings need. Happily, we are now entering a second stage of information technology where it is becoming clear how the ethical sphere can be implemented by using computers to keep track of commitments in order to further the coordination of action. When people communicate, they do not simply pass information back and forth; they get things done. In their activity they depend on speech acts such as requesting and promising to make commitments. Moreover, not only do such speech acts as requests and promises enable them to operate successfully within a shared world; other speech acts such as offers and declarations open up new worlds --domains of discourse and action such as industries, governments, professions and so forth. So far as the Internet develops means of communication that enable people to keep track of their commitments and to see how their speech acts open new domains of action, the Internet supports the ethical sphere.
But Kierkegaard would probably hold that, when the use of the Internet for the coordination of commitments is successfully instantiated in a communications system, the very ease of making commitments would further the inevitable breakdown of the ethical sphere. Each commitment we make has an enormous number of consequences, and we are solicited to take active responsibility for all the consequences that we recognize. So the more sensitive we are to commitments, the more conflicting solicitations we will encounter. And the more we decide a conflict by making one or another commitment, the more our commitments will proliferate into conflicts again. Thus the more developed a system for keeping track of commitments is, the more possible commitments it will keep track of, and its very ability to keep track of all commitments, which should have supported action, will lead instead to paralysis or arbitrary choice.
To avoid arbitrary choice, one might, like Judge William, Kierkegaard’s pseudonymous author of the description of the ethical sphere in Either/Or, turn to one’s talents and one’s job description to limit one’s commitments. Judge William says that his range of possible relevant actions are constrained by his abilities and social roles as judge and husband. But Judge William admits, indeed he is proud of the fact, that as an autonomous agent he is free to give whatever meaning he chooses to his talents and his roles so his freedom is not constrained by his given station and its duties.
But, Kierkegaard argues, if everything is up for choice, including the standards on the basis of which one chooses, there is no reason for choosing one set of standards rather than another. Moreoever, choosing the guidelines for ones life never makes any serious difference, since one can always choose to rescind one’s previous choice. The ethical net-enthusiast will presumably answer that all the learner has to do is to choose a perspective --something that matters-- and care about the outcome. But Kierkegaard would respond that the very ease of making choices on the Internet would ultimately lead to the inevitable breakdown of serious choice and so of the ethical sphere. Commitments that are freely chosen can and should be revised from minute to minute as new information comes along. But where there is no risk and every commitment can be revoked without consequences, choice becomes arbitrary and meaningless.
The ethical person responds to this breakdown by trying to choose which commitments are the most important ones. This choice is based on a more fundamental choice of what is worthy and not worthy, what good and what evil. As Judge William puts it:
The good is for the fact that I will it, and apart from my willing, it has no existence. This is the expression for freedom. ... By this the distinctive notes of good and evil are by no means belittled or disparaged as merely subjective distinctions. On the contrary, the absolute validity of these distinctions is affirmed" (Either/Or, Vol. II, 228).
The ethical thus breaks down because the power to make commitments undermines itself. Any commitment I make does not get a grip on me because I am always free to revoke it. Or else it must be constantly reconfirmed by a new commitment to take the previous one seriously. As Kierkegaard puts it:
If the despairing self is active, ... it is constantly relating to itself only experimentally, no matter what it undertakes, however great, however amazing and with whatever perseverance. It recognizes no power over itself; therefore in the final instance it lacks seriousness.... The self can, at any moment, start quite arbitrarily all over again and, however far an idea is pursued in practice, the entire action is contained within an hypothesis (Sickness unto Death, 100).
Thus the choice of qualitative distinctions that was supposed to support action thwarts it, and one ends up in what Kierkegaard calls the despair of the ethical. Kierkegaard concludes that one can not stop the proliferating of information and commitments by deciding what is worth doing; one can only do that by having an individual identity that opens up an individual world.
IV. The Public Sphere vrs. the Religious Sphere: Making One Unconditional Commitment
The view of commitments as open to being revoked does not seem to hold for those commitments that are most important to us. These special commitments are experienced as grabbing my whole being. When I respond to such a summons with what Kierkegaard calls infinite passion, i.e. when I make an unconditional commitment, this commitment determines what will be the significant issue for me for the rest of my life. In Kierkegaard’s terms, it gives me the eternal in time. Political and religious movements can grab us in this way as can love relationships and, for certain people, such vocations as the law or music.
These unconditional commitments are different from the normal sorts of commitments. They determine what counts as worthwhile by determining who we are. Strong identities based on unconditional commitments, then, stop the proliferation of everyday commitments by determining what ultimately matters and why. They also define the world in which our everyday commitments are made and even what sorts of new domains are worth opening up. They thus block nihilism by establishing qualitative distinctions between what is important and trivial, relevant and irrelevant, serious and playful in one’s life.
But, of course, such a commitment is risky. One’s cause may fail. One’s lover may leave. The curiosity of the present age, the hyperflexibility of the aesthetic sphere, and the unbounded freedom of the ethical sphere are all ways of avoiding risk, but it turns out, Kierkegaard claims, that for that very reason they level all qualitative distinctions and end in the despair of meaninglessness. Only an unconditioned commitment and the strong identity it produces gives an individual a world with that individual’s unique qualitative distinctions.
This leads to the perplexing question: What role can the Internet play in encouraging and supporting unconditional commitments? A first suggestion might be that the movement from stage to stage will be facilitated by the Web just as flight simulators help one learn to fly. One would be solicited to thrown oneself into net surfing and find that boring; then into making and keeping commitments until they proliferated absurdly; and so finally be driven to let oneself be drawn into a risky identity as the only way of out despair. Indeed, at any stage from looking for all sorts of interesting Web sites as one surfs the Net, to striking up a conversation in a chat room, to making commitments that open up new domains, one might just get hooked by one of the ways of life opened up and find oneself drawn into a world-defining lifetime commitment. No doubt this might happen--people do meet in chat rooms and fall in love--but it is highly unlikely.
Kierkegaard would surely argue that, while the Internet, like the Press, allows unconditional commitments, far from encouraging them, it tends to turn all of life into a risk free game. So, although it does not prohibit such commitments, in the end, it inhibits them. Like a simulator the Net manages to capture everything but the risk. Our imaginations can be drawn in, as they are in playing games and watching movies, and no doubt game simulations sharpen our responses for non-game situations, but so far as games work by capturing our imaginations, they will fail to give us serious commitments. Imagined commitments hold us only when our imaginations are captivated by the simulations before our ears and eyes. And that is what computer games and the Net offer us. The temptation is to live in a world of stimulating images and simulated commitment and thus to lead a simulated life. As Kierkegaard says of the present age, "It transforms the real task into an unreal trick and reality into a play." (38) And he adds that "[when] life’s existential tasks have lost the interest of reality; illusion cannot build a sanctuary for the divine growth of inwardness which ripens to decisions." (78)
The test as to whether one had acquired an unconditional commitment would come if one had the incentive and courage to transfer what one had learned to the real world. Then one would confront what Kierkegaard calls "the danger and the harsh judgment of existence". And precisely the attraction of the Net like that of the Press in Kierkegaard’s time, would inhibit that final plunge. Indeed, anyone using the Net who was led to risk his or her real identity in the real world would have to act against the grain of what attracted him or her to the Net in the first place. Thus Kierkegaard is right, the Press and the Internet are the ultimate enemy of the unconditional commitment which is the basis of Christianity, and only this highest religious sphere of existence can save us from the leveling launched by the Enlightenment and perfected in the Press and the Public Sphere.
© Copyright 2004, Regents of the University of California
Cognizione sociale, social network e partecipazione politica. Traccia per un vecchio discorso. (2009)
Partecipazione e identità.
Le teorie psicologiche dell’identità sociale (si potrebbe dire “identità tout court” se si accetta che “il soggetto è ‘originariamente sociale’, è cioé sin dalla nascita inserito in una rete di rapporti con gli altri, parte della sua identità sarà determinata dall’appartenenza a gruppi”, Catellani, p.153) hanno messo in luce che l’identità sociale è definita da quella parte dell’immagine che un individuo si fa di se stesso, che deriva dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo (o gruppi) sociale, unita al valore e al significato emozionale associati a tale appartenenza.
Si riteneva che fosse importante la “distintività positiva” del gruppo di appartenenza, ma sviluppi più recenti della teoria hanno messo in luce che l’appartenenza a un gruppo domina persino sulla positività dell’immagine del gruppo stesso. In altre parole, gli individui sembrano preferire appartenere a un gruppo eventualmente non connotato positivamente piuttosto che a un gruppo valutato come positivo ma non abbastanza identificabile (p.154).
Tralasciando gli ovvi commenti che si potrebbero fare su questo punto riguardo alla specificità dei tanti gruppi sociali connotati negativamente caratteristici del nostro paese (penso subito ai giovani concittadini di Roberto Saviano che lo accusano di avere infamato la loro città...) mi pare che questa ipotesi sia da prendere seriamente in considerazione per tentare una spiegazione del perché la sinistra abbia perso e stia tuttora perdendo consensi. Lungi dal voler ipostatizzare le identità, che sappiamo tutti, noi postmoderni e post-postmoderni, essere molteplici, frammentarie, aperte, creative, dinamiche e spesso ambigue, tuttavia è chiaro che per molti italiani è diventato oscuro che cosa significhi praticare la propria appartenenza alla Sinistra perché la Sinistra non ha più un’identità positiva chiara e distinta.
La Sinistra italiana ha coltivato troppo la distintività differenziale, a scapito dell’identificazione positiva.
Come dice Lakoff, con tutta la semplificazione possibile a uno psicolinguista americano che si occupa di politica: non bisogna utilizzare i frames concettuali degli avversari ma bisogna proporre i propri.
Se questo è stato fatto è stato fatto poco e male.
Partecipazione e NTIC
In un articolo intitolato E-democracy e politiche per la partecipazione dei cittadini, la sociologa Anna Carola Freschi sostiene l’importanza delle cosiddette NTIC relativamente all’opportunità di relazione sociale fra soggetti prima isolati, minoritari e dispersi e alla costruzione di identità sociali nuove:
“La disintermediazione dei flussi di comunicazione e la loro pluralizzazione – legata a bassi costi e crescente agilità nell’uso attivo dei nuovi media - hanno rafforzato le opportunità di relazione sociale fra soggetti prima isolati, minoritari e dispersi, con scarse risorse per accedere alla sfera pubblica attraverso il sistema mass mediale, se non attraverso canali consolidati e logiche specifiche, con tutti i costi derivanti in termini di condizionamenti forti nella costruzione di identità sociali nuove, dotate di una sufficiente autonomia.”
Che cosa siano queste nuove identità sociali autonome costruibili anche (non solo!) grazie alle NTIC è naturalmente un punto problematico, del tutto subordinato al nostro concetto di identità, oggi spesso declinato secondo la modalità della postmodernità liquida.
Mi interessa di più l’idea che vi siano opportunità di relazione sociale fra soggetti prima isolati, minoritari e dispersi. Mi interessa, evidentemente, perché mi riguarda... Fin dal 2001, nei mesi che precedettero il tragico contro-G8 di Genova, il social-network (allora la chat con amici di Rifondazione nell’apposita stanza di Tiscali) mi ha presentato la possibilità di entrare in relazione con altre persone interessate alla politica.
Avvicinando i partiti politici non mi ero mai sentito valorizzato, anzi mi sentivo trattato con fastidio da chi – secondo me – avrebbe potuto giovarsi della mia disponibilità a lavorare, imparare, rendermi utile.
Come dice ancora Freschi, uno degli elementi della crisi della relazione tra partecipazione dei cittadini e istituzioni politiche (includendo anche i partiti), è
"una domanda crescente e nuova da parte dei cittadini di poter valorizzare il proprio patrimonio di esperienze e competenze; le comunità locali e professionali emergenti, le associazioni, i singoli cittadini esprimono sempre più la volontà di essere ascoltati e giocare un ruolo più attivo anche 'tra una elezione e l'altra'.
[...]
Una delle dimensioni analitiche più interessanti di questo fenomeno [crisi della partecipazione al voto e parallela crescita di forme di partecipazione alternative] è proprio legato al contributo specifico e al tempo stesso alla rivendicazione identitaria in termini di ‘saperi’- spesso con uno spiccato carattere esperienziale, contestuale, critico - che proviene da tali soggetti sociali emergenti."
Un aspetto positivo dei social network è il rinvio di un’immagine di sé socializzata: se non è ancora la valorizzazione del patrimonio di sapere di ogni singolo individuo, è qualcosa che procede in quella direzione (io vengo talvolta ascoltato quando su FB scrivo di libri, di cultura, di politica, e mi è capitato che una persona conosciuta in rete, intelligente ma impolitica, orientatasi verso la Lega per motivi imperscrutabili, mi dicesse che gli avevo fatto tornare voglia di informarsi e comprendere la politica).
I social network, e in particolare FB, sono un’esteriorizzazione della capacità di ragionare insieme agli altri.
Intendo dire che non si tratta soltanto di “luoghi” (ovviamente virtuali) dove poter esplicare le proprie capacità di ragionamento argomentazione e comunicazione, ma di dispositivi cognitivi allargati. Realizzano qualcosa di simile a ciò che i filosofi chiamano “mente estesa”.
La nascita della scrittura e della sfera della documentalità (si vedano i lavori di Maurizio Ferraris) ha rappresentato per la specie umana la possibilità di ricorrere a una “memoria esterna”: un ampliamento della capacità di memorizzazione di informazioni manipolabili anche non in tempo reale, quindi a più riprese, in maniera stratificata e permettendo il sorgere di una memoria culturale più astratta rispetto ai modi della trasmissione orale.
La nascita del web rappresenta qualcosa di simile, l’invenzione di una super-scrittura che superi i limiti spaziali come la scrittura superava quelli temporali dell’archiviazione di tracce: la possibilità di comunicare tutto a tutti sembra finalmente alla portata, e FB rende concreta questa possibilità per la cosiddetta moltitudine.
È chiaro che FB ha dei limiti strutturali, propri di un’impresa privata paradigmatica del turbocapitalismo da new-economy, tuttavia questi limiti sono sufficientemente larghi da permettere di usarlo come un efficace strumento di comunicazione politica, più e diversamente dagli altri popolari social network (Myspace, Youtube al quale però FB si appoggia molto per la fruizione e condivisione di documenti audiovisivi).
Alcuni analisti hanno adottato toni entusiastici nei confronti delle cosiddette “nuove tecnologie” (guardare sempre con sospetto all’aggettivo “nuove”):
"la rete permette di organizzarsi per agglomerati tematici e non solo territoriali e può rappresentare una forma di partecipazione succedanea rispetto ai vecchi modelli dell’impegno politico" (Giuseppe Di Caterino e Giuseppe A. Veltri, La necessaria evoluzione della militanza politica).
In assenza di studi che quantifichino questo fenomeno, tuttavia siamo nel campo delle intuizioni.
Terminerò dunque esponendo un paio di mie intuizioni personali.
All’opposizione tra partiti politici e associazionismo, netta e impermeabile come la presenta lo storico Paul Ginsborg in La democrazia che non c’è, affiancherei un’altra opposizione relativa ai modi comunicativi possibili in rete.
1) comunicazione “verticale”, dall’alto in basso, “moderata”, ego-centrata; è quella tipica del blog, utilizzata molto bene da Grillo e Di Pietro, e praticamente sconosciuta ai politici del PD e della sinistra, con l’eccezione significativa di Nichi Vendola.
Di Caterino e Veltri sostengono che i blog sono “intesi come nuove forme di militanza, luoghi di discussione e confronto attraverso tutti i benefici che la rete offre: da un platea potenzialmente enorme a forme di integrazione e group thinking (grazie a network e blog aggregators), sino all’utilizzo dell’enorme database di sapere che internet costituisce.”
Questa forse può essere la forma di comunicazione elettronica migliore per la forma-partito, perché veicola tacitamente l’elemento gerarchico e organizzativo necessario a un partito, anche leggero e postmoderno, o vicino alla forma-movimento come le liste di Grillo.
2) comunicazione “orizzontale”, tipica di FB, diffusione “rizomatica” dell’informazione, priva di censure oltre a quelle dettate dalla legge (americana: molto pruriginosa in fatto di sessualità ma del tutto tollerante nei confronti dell’espressione di simpatie nazifasciste, verso la mafia, o di aggressione verbale ai danni di mioranze etniche come i rom e i sinti). Ciascun utente è un individuo, atomo, nodo, e costruisce intorno a sé il proprio mondo-ambiente - Umwelt – virtuale. Qui c’è più libertà di associarsi agli “amici” coi quali si va d’accordo, quindi il rischio è di parlare soltanto a chi la pensa come noi, l’elusione del confronto e della dialettica.
Questa forma di comunicazione elettronica però può essere quella migliore per affrontare il problema identitario di cui dicevo all’inizio. La comunicazione “orizzontale” tipica di un social network come FB non rischia la vuota omogeneità, il conformismo, proprio perché ogni individuo-utente è il centro del proprio gruppo virtuale e nulla lo trattiene mai dall’esprimere il proprio pensiero, anche solo per dettagliare minime differenze o punti di vista personali che in un blog sarebbero insensati e fuori posto.
La comunicazione orizzontale propria dei social network à la FB sembrerebbe più adatta al mondo delle associazioni, che si nutrono (o dovrebbero) di molteplici proposte non filtrate da gerarchie organizzative.
Come tutte le opposizioni concettuali, anche questa che ho delineato, tra e-communication verticale e orizzontale è forse destinata a decostruirsi, e del resto ci può essere interazione tra le due forme comunicative, tuttavia almeno nell’immediato corrisponde probabilmente a una dualità di pubblico e utenza.
Esempio: ho l’impressione, tutta da verificare, che i “grillini” comunichino meno con FB, ma piuttosto a partire dall’informazione “lasciata fluire verso il basso” dal blog di Grillo. Se un utente del blog di Grillo apporta informazione non si tratta di informazione teorica ma pratica (denuncia di questo o quel caso locale pertinente ai temi che stanno a cuore dei grillini).
Su FB invece c’è una maggior circolazione dell’informazione da un utente all’altro, secondo dinamiche cognitive e statistiche (a parità di difficoltà di fruizione, ciò che è più rilevante si diffonde maggiormente, cfr. Teoria della Pertinenza).
Questi due modi comunicativi corrispondono implicitamente a due modi diversi di intendere la partecipazione, la comunicazione e in fin dei conti il potere: da una parte il modello gerarchico-arborescente del blog, la partecipazione strutturata dall’alto (simile alla tradizionale militanza partitica); dall’altra parte il modello rizomatico, interconnesso, proprio di FB et similia, dove la comunicazione è democratica, libertaria e direi quasi anarchica o con parola di Aldo Capitini: omnicratica.
Post Scriptum: da questa bozza ho poi ricavato una presentazione aggiornata, per un workshop alla facoltà di Informatica di Torino, durante la protesta contro la riforma Gelmini. Qui il link al powerpoint.
Post Scriptum: da questa bozza ho poi ricavato una presentazione aggiornata, per un workshop alla facoltà di Informatica di Torino, durante la protesta contro la riforma Gelmini. Qui il link al powerpoint.
mercoledì 22 settembre 2010
Facebook/Documentalità: discutendo col Labont (FB&filosofia)
[pubblicata da Edoardo Acotto il giorno giovedì 21 gennaio 2010 alle ore 23.43]
Il bello di FB è che, pur essendo de jure un archivio di tracce potenzialmente infinito, in realtà somiglia più a un block notes magico che disperde tracce in un'anonima inutilità, annullandole de facto.
Se FB funzionasse come un archivio nessuno lo userebbe con la leggerezza con cui lo si usa.
L'archivio non è un divertissement...
Questa è la specificità di FB rispetto agli altri social network: FB, al contrario dei Blog o di Myspace, promette una potenza di micro-archiviazione che però non mantiene, e che non può mantenere semplicemente perché le sue dimensioni non sono quelle della cognizione umana bensì quelle dell'archivio virtuale in-sé.
Su FB l'archivio diventa per-altri più che per sé, ma non sembra diventare mai un archivio in-sé-per-sé...
Per esempio, per dare una qualche forma di presenza a questi pensieri, ora devo salvare il tutto in una NOTA, che affido a FB come un messaggio nella bottiglia.
Qualcuno prima o poi forse la leggerà, ma sarà sempre troppo tardi (o troppo presto...)
Il bello di FB è che, pur essendo de jure un archivio di tracce potenzialmente infinito, in realtà somiglia più a un block notes magico che disperde tracce in un'anonima inutilità, annullandole de facto.
Se FB funzionasse come un archivio nessuno lo userebbe con la leggerezza con cui lo si usa.
L'archivio non è un divertissement...
Questa è la specificità di FB rispetto agli altri social network: FB, al contrario dei Blog o di Myspace, promette una potenza di micro-archiviazione che però non mantiene, e che non può mantenere semplicemente perché le sue dimensioni non sono quelle della cognizione umana bensì quelle dell'archivio virtuale in-sé.
Su FB l'archivio diventa per-altri più che per sé, ma non sembra diventare mai un archivio in-sé-per-sé...
Per esempio, per dare una qualche forma di presenza a questi pensieri, ora devo salvare il tutto in una NOTA, che affido a FB come un messaggio nella bottiglia.
Qualcuno prima o poi forse la leggerà, ma sarà sempre troppo tardi (o troppo presto...)
martedì 21 settembre 2010
Antonio Scurati dice stupidaggini sull'insegnamento della storia della filosofia ex riforma Gelmini, sul Secolo d'Italia di oggi
[pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 28 maggio 2010 alle ore 14.22]
"Prendiamo il post-strutturalismo francese, Derida [sic!], Deleuze, Lyotard: ebbene, tipici dell'approccio post-strutturalista sono la ripresa dei motivi nietzscheani. Allora trovo giusto far studiare prima questi filosofi contemporanei e dopo arrivare a Nietzsche"
COMMENTO: prendiamo Berlusconi, è chiaramente un fascista. Che c'è di meglio dunque che studiare prima Berlusconi per poi risalire a Mussolini e Hitler passando per Craxi?
"si arriverà così a capire che non esiste esperienza del pensiero che non sia pensiero contemporaneo. Anche qui, fare il percorso del "salmone" è vantaggioso, perché si partirebbe dal pensiero e dai problemi dell'oggi per risalire alle sorgenti del sapere".
COMMENTO: prendiamo Scurati, è chiaramente un importante scrittore italiano contemporaneo. Che c'è di meglio dunque che immergersi nei suoi densissimi libri pieni di esperienza di pensiero dell'oggi, per poi risalire, chessò, a Musil, Proust, Dostojevsky e Tolstoj, Dickens, Voltaire, Cervantes e via salmonescamente risalendo fino a Omero?
In fondo, che "questo è il migliore dei mondi possibili" si capisce molto meglio leggendo il placet di Scurati alla riforma Gelmini piuttosto che Leibniz e Voltaire.
"Prendiamo il post-strutturalismo francese, Derida [sic!], Deleuze, Lyotard: ebbene, tipici dell'approccio post-strutturalista sono la ripresa dei motivi nietzscheani. Allora trovo giusto far studiare prima questi filosofi contemporanei e dopo arrivare a Nietzsche"
COMMENTO: prendiamo Berlusconi, è chiaramente un fascista. Che c'è di meglio dunque che studiare prima Berlusconi per poi risalire a Mussolini e Hitler passando per Craxi?
"si arriverà così a capire che non esiste esperienza del pensiero che non sia pensiero contemporaneo. Anche qui, fare il percorso del "salmone" è vantaggioso, perché si partirebbe dal pensiero e dai problemi dell'oggi per risalire alle sorgenti del sapere".
COMMENTO: prendiamo Scurati, è chiaramente un importante scrittore italiano contemporaneo. Che c'è di meglio dunque che immergersi nei suoi densissimi libri pieni di esperienza di pensiero dell'oggi, per poi risalire, chessò, a Musil, Proust, Dostojevsky e Tolstoj, Dickens, Voltaire, Cervantes e via salmonescamente risalendo fino a Omero?
In fondo, che "questo è il migliore dei mondi possibili" si capisce molto meglio leggendo il placet di Scurati alla riforma Gelmini piuttosto che Leibniz e Voltaire.
lunedì 20 settembre 2010
Oggi Badiou vince tutti: per chi fosse interessato, ho il pdf con le note...
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ALAIN BADIOU ET L’ONTOLOGIE DU MONDE PERDU
20/set/2010
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GAVAGAI, OVVERO L’ACCETTAZIONE RADICALE DEL PARLAN...
19/set/2010
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G8enova per noi (un racconto mai finito)
20/set/2010
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Espettorazioni dell'Ombra
20/set/2010
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Twitteratura
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Espettorazioni dell'Ombra
20/set/2010
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Espettorazioni dell'Ombra (AGGIORNAMENTO)
Alcuni pensieri su intellettuali, critici e letteratura ispiratimi da un litigio con Gilda Policastro (che rivendicò il copyright di "espettorazioni": glielo concedo volentieri, è suo).
Espettorazioni dell'Ombra, 6
In un paese dove la gente diviene attivamente analfabeta, il godimento intellettuale produttivo di pensieri sensi e testi è come un film di perle proiettato su schermi per porci miopi
***
Espettorazioni dell'Ombra, 1
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.39
I concetti di frustrazione e invidia usati in modo esplicativo sono propri della psicologia spontanea piccolo borghese e in particolare di quella degli intellettuali umanisti separati dalla società, da essi chiamata "pubblico".
Espettorazioni dell'Ombra, 2
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.38
In una società che poco legge e quasi nulla comprende, la funzione del critico letterario è paragonabile a quella dell'igienista nel lebbrosario: le sue prescrizioni immaginarie si volatilizzano rapidamente tra i miasmi del reale.
Espettorazioni dell'Ombra, 3
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.52
In una società che ignora la poesia per sopraggiunto analfabetismo poetico-politico, la funzione del poeta è paragonabile a quella di un istituto creditizio di un paese in bancarotta: mentre i più sopravvivono a stento, o muoiono d'inedia, esso erogherà prestiti ai benestanti affinché difendano e perpetuino la loro agiata forma di vita.
Espettorazioni dell'Ombra, 4
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno martedì 18 maggio 2010 alle ore 15.25
Alla maestà dei letterati italiani non dà fastidio esser lesi dalle critiche ma piuttosto che gliele porga qualcuno che nella Repubblica delle Lettere non conta un benemerito cazzo di nulla.
Espettorazioni dell'Ombra, 5
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno martedì 18 maggio 2010 alle ore 21.54
Nell'epoca del capitalismo rovinante, il critico letterario che si lamenta della bassa qualità dei libri editi, distribuiti, letti e premiati, ha qualche tratto in comune con il generale di un esercito destinato alla sconfitta che si duole perché i suoi soldati non vanno lietamente a morire sul fronte.
In entrambi i casi, la spiegazione ha a che fare con la morte e la natura delle cose.
Espettorazioni dell'Ombra, 6
In un paese dove la gente diviene attivamente analfabeta, il godimento intellettuale produttivo di pensieri sensi e testi è come un film di perle proiettato su schermi per porci miopi
***
Espettorazioni dell'Ombra, 1
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.39
I concetti di frustrazione e invidia usati in modo esplicativo sono propri della psicologia spontanea piccolo borghese e in particolare di quella degli intellettuali umanisti separati dalla società, da essi chiamata "pubblico".
Espettorazioni dell'Ombra, 2
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.38
In una società che poco legge e quasi nulla comprende, la funzione del critico letterario è paragonabile a quella dell'igienista nel lebbrosario: le sue prescrizioni immaginarie si volatilizzano rapidamente tra i miasmi del reale.
Espettorazioni dell'Ombra, 3
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.52
In una società che ignora la poesia per sopraggiunto analfabetismo poetico-politico, la funzione del poeta è paragonabile a quella di un istituto creditizio di un paese in bancarotta: mentre i più sopravvivono a stento, o muoiono d'inedia, esso erogherà prestiti ai benestanti affinché difendano e perpetuino la loro agiata forma di vita.
Espettorazioni dell'Ombra, 4
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno martedì 18 maggio 2010 alle ore 15.25
Alla maestà dei letterati italiani non dà fastidio esser lesi dalle critiche ma piuttosto che gliele porga qualcuno che nella Repubblica delle Lettere non conta un benemerito cazzo di nulla.
Espettorazioni dell'Ombra, 5
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno martedì 18 maggio 2010 alle ore 21.54
Nell'epoca del capitalismo rovinante, il critico letterario che si lamenta della bassa qualità dei libri editi, distribuiti, letti e premiati, ha qualche tratto in comune con il generale di un esercito destinato alla sconfitta che si duole perché i suoi soldati non vanno lietamente a morire sul fronte.
In entrambi i casi, la spiegazione ha a che fare con la morte e la natura delle cose.
ALAIN BADIOU ET L’ONTOLOGIE DU MONDE PERDU
Riproduco qui il mio unico articolo di filosofia mai pubblicato. In un libro collettaneo: Bruno Besana & Oliver John Feltham (Eds). Écrits autour de la pensée d’Alain Badiou. Paris, FR: L'Harmattan.
Sono saltate le note a pié di pagina e scomparsi i simboli matematici. Prima o poi rimedierò.
1. Le discours philosophique de Badiou est totalement déterminé par la figure de Heidegger
Il faut être formblind pour penser que l’ontologie heideggérienne soit, dans un sens quelconque, fondamentale.
(Mulligan K., Métaphysique et ontologie)
Alain Badiou a posé au commencement de L’être et l’événement que «Heidegger est le dernier philosophe universellement reconnaissable» (p.7) et que «"l’ontologie" philosophique contemporaine est entièrement dominée par le nom de Heidegger» (p.15). Il reçoit ainsi comme acquise la filiation heideggérienne propre d’une grande partie de la philosophie dite “continentale”.
Il est vrai que selon Badiou il faudrait dépasser Heidegger, dont le style de pensée resterait pris dans le régime poétique, un régime somme toute fondé sur la présence en dépit du projet anti-métaphysique du philosophe allemand.
Mais, faisant de Heidegger le dernier Philosophe de ce qu’il appelle le “référentiel contemporain”, c’est-à-dire le paradigme philosophique dominant, Badiou ne s’éloigne pas des confins de ce qu’il appelle lui-même l’historicisme de la philosophie. A ce propos, dans Conditions il a affirmé que :
1. La philosophie est aujourd’hui paralysée par le rapport à sa propre histoire.
Cette paralysie résulte de ce que, examinant philosophiquement l’histoire de la philosophie, nos contemporains sont presque tous d’accord pour dire que cette histoire est entrée dans l’époque, peut-être interminable, de sa clôture. (...) Ou alors la philosophie n’est justement plus que sa propre histoire, elle devient le musée d’elle-même. (...) L’idée dominante est que la métaphysique est historiquement épuisée, mais que l’au-delà de cet épuisement ne nous est pas encore donné. (...)
2. La philosophie doit rompre, de l’intérieur d’elle-même, avec l’historicisme.
Rompre avec l’historicisme, quel est le sens de cette injonction ? Nous voulons dire que la présentation philosophique doit s’autodéterminer initialement sans référence à son histoire. Elle doit avoir l’audace de présenter ses concepts sans les faire préalablement comparaître devant le tribunal de leur moment historique .
On pourrait consentir avec Badiou si l’on référait ce diagnostic à la philosophie continentale. La philosophie analytique, au contraire, se caractérise par un rapport tout d’abord théorique aux concepts et aux problèmes philosophiques, l’histoire des idées n’étant pas méconnue ni refoulée, mais ne bornant pas la liberté d’analyse théorique des concepts et des problèmes philosophiques. Cela nous semble suffisant pour admettre que “la philosophie” ne se trouve pas dans la nécessité de sortir ni de l’historicisme, ni de la métaphysique. Les affirmations “épocales” à ce propos ne sont que l’effet d’un certain style de pensée philosophique, dont les propositions peuvent bien être évaluées à la lumière de quelques critères de vérité.
Or, si Heidegger posait que la métaphysique coïnciderait avec l’oubli de l’être dont on peut encore espérer sortir par la voie poétique, Badiou n’accepte pas cette position du Dernier Philosophe:
Heidegger pense que nous sommes historialement régis par l’oubli de l’être, et même par l’oubli de cet oubli. Je proposerai pour ma part un violent oubli de l’histoire de la philosophie, donc un violent oubli de tout le montage historial de l’oubli de l’être .
Il faut oublier Heidegger, et avec violence. Pour dépasser l’historicisme philosophique fondé sur le langage poétique et sur le privilège de la présence, Badiou déclare que : a) les mathématiques sont l’ontologie ; b) le nom propre de l’être-en-tant-qu’être est l’ensemble vide.
Fixons tout de suite le fait qu’il s’agit de deux postulats méta-ontologiques.
2. La thèse : les mathématiques sont l’ontologie, est méta-ontologique. Elle ne vise pas le monde mais le discours
Au moins jusqu’à L’être et l’événement, Badiou renonçait explicitement au discours philosophique sur le monde:
La thèse que je soutiens ne déclare nullement que l’être est mathématique, c'est-à-dire composé d’objectivités mathématiques. C’est une thèse non sur le monde, mais sur le discours. Elle affirme que les mathématiques, dans tout leur devenir historique, prononcent ce qui est dicible de l’être-en-tant-qu’être (nous soulignons).
Ce qui peut être dit dans le domaine ontologique peut se dire en mathématiques. L’“onto-mathématique” remplace le langage naturel, et même celui artificiel, dans l’expression de ce qui est dicible de l’être-en-tant-qu’être. Badiou ne s’engage pas dans la thèse selon laquelle l’être serait intrinsèquement mathématique, mais l’effet rhétorique de son discours est souvent celui de laisser oublier au lecteur que ce dont on parle est le discours ontologique, donc la mathématique, et nullement le monde en soi.
Mais quel est, à l’intérieur du système de pensée de Badiou, le rapport entre le discours méta-ontologique (la philosophie) et le monde (réel), entre l’ontologie (les mathématiques) et le monde, et finalement entre l’ontologie et la méta-ontologie? Finalement, la relation entre l’ontologique et l’ontique, entre le langage formel mathématique et le monde, à l’intérieur du système de Badiou reste une question mystérieuse.
Mais ce ne peut pas être un hasard le fait que Badiou n’affronte pas cette question par lui-même. Badiou ne s’engage nullement dans une analytique du Dasein heideggérien et de son être au monde . Il y a chez notre philosophe quelque chose comme un refoulement de l’ontique, de l’empirique, et nous croyons que l’on n’a pas suffisamment remarqué cette question philosophique, à notre avis évidente et majeure.
3. L’être-en-tant-qu’être et l’ensemble vide
On peut soutenir que l’expression aristotélicienne à la base de l’histoire de la métaphysique, “être-en-tant-qu’être”, n’a pas de sens, du moins si on ne s’explique pas sur la référence de l’expression, commençant par “être”.
Depuis Quine, ce qu’on pourrait appeler la “déontologie de l’ontologie” prévoit qu’on déclare sur quoi on est disposé à quantifier .
Selon la suggestion du philosophe analytique italien Achille Varzi , si l’on pose que pour tous les êtres il y a des propriétés p telles que tous les êtres les possèdent, on pourrait se référer à ces propriétés générales avec l’expression “être-en-tant-qu’être”.
Lisant L’être et l’événement on peut comprendre que l’être-en-tant-qu’être est pour Badiou le fondement des portions des situations structurées qui constituent la texture générale de tout exprimable individualisé par l’“opération” du compte-pour-un . Tout ce qui est, est consistant et son identité est déterminée. “Etre” signifie “être-un”, mais comme l’un n’existe pas (cfr. infra, §4) être signifie être “compté-pour-un”, être intentionné comme un tout. “Avant” d’être compté-pour-un, ce qui apparaît n’est qu’un ensemble (multiple) inconsistant, (encore) sans identité.
C’est la façon de Badiou d’installer dans sa philosophie l’ontologie du non-étant propre de Lacan , en tant que doctrine capable de visualiser une (imaginaire) pré-situation ontologique en amont de l’apparaître des étants. Mais cette ontologie de l’absence des entia, ou “mé-ontologie”, est une ontologie seulement possible et la poser en forme de système d’axiomes ne suffit pas à lui conférer une force universelle.
D’après nous les problèmes philosophiques liés au verbe “être” doivent tout d’abord subir une analyse grammaticale. Suivant Carnap, les distinctions fondamentales à faire sont les suivantes:
[“être”] joue tantôt le rôle de copule pour un prédicat (je suis affamé), tantôt celui d’indicateur d’existence («je suis»). (...) la forme du verbe pris dans sa seconde acception, celle de l’existence (...) produit l’illusion d’un prédicat, là où il n’y en a pas. Or, on sait depuis longtemps que l’existence n’est pas un caractère attributif (...) La forme logique dans laquelle [la logique moderne] introduit le signe de l’existence est telle que ce signe ne peut pas se rapporter à des signes d’objets comme peut le faire un prédicat, il ne peut se rapporter qu’à un prédicat (...). Un énoncé existentiel n’est pas dans la forme «a existe» (...) mais: «il existe une chose dont la nature est telle ou telle» .
Premièrement, donc, il faut distinguer «être» comme marque d’existence et comme copule. Deuxièmement, en sus du verbe être (i) la langue française dispose d’un substantif l’étant (ii) et d’un autre substantif l’être (iii). Il faut fixer que Badiou parle toujours de l’être dans cette troisième acception, ce qui est dans le sillage de l’orthodoxie heideggérienne.
Or, pour Badiou l’être est formalisé par la marque de l’ensemble vide: “”. Badiou n’argumente pas la rationalité de cette formalisation qui pourtant implique une portée ontologique de la formalisation même. On perçoit vaguement qu’au fondement de cette idée il y a une analogie entre l’ensemble vide mathématique et l’être-en-tant-qu’être (qui dans la perspective heideggérienne est l’être-qui-n’est-pas-l’être-des-étants). Mais si la thèse « est le nom propre de l’être» sur laquelle se fonde le système de Badiou nous paraissait dépourvue de sens?
En effet, si l’expression “être-en-tant-qu’être” signifiait quelque chose, il faudrait pourtant justifier pourquoi se référer à cette signification avec un symbole mathématique qui n’a pas de signification en dehors du formalisme mathématique. Ce couplage du symbolisme mathématique avec l’ontologie d’origine aristotélicienne n’est pas soutenu par des arguments explicites.
Badiou ne dit pas que l’ensemble vide serait l’être, ce qui ferait apparaître clairement le non-sens de la thèse. Mais de toute façon parler du “nom propre” de l’être (“être” dans notre acception iii) ne va pas de soi. La marque de l’ensemble vide () est prise ici dans sa suppositio materialis pour en proclamer la référence à l’être (iii) pris, lui, dans sa suppositio formalis. C’est une stratégie de pensée quelque peu rusée, car il n’y a pas de vrai glissement entre le denotans et le denotatum , mais on ne s’efforce pas d’empêcher l’illusion qu’il y en ait un et qu’il soit considéré valable (comme si Badiou disait que l’ensemble vide est l’être ou que l’être est l’ensemble vide). En effet l’être n’est pas l’ensemble vide, ce qui laisserait complètement ouverte la question de ce que c’est l’être. Badiou ne s’en occupe pas, il ne s’occupe que de son nom propre.
4. L’Un et le rien
Dans L’être et l’événement deux pseudo-arguments sont invoqués en support de la thèse que serait le nom propre de l’être.
a) «Il n’y a pas d’un» : Badiou argumente que l’unité et l’identité de chaque étant n’est qu’un effet ontologique de ce qu’il appelle le compte-pour-un:
il n’est cependant pas question de céder sur ce que Lacan épingle au symbolique comme son principe: il y a de l’un. (...) Ce qu’il faut énoncer c’est que l’un, qui n’est pas, existe seulement comme opération. Ou encore : il n’y a pas d’un, il n’y a que le compte-pour-un. [...] Il convient de prendre tout à fait au sérieux que «un» soit un nombre. Et, sauf à pythagoriser, il n’y a pas de lieu de poser que l’être, en tant qu’être, soit nombre.
«L’un n’est pas» et «il n’y a pas d’un» ne sont pas des propositions douées de sens: “un”, en tant que substantif, est un nom de nombre naturel, et la grammaire (au sens de Wittgenstein) d’un nom de nombre ne supporte pas une prédication d’existence si ce n’est à l’intérieur d’une ontologie pythagoricienne, explicitement refusée par Badiou. A propos de ce genre de problèmes syntaxiques, Carnap proposait d’adopter une “théorie des types” dans une langue artificielle correcte afin d’éliminer d’emblée la possibilité de former des “simili-énoncés” comme «César est un nombre premier».
b) Le deuxième argument vise le néant. Badiou soutient la dicibilité d’un certain type de rien. Réellement il n’y a pas du néant, mais il y en a au niveau formel, car le néant est désigné par une forme mathématique:
(…) l’être-rien se distingue tout autant du non-être que le « il y a » se distingue de l’être. (…) il y a un être du rien, en tant que forme de l’imprésentable.
D’après nous opposer “l’être-rien” et “le non-être” ce n’est qu’un jeu linguistique philosophique, un jargon dépourvu de sens non-philosophique. “Etre-rien” est une expression dépourvue de sens précis, si ce n’est le même que n’avoir pas de propriétés dicibles. Le seul sens non rigoureux que nous pouvons y attribuer est du genre mystique : cela n’est pas méprisable en soi mais il nous semble que pour le valider il faudrait un contexte philosophique et rhétorique différent de celui de Badiou.
L’expression (dépourvue de sens) “le non-être”, n’est que la susbtantivation d’une négation apposée au substantif “l’être” (dans notre acception iii). Depuis Parménide l’on sait qu’il y a ici un danger pour l’analyse. Non-être est une expression équivalente à néant. Et, comme le reprochait Carnap à Heidegger, il y a une erreur
qui consiste à prendre le mot «Néant» pour le nom d’un objet, parce qu’on l’utilise sous cette forme dans la langue usuelle pour formuler un énoncé existentiel négatif (...). En revanche dans une langue correcte on obtient le même but, en se servant non pas d’un nom particulier, mais d’une forme logique spécifique de l’énoncé.
Un commentaire de Quine sur le terme “rien” nous semble présenter le problème le plus clairement possible:
Un terme singulier indéfini dont l’ambiguïté a spécialement invité à la confusion, réelle et feinte, est «rien» ou «personne». Comme boutade terne, la formule est assez familière, ainsi dans la chanson de Gershwin «j’ai une abondance de rien» [...] ou dans ce passage de Lewis Carroll: «J’ai dépassé personne dans la rue – Alors personne marche plus lentement que vous». Locke lui-même, si nous admettons l’interprétation peu généreuse de la part de Hume, serait tombé sans rire dans la même confusion lorsqu’il a défendu le principe universel de causalité, en arguant que, si un événement manque de cause, il doit avoir «rien» pour cause, ce qui ne peut pas être une cause. Heidegger, si nous pouvons le lire de manière littérale, a été abusé par la même confusion dans sa déclaration «Das Nichts nichtet». Et Platon, paraît avoir eu des difficultés avec Parménide au sujet de ce petit sophisme.
Ce qui est troublant au sujet du terme singulier indéfini «rien», c’est sa tendance à prendre le masque d’un terme défini.
On ne peut donc pas savoir, du moins si on ne définit pas des critères de signification (que Badiou ne définit pas) ce que c’est que “l’imprésentable”, et donc sa forme.
Les arguments a) et b), essentiels au dispositif de L’être et l’événement, ne respectent donc pas la grammaire naturelle des termes “un” et “rien” : on pourrait fixer une grammaire artificielle pour des raisons stylistiques mais alors il faudrait les énoncer pour se faire comprendre.
L’argument b) est celui qui porte le poids majeur: faire de le nom de l’être-en-tant-qu’être permet le déploiement du discours méta-ontologique de L’être et l’événement.
La thèse "les mathématiques sont l’ontologie" est donc fondée sur la position invérifiable (car soustraite à toutes questions de sens empiriquement contrôlable) de ce qu’on pourrait appeler le sens de l’être de l’ensemble vide .
5. En tout cas les mathématiques ne sont pas l’ontologie
Il faut se méfier de la face «naïve» du formalisme et du mathématisme, dont l’une des fonctions secondaires a été, ne l’oublions pas, dans la métaphysique, celle de compléter et de confirmer la théologie logocentrique qu’ils pouvaient contester d’autre part.
Jacques Derrida, Positions
Le contenu de la définition que Badiou donne de l’ontologie serait peut-être recevable pourvu qu’on réussisse à lui attribuer un sens compréhensible et précis en dehors du jargon idiosyncrasique de Badiou. Comme le dit Bouveresse :
Dans le cas des énoncés philosophiques, la question est donc moins de savoir s’ils n’ont pas de sens en eux-mêmes que de savoir si nous avons réussi et même simplement cherché à leur en donner un.
Finalement, selon nous, on ne peut peut-être pas parvenir à donner un sens à l’assertion selon laquelle les mathématiques sont l’ontologie. Cela pour au moins deux raisons: a) cette assertion est basée sur la position que est le nom propre de l’être-en-tant-qu’être, ce qui finit par signifier l’identification de (la dicibilité de) l’être-en-tant-qu’être avec (les propriétés mathématiques de) l’ensemble vide. Au début il y a la position selon laquelle l’être est ineffable en dehors de ses formes mathématiques, mais c’est une position jamais déclarée et qu’il faudrait éclaircir; b) l’ontologie et la métaphysique n’ont pas nécessairement à parler de la Différence Ontologique entre l’Être et les étants, à moins de vouloir poursuivre (mais alors pour quels fins?) la fabulation de Heidegger.
L’expression “être-en-tant-qu’être” devrait traduire le tò òn è òn aristotélicien. Comme le dit le philosophe analytique italien Achille Varzi :
dans un certain sens l’expression est vide [même si] il y a un sens dans lequel l’ontologie peut être raisonnablement définie comme la science de l’être en tant qu’être: elle s’occupe de ces propriétés générales et structurelles qui caractérisent tout ce qui existe, indépendamment de ce qui existe. Dans ce sens elle s’occupe de ce qui existe simplement en tant qu’il existe. Par exemple, les relations de dépendance ontologique qui subsistent entre les parties et le tout constituent un sujet d’enquête indépendamment de la nature des entités en question.
La thèse selon laquelle les mathématiques sont l’ontologie se fonde (et ne se fonde que) sur une redéfinition radicale, une paraphrase révolutionnaire, du sens du terme “ontologie”. Qu’en est-il alors de l’ontologie “réaliste” (anti-kantienne) qui s’occupe du monde empirique et des mondes possibles ?
Il résulte qu’il est impossible de discuter cette thèse sans employer le mot ontologie dans le même sens de Badiou. A moins d’accepter pleinement son jargon, il faut avouer que l’assertion « les mathématiques sont l’ontologie » est dépourvue de sens. Badiou n’a pas de raisons pour affirmer cette thèse si ce n’est son désir de traduire l’anti-métaphysique heideggérienne en des termes mathématiques dans le style lacanien.
La proposition « les mathématiques sont l’ontologie » est en effet proposée alternativement comme un “énoncé philosophique” , une “thèse” , une “hypothèse” , une “assertion” : c’est dire que, au moins au niveau terminologique, le statut assertif n’est pas clair. La seule chose que Badiou garantit est que cette proposition méta-ontologique est
rendue nécessaire par la situation actuelle cumulée des mathématiques (après Cantor, Gödel et Cohen) et de la philosophie (après Heidegger).
On nous permettra de douter que cette nécessité soit réelle. Si l’on accepte qu’il y a d’autres ontologies que celles de l’être-en-tant-qu’être, l’assertion les mathématiques sont l’ontologie n’est pas valable, ni au niveau descriptif ni au niveau prescriptif. Badiou a certes des raisons pour affirmer sa thèse, dans son propre jeu de langage, mais tout à fait relativement et sans aucune prétention de véridicité. Il affirme d’ailleurs avec clarté et honnêteté que
le mode propre sur lequel une philosophie convoque une expérience de pensée dans son espace conceptuel relève strictement, non de la loi supposée de l’objet, mais des objectifs et des opérateurs de cette philosophie elle-même.
Voici à titre d’exemple un passage qui affiche l’impossibilité d’argumenter la thèse "les mathématiques sont l’ontologie" :
Quelle que soit la prodigieuse diversité des «objets» et des structures mathématiques, ils sont tous désignables comme des multiplicités pures édifiées, de façon réglée, à partir du seul ensemble vide. La question de la nature exacte du rapport des mathématiques à l’être est donc entièrement concentrée – pour l’époque où nous sommes – dans la décision axiomatique qui autorise la théorie des ensembles (nous soulignons).
Le “donc” n’indique pas du tout une déduction valide: que la théorie des ensembles permette la transcription des mathématiques dans le langage ensembliste n’implique aucunement que les mathématiques “expriment l’être”, sauf à poser que ce qu’on appelle depuis Aristote l’être-en-tant-qu’être trouve une parfaite correspondance en mathématique par cet objet théorique qu’est l’ensemble vide (mais alors comment?).
Les mathématiques sont l’ontologie est une affirmation injustifiée au niveau théorique comme au niveau empirique et historique. Badiou prétend justifier sa position armé de la notion de décision (ou pensée) axiomatique:
Mais qu’est-ce qu’une pensée qui ne définit jamais ce qu’elle pense ? Qui donc ne l’expose jamais comme objet ? Une pensée qui même s’interdit de recourir, dans l’écriture qui l’enchaîne au pensable, à quelque nom que ce soit de ce pensable ? C’est, évidemment, une pensée axiomatique. Une pensée axiomatique saisit la disposition de termes non définis. Elle ne rencontre jamais ni une définition de ces termes ni une explicitation praticable de ce qui n’est pas eux. Les énoncés primordiaux d’une telle pensée exposent le pensable sans le thématiser .
Il nous semble que l’idée d’une pensée qui procède exclusivement par des termes non-définis soit complètement imaginaire (d’autant plus que Badiou définit plusieurs termes).
6. Ontologie et métaphysique analytiques.
En matière d’ontologie il n’y a pas que Heidegger. Il existe aussi une “métaphysique analytique”. Les philosophes analytiques et les cognitivistes ont en matière d’ontologie des idées bien différentes que celles de Badiou. Pour les philosophes analytiques qui ont essayé de “régimenter” le langage naturel (Quine) ou pour ceux qui ont étudié le langage commun (Austin, Searle) on ne peut pas proférer des phrases comme «le néant néantit», si ce n’est à l’intérieur d’un jeu de langage particulier qui correspond à une forme de vie particulière (le philosophe académique français).
Dans l’absence de critères de significations explicites et partagés il ne peut pas y avoir de signification, ni de signification philosophique possible, et l’ontologie peut se faire la fabula heideggérienne d’un Être oublié.
Qu’est-ce que c’est l’ontologie du point de vue analytique? Voici deux définitions possibles:
L’ontologie, en tant que branche de la philosophie, est la science de ce qui est, des types et des structures des objets, des propriétés, des événements, des processus et des relations qui ont lieu dans chaque région de la réalité. « Ontologie » est souvent employé par les philosophes comme synonyme de « métaphysique » [...]
Parfois « ontologie » est employé en un sens plus large, pour désigner l’étude de ce qui peut exister, lorsque « métaphysique » est employé pour l’étude de ce qui, parmi les différentes alternatives possibles, correspond à la réalité .
En effet, si la métaphysique [...] s’occupe fondamentalement de la nature ultime de tout ce qui existe, revient aussi à la métaphysique la tâche préliminaire d’établir qu’est-ce qui existe, ou du moins de fixer des critères pour établir ce que serait raisonnable d’inclure dans un inventaire précis du monde. La mise au point de tels critères définit justement la question ontologique [...] .
Ici ce n’est pas question d’être-en-tant-qu’être: l’ontologie est définie comme la science de ce qui existe. La philosophie analytique, que Badiou désigne comme le “tournant langagier” de la philosophie, enquête autour des propriétés des choses du monde réel et des mondes possibles. Ce qui implique que le réel ne soit pas “l’impossible” lacanien, mais un champ d’enquête pour cette discipline rigoureuse qu’est l’ontologie analytique.
Voici un petit catalogue, fourni par Kevin Mulligan, de questions propres de la métaphysique et de l’ontologie du point de vue analytique:
Qu'est-ce que c’est exister ?
Qu'est-ce que c’est une substance ?
Qu'est-ce que c’est un tout ?
Qu'est-ce que c’est une relation ?
Qu'est-ce que c’est la dépendance ?
Qu'est-ce que c’est la causalité ?
Qu'est-ce que c’est une propriété ?
Qu'est-ce que c’est un état ?
Qu'est-ce que c’est l’identité ?
Qu'est-ce que c’est un type ?
Qu'est-ce que c’est la survenance ?
Une ontologie qui enquête les «types d’objets et leurs structures, les propriétés, les événements, les procédures et les relations dans toute partie de la réalité » contraint à se procurer une doctrine du sensible.
Cela requerrait sans doute d’autres instruments philosophiques que ceux choisis par Badiou.
7. L’ontologie de Badiou entraîne beaucoup de problèmes relatifs à ce qui n’est pas mathématisable. L’exemple de la pensée.
Un point très insatisfaisant pour nous de la philosophie de Badiou est le fait qu’elle ne se prononce jamais sur la nature de la pensée et n’analyse pas suffisamment cette notion centrale de la philosophie.
L’ontologie-mathématique permettrait selon Badiou de choisir sa propre «orientation de/dans la pensée». L’oscillation entre les prépositions “de” et “dans” semble symptomatique du fait que Badiou ne décide pas sur la nature de la pensée. La pensée semble être un certain «dedans» (orientation de: la pensée a une orientation métaphorique vers des objets noétiques) et aussi un certain «dehors» (orientation dans: la pensée comme élément immatériel, finalement le même que l’être).
On comprend que dans le lexique conceptuel de Badiou l’orientation de/dans la pensée est l’origine des choix ontologiques, c'est-à-dire du choix, conscient ou inconscient, d’une ontologie-mathématique plutôt que d’une autre.
Quelques questions majeures se posent pourtant: 1) s’il existe quelque chose de semblable, qu'est-ce que c'est la pensée pour Badiou?; 1.bis) si ce n’est pas une chose mais un événement, quels sont les critères d’identités de cet événement particulier (différent de tout autre événement) que serait la pensée? ; 2) (si c’est bien une chose) quelles seraient les propriétés de la pensée? ; 3) qu'est-ce que ce serait une propriété de la pensée comme une orientation?
Voyons quelque possibilité de réponse.
1) Il est vrai que Badiou revendique pour une pensée “axiomatique” le droit de ne pas définir ce qu’elle pense, mais la notion de pensée reste ainsi bien mystérieuse. Une citation peut nous orienter dans la théorie implicite de Badiou sur la pensée:
Une pensée n’est rien d’autre que le désir d’en finir avec l’exorbitant excès de l’état (...) La pensée est, proprement, ce que la dé-mesure [entre un ensemble et l’ensemble de ses parties], ontologiquement attestée, ne peut satisfaire. L’insatisfaction, cette loi historique de la pensée dont la cause gît où l’être n’est plus exactement dicible, se donne communément dans trois grandes tentatives de parer à l’excès (...) Car c’est bien, dans le désir qu’est la pensée, de l’injustice innombrable de l’état qu’il est question.
Que la pensée soit un désir, ce n’est qu’une métaphore. Il nous semble bien difficile pour un philosophe contemporain de ne pas se confronter avec les connaissances scientifiques actuelles en matière d’esprit et de cerveau, lorsqu’on parle de pensée en philosophie. Badiou ne se confronte pas du tout avec la philosophie contemporaine de l’esprit, ce qui rend sa théorie de la pensée assez idiosyncrasique, métaphorique, anti-scientifique, incompréhensible ou impossible à souscrire.
Pour une ontologie analytique, soit la pensée n’est rien, soit elle est une chose ou une propriété ou un événement.
Même voulant rester à l’intérieur du système de Badiou, on peut se demander si la pensée, dans le cas où elle est une chose, fait partie du monde ou pas, c’est-à-dire si c’est une chose sensible ou une chose abstraite.
Si la pensée faisait partie du monde sensible, ni l’ontologie-mathématique ni la méta-ontologie de Badiou ne pourraient pas en traiter, la première ne prononçant que, la seconde ne se prononçant que sur, les formes de l’être-en-tant-qu’être, et non pas sur les étants.
Dans cette perspective, étant donné qu’il n’a pas d’indices pour imaginer que pour Badiou la pensée soit une chose abstraite comme un nombre ou une propriété, elle deviendrait probablement quelque chose comme une condition de pensabilité-dicibilité du monde, donc un transcendantal, atteint par l’ineffabilité propre des transcendantaux kantiens.
1.2) Si la pensée était un événement, il faudrait poser la question de ses critères d’identification, comme le fait Slavoj Zizek dans son The Ticklish Subject. The Absent Centre of Political Ontology. Comment distinguer un événement d’un non-événement qui pourrait être proclamé tel par quelque pseudo-sujet événementiel?
La réponse ici semble simple : le véritable événement est celui qui “troue le Savoir”, comme le dit Badiou, ou qui bouleverse la situation cognitive établie dans un système humain quelconque, dirions nous. Mais est-ce si simple? Gênes 2001 a-t-il été un événement ou pas? Et que dire du 11 septembre?
En tout cas on ne voit pas bien ou nous amènerait suivre cette direction pour décider que la pensée chez Badiou a le statut d’événement...
2) D’ailleurs Badiou doit avoir au moins une théorie sur les propriétés de la pensée, car il la dit “unique”:
Il est à mon sens erroné de dire que deux orientations différentes prescrivent deux mathématiques différentes, soit deux pensées différentes. C’est à l’intérieur d’une pensée unique que s’affrontent les orientations.
Mais en sus de son unicité la pensée a d’autres propriété ou est-elle ce que J.C. Milner appelle une «pensée sans qualité» ? Pourquoi ne pas s’attarder sur la nature de l’unicité de la pensée? Cette notion posée comme intuitive (Badiou ne l’explique pas du tout), si elle était expliquée nous permettrait sans doute de supposer que Badiou n’est pas loin de croire à la réalité de quelque chose comme un “langage de l’esprit” à la Jerry Fodor, Steven Pinker et d’autres cognitivistes. Cette hypothèse nous permettrait peut-être de confronter le discours de Badiou avec celui des sciences cognitives. Cela nous semblerait très intéressant. Mais le discours de Badiou devrait pouvoir se confronter (si ce n’est aux sciences de la nature) au moins au monde sensible et à la sphère intentionnelle, bannie par Badiou, et rien n’est moins certain que cette confrontation soit possible (ni même désirée par Badiou).
Avec l’affirmation parménidienne, tardive et quelque peu étonnante (vu son matérialisme dialectique mathématisé des années soixante-dix), selon laquelle l’être est le même que la pensée , c’est comme si Badiou renonçait à jamais à formuler des propositions empiriquement contrôlables qui se référeraient à la pensée.
3) A propos de son orientation, Badiou attribue à la pensée trois directions possibles : a) une orientation “grammairienne ou programmatique”, b) une “doctrine déployée des indiscernables”, c) une “logique de la transcendance”. Ces trois orientations de la pensée sont justifiées de façon non-empirique , et elles se trouvent en correspondance, respectivement, avec
la doctrine des ensembles constructibles, créée par Gödel et raffinée par Jensen [...] la doctrine des ensembles génériques, créée par Cohen [...] la doctrine des grands cardinaux, à laquelle ont contribué tous les spécialistes de la théorie des ensembles. [Badiou trouve aussi des correspondances, respectivement, avec la philosophie de Leibniz, celle de Rousseau et] toute la métaphysique classique [...] fût-ce sous le mode de l’eschatologie communiste.
Dans le Court traité d’ontologie transitoire la théorie des orientations de la pensée est reprise avec plus de clarté:
Il faudrait donc disposer d’une théorie des orientations dans la pensée, comme territoire réel de ce qui peut activer la pensée mathématique comme pensée. (…) Ces orientations sont l’orientation constructiviste, l’orientation transcendante, l’orientation générique.
La première norme l’existence par des constructions explicites et, en définitive, subordonne le jugement d’existence à des protocoles langagiers finis et contrôlables. Disons que toute existence se soutient d’un algorithme, qui permet d’atteindre effectivement un cas de ce dont il s’agit.
La deuxième, la transcendante, norme l’existence par l’admission de ce qu’on peut appeler une surexistence, ou un point de bouclage hiérarchique qui dispose en deçà de lui-même l’univers de tout ce qui existe. Disons que, cette fois, toute existence s’inscrit dans une totalité qui lui assigne une place.
La troisième pose que l’existence est sans norme, sinon la consistance discursive. Elle privilégie les zones indéfinies, les multiples soustraits à toute récollection prédicative, les points d’excès et les donations soustractives. Disons que toute existence est prise dans une errance qui fait diagonale pour les montages supposés la surprendre.
On a l’impression de comprendre, mais, au juste, après tout qu'est-ce que c'est une orientation de la pensée?
Dans le Court traité Badiou propose une pseudo-définition: une orientation de la pensée serait
une norme immanente qui ne constitue pas la pensée, mais l’oriente. Nous appellerons orientation dans la pensée ce qui règle dans cette pensée les assertions d’existence. Soit ce qui, formellement, autorise l’inscription d’un quantificateur existentiel en tête d’une formule qui fixe les propriétés qu’on suppose à une région d’être. Ou ce qui, ontologiquement, fixe l’univers de la présentation pure du pensable. Une orientation dans la pensée s’étend non seulement aux assertions fondatrices, ou aux axiomes, mais aussi aux protocoles démonstratifs, dès que leur enjeu est existentiel (nous soulignons).
Ce n’est pas une véritable définition car Badiou dit, de façon parfaitement circulaire, qu’une orientation dans la pensée est ce qui oriente la pensée. Est-ce cela qu’entend Badiou disant qu’une pensée axiomatique ne définit pas ses termes? Pourtant il y a bien quelque chose comme une définition négative: une orientation de la pensée est «une norme immanente qui ne constitue pas la pensée». Or, les normes constitutives étant celles qu’on ne peut pas transgresser par définition: par exemple, dans le jeux des échecs le cheval ne peut pas bouger comme la reine, et le joueur qui l’ignore ne pourrait pas jouer au même jeu. La pensée pour Badiou serait donc quelque chose qui ne pourrait pas avoir affaire à des normes constitutives mais bien à des normes non-constitutives, parmi lesquelles il y aurait les orientations? On en sait rien.
Les réponses à ces questions seraient liées à la théorie badiousienne de la pensée, sauf que cette théorie n’est pas explicitée.
Conclusion.
La dernière parole parménidienne de Badiou selon laquelle l’être est le même que la pensée nous laisse soupçonner que le discours badiousien est en train de devenir de plus en plus clos, et qu’à sa mise entre parenthèses du monde ontique s’ajoute désormais la suspension volontaire d’un concept et d’un sens transmissibles de la pensée (comme de la philosophie).
Nous avons voulu parcourir quelques lieux de l’ouvrage très riche et complexe de notre philosophe. Nous savons que notre reconstruction de ce système de pensée n’a pas beaucoup de chances pour ne pas déplaire aux interprètes plus proches de Badiou, parmi lesquels nous avons été quelque temps, sans doute de façon inadéquate. Pourtant il nous semblait important de faire voir qu’en dépit de plusieurs éléments intéressants, à notre avis, de cette philosophie, l’architecture globale reste gravement affaiblie par une fondation inconsistante d’origine ouvertement lacanienne.
D’après Robert Nozick les systèmes philosophiques peuvent ressembler soit à une tour à la fondation mince et friable (on construit sur les intuitions philosophiques initiales comme si tout devait être déduit du Principe), soit à un temple grec comme le Parthénon, dont les colonnes sont les différentes intuitions sur lesquelles on bâtit une architrave de propositions philosophiques qui peuvent rester valables et intéressantes même après l’écroulement de certaines parties du temple. Des propositions de quelque façon déliées de la prétendue fondation.
Or, prolongeant cette belle image, il nous semble que le système de Badiou ressemblerait à une sorte de pyramide puissante et solide mais, hélas, entièrement bâtie sur un seul point presque inexistant.
Ça ne doit pas être un hasard si pour Badiou le réel est justement un point impossible.
Sono saltate le note a pié di pagina e scomparsi i simboli matematici. Prima o poi rimedierò.
1. Le discours philosophique de Badiou est totalement déterminé par la figure de Heidegger
Il faut être formblind pour penser que l’ontologie heideggérienne soit, dans un sens quelconque, fondamentale.
(Mulligan K., Métaphysique et ontologie)
Alain Badiou a posé au commencement de L’être et l’événement que «Heidegger est le dernier philosophe universellement reconnaissable» (p.7) et que «"l’ontologie" philosophique contemporaine est entièrement dominée par le nom de Heidegger» (p.15). Il reçoit ainsi comme acquise la filiation heideggérienne propre d’une grande partie de la philosophie dite “continentale”.
Il est vrai que selon Badiou il faudrait dépasser Heidegger, dont le style de pensée resterait pris dans le régime poétique, un régime somme toute fondé sur la présence en dépit du projet anti-métaphysique du philosophe allemand.
Mais, faisant de Heidegger le dernier Philosophe de ce qu’il appelle le “référentiel contemporain”, c’est-à-dire le paradigme philosophique dominant, Badiou ne s’éloigne pas des confins de ce qu’il appelle lui-même l’historicisme de la philosophie. A ce propos, dans Conditions il a affirmé que :
1. La philosophie est aujourd’hui paralysée par le rapport à sa propre histoire.
Cette paralysie résulte de ce que, examinant philosophiquement l’histoire de la philosophie, nos contemporains sont presque tous d’accord pour dire que cette histoire est entrée dans l’époque, peut-être interminable, de sa clôture. (...) Ou alors la philosophie n’est justement plus que sa propre histoire, elle devient le musée d’elle-même. (...) L’idée dominante est que la métaphysique est historiquement épuisée, mais que l’au-delà de cet épuisement ne nous est pas encore donné. (...)
2. La philosophie doit rompre, de l’intérieur d’elle-même, avec l’historicisme.
Rompre avec l’historicisme, quel est le sens de cette injonction ? Nous voulons dire que la présentation philosophique doit s’autodéterminer initialement sans référence à son histoire. Elle doit avoir l’audace de présenter ses concepts sans les faire préalablement comparaître devant le tribunal de leur moment historique .
On pourrait consentir avec Badiou si l’on référait ce diagnostic à la philosophie continentale. La philosophie analytique, au contraire, se caractérise par un rapport tout d’abord théorique aux concepts et aux problèmes philosophiques, l’histoire des idées n’étant pas méconnue ni refoulée, mais ne bornant pas la liberté d’analyse théorique des concepts et des problèmes philosophiques. Cela nous semble suffisant pour admettre que “la philosophie” ne se trouve pas dans la nécessité de sortir ni de l’historicisme, ni de la métaphysique. Les affirmations “épocales” à ce propos ne sont que l’effet d’un certain style de pensée philosophique, dont les propositions peuvent bien être évaluées à la lumière de quelques critères de vérité.
Or, si Heidegger posait que la métaphysique coïnciderait avec l’oubli de l’être dont on peut encore espérer sortir par la voie poétique, Badiou n’accepte pas cette position du Dernier Philosophe:
Heidegger pense que nous sommes historialement régis par l’oubli de l’être, et même par l’oubli de cet oubli. Je proposerai pour ma part un violent oubli de l’histoire de la philosophie, donc un violent oubli de tout le montage historial de l’oubli de l’être .
Il faut oublier Heidegger, et avec violence. Pour dépasser l’historicisme philosophique fondé sur le langage poétique et sur le privilège de la présence, Badiou déclare que : a) les mathématiques sont l’ontologie ; b) le nom propre de l’être-en-tant-qu’être est l’ensemble vide.
Fixons tout de suite le fait qu’il s’agit de deux postulats méta-ontologiques.
2. La thèse : les mathématiques sont l’ontologie, est méta-ontologique. Elle ne vise pas le monde mais le discours
Au moins jusqu’à L’être et l’événement, Badiou renonçait explicitement au discours philosophique sur le monde:
La thèse que je soutiens ne déclare nullement que l’être est mathématique, c'est-à-dire composé d’objectivités mathématiques. C’est une thèse non sur le monde, mais sur le discours. Elle affirme que les mathématiques, dans tout leur devenir historique, prononcent ce qui est dicible de l’être-en-tant-qu’être (nous soulignons).
Ce qui peut être dit dans le domaine ontologique peut se dire en mathématiques. L’“onto-mathématique” remplace le langage naturel, et même celui artificiel, dans l’expression de ce qui est dicible de l’être-en-tant-qu’être. Badiou ne s’engage pas dans la thèse selon laquelle l’être serait intrinsèquement mathématique, mais l’effet rhétorique de son discours est souvent celui de laisser oublier au lecteur que ce dont on parle est le discours ontologique, donc la mathématique, et nullement le monde en soi.
Mais quel est, à l’intérieur du système de pensée de Badiou, le rapport entre le discours méta-ontologique (la philosophie) et le monde (réel), entre l’ontologie (les mathématiques) et le monde, et finalement entre l’ontologie et la méta-ontologie? Finalement, la relation entre l’ontologique et l’ontique, entre le langage formel mathématique et le monde, à l’intérieur du système de Badiou reste une question mystérieuse.
Mais ce ne peut pas être un hasard le fait que Badiou n’affronte pas cette question par lui-même. Badiou ne s’engage nullement dans une analytique du Dasein heideggérien et de son être au monde . Il y a chez notre philosophe quelque chose comme un refoulement de l’ontique, de l’empirique, et nous croyons que l’on n’a pas suffisamment remarqué cette question philosophique, à notre avis évidente et majeure.
3. L’être-en-tant-qu’être et l’ensemble vide
On peut soutenir que l’expression aristotélicienne à la base de l’histoire de la métaphysique, “être-en-tant-qu’être”, n’a pas de sens, du moins si on ne s’explique pas sur la référence de l’expression, commençant par “être”.
Depuis Quine, ce qu’on pourrait appeler la “déontologie de l’ontologie” prévoit qu’on déclare sur quoi on est disposé à quantifier .
Selon la suggestion du philosophe analytique italien Achille Varzi , si l’on pose que pour tous les êtres il y a des propriétés p telles que tous les êtres les possèdent, on pourrait se référer à ces propriétés générales avec l’expression “être-en-tant-qu’être”.
Lisant L’être et l’événement on peut comprendre que l’être-en-tant-qu’être est pour Badiou le fondement des portions des situations structurées qui constituent la texture générale de tout exprimable individualisé par l’“opération” du compte-pour-un . Tout ce qui est, est consistant et son identité est déterminée. “Etre” signifie “être-un”, mais comme l’un n’existe pas (cfr. infra, §4) être signifie être “compté-pour-un”, être intentionné comme un tout. “Avant” d’être compté-pour-un, ce qui apparaît n’est qu’un ensemble (multiple) inconsistant, (encore) sans identité.
C’est la façon de Badiou d’installer dans sa philosophie l’ontologie du non-étant propre de Lacan , en tant que doctrine capable de visualiser une (imaginaire) pré-situation ontologique en amont de l’apparaître des étants. Mais cette ontologie de l’absence des entia, ou “mé-ontologie”, est une ontologie seulement possible et la poser en forme de système d’axiomes ne suffit pas à lui conférer une force universelle.
D’après nous les problèmes philosophiques liés au verbe “être” doivent tout d’abord subir une analyse grammaticale. Suivant Carnap, les distinctions fondamentales à faire sont les suivantes:
[“être”] joue tantôt le rôle de copule pour un prédicat (je suis affamé), tantôt celui d’indicateur d’existence («je suis»). (...) la forme du verbe pris dans sa seconde acception, celle de l’existence (...) produit l’illusion d’un prédicat, là où il n’y en a pas. Or, on sait depuis longtemps que l’existence n’est pas un caractère attributif (...) La forme logique dans laquelle [la logique moderne] introduit le signe de l’existence est telle que ce signe ne peut pas se rapporter à des signes d’objets comme peut le faire un prédicat, il ne peut se rapporter qu’à un prédicat (...). Un énoncé existentiel n’est pas dans la forme «a existe» (...) mais: «il existe une chose dont la nature est telle ou telle» .
Premièrement, donc, il faut distinguer «être» comme marque d’existence et comme copule. Deuxièmement, en sus du verbe être (i) la langue française dispose d’un substantif l’étant (ii) et d’un autre substantif l’être (iii). Il faut fixer que Badiou parle toujours de l’être dans cette troisième acception, ce qui est dans le sillage de l’orthodoxie heideggérienne.
Or, pour Badiou l’être est formalisé par la marque de l’ensemble vide: “”. Badiou n’argumente pas la rationalité de cette formalisation qui pourtant implique une portée ontologique de la formalisation même. On perçoit vaguement qu’au fondement de cette idée il y a une analogie entre l’ensemble vide mathématique et l’être-en-tant-qu’être (qui dans la perspective heideggérienne est l’être-qui-n’est-pas-l’être-des-étants). Mais si la thèse « est le nom propre de l’être» sur laquelle se fonde le système de Badiou nous paraissait dépourvue de sens?
En effet, si l’expression “être-en-tant-qu’être” signifiait quelque chose, il faudrait pourtant justifier pourquoi se référer à cette signification avec un symbole mathématique qui n’a pas de signification en dehors du formalisme mathématique. Ce couplage du symbolisme mathématique avec l’ontologie d’origine aristotélicienne n’est pas soutenu par des arguments explicites.
Badiou ne dit pas que l’ensemble vide serait l’être, ce qui ferait apparaître clairement le non-sens de la thèse. Mais de toute façon parler du “nom propre” de l’être (“être” dans notre acception iii) ne va pas de soi. La marque de l’ensemble vide () est prise ici dans sa suppositio materialis pour en proclamer la référence à l’être (iii) pris, lui, dans sa suppositio formalis. C’est une stratégie de pensée quelque peu rusée, car il n’y a pas de vrai glissement entre le denotans et le denotatum , mais on ne s’efforce pas d’empêcher l’illusion qu’il y en ait un et qu’il soit considéré valable (comme si Badiou disait que l’ensemble vide est l’être ou que l’être est l’ensemble vide). En effet l’être n’est pas l’ensemble vide, ce qui laisserait complètement ouverte la question de ce que c’est l’être. Badiou ne s’en occupe pas, il ne s’occupe que de son nom propre.
4. L’Un et le rien
Dans L’être et l’événement deux pseudo-arguments sont invoqués en support de la thèse que serait le nom propre de l’être.
a) «Il n’y a pas d’un» : Badiou argumente que l’unité et l’identité de chaque étant n’est qu’un effet ontologique de ce qu’il appelle le compte-pour-un:
il n’est cependant pas question de céder sur ce que Lacan épingle au symbolique comme son principe: il y a de l’un. (...) Ce qu’il faut énoncer c’est que l’un, qui n’est pas, existe seulement comme opération. Ou encore : il n’y a pas d’un, il n’y a que le compte-pour-un. [...] Il convient de prendre tout à fait au sérieux que «un» soit un nombre. Et, sauf à pythagoriser, il n’y a pas de lieu de poser que l’être, en tant qu’être, soit nombre.
«L’un n’est pas» et «il n’y a pas d’un» ne sont pas des propositions douées de sens: “un”, en tant que substantif, est un nom de nombre naturel, et la grammaire (au sens de Wittgenstein) d’un nom de nombre ne supporte pas une prédication d’existence si ce n’est à l’intérieur d’une ontologie pythagoricienne, explicitement refusée par Badiou. A propos de ce genre de problèmes syntaxiques, Carnap proposait d’adopter une “théorie des types” dans une langue artificielle correcte afin d’éliminer d’emblée la possibilité de former des “simili-énoncés” comme «César est un nombre premier».
b) Le deuxième argument vise le néant. Badiou soutient la dicibilité d’un certain type de rien. Réellement il n’y a pas du néant, mais il y en a au niveau formel, car le néant est désigné par une forme mathématique:
(…) l’être-rien se distingue tout autant du non-être que le « il y a » se distingue de l’être. (…) il y a un être du rien, en tant que forme de l’imprésentable.
D’après nous opposer “l’être-rien” et “le non-être” ce n’est qu’un jeu linguistique philosophique, un jargon dépourvu de sens non-philosophique. “Etre-rien” est une expression dépourvue de sens précis, si ce n’est le même que n’avoir pas de propriétés dicibles. Le seul sens non rigoureux que nous pouvons y attribuer est du genre mystique : cela n’est pas méprisable en soi mais il nous semble que pour le valider il faudrait un contexte philosophique et rhétorique différent de celui de Badiou.
L’expression (dépourvue de sens) “le non-être”, n’est que la susbtantivation d’une négation apposée au substantif “l’être” (dans notre acception iii). Depuis Parménide l’on sait qu’il y a ici un danger pour l’analyse. Non-être est une expression équivalente à néant. Et, comme le reprochait Carnap à Heidegger, il y a une erreur
qui consiste à prendre le mot «Néant» pour le nom d’un objet, parce qu’on l’utilise sous cette forme dans la langue usuelle pour formuler un énoncé existentiel négatif (...). En revanche dans une langue correcte on obtient le même but, en se servant non pas d’un nom particulier, mais d’une forme logique spécifique de l’énoncé.
Un commentaire de Quine sur le terme “rien” nous semble présenter le problème le plus clairement possible:
Un terme singulier indéfini dont l’ambiguïté a spécialement invité à la confusion, réelle et feinte, est «rien» ou «personne». Comme boutade terne, la formule est assez familière, ainsi dans la chanson de Gershwin «j’ai une abondance de rien» [...] ou dans ce passage de Lewis Carroll: «J’ai dépassé personne dans la rue – Alors personne marche plus lentement que vous». Locke lui-même, si nous admettons l’interprétation peu généreuse de la part de Hume, serait tombé sans rire dans la même confusion lorsqu’il a défendu le principe universel de causalité, en arguant que, si un événement manque de cause, il doit avoir «rien» pour cause, ce qui ne peut pas être une cause. Heidegger, si nous pouvons le lire de manière littérale, a été abusé par la même confusion dans sa déclaration «Das Nichts nichtet». Et Platon, paraît avoir eu des difficultés avec Parménide au sujet de ce petit sophisme.
Ce qui est troublant au sujet du terme singulier indéfini «rien», c’est sa tendance à prendre le masque d’un terme défini.
On ne peut donc pas savoir, du moins si on ne définit pas des critères de signification (que Badiou ne définit pas) ce que c’est que “l’imprésentable”, et donc sa forme.
Les arguments a) et b), essentiels au dispositif de L’être et l’événement, ne respectent donc pas la grammaire naturelle des termes “un” et “rien” : on pourrait fixer une grammaire artificielle pour des raisons stylistiques mais alors il faudrait les énoncer pour se faire comprendre.
L’argument b) est celui qui porte le poids majeur: faire de le nom de l’être-en-tant-qu’être permet le déploiement du discours méta-ontologique de L’être et l’événement.
La thèse "les mathématiques sont l’ontologie" est donc fondée sur la position invérifiable (car soustraite à toutes questions de sens empiriquement contrôlable) de ce qu’on pourrait appeler le sens de l’être de l’ensemble vide .
5. En tout cas les mathématiques ne sont pas l’ontologie
Il faut se méfier de la face «naïve» du formalisme et du mathématisme, dont l’une des fonctions secondaires a été, ne l’oublions pas, dans la métaphysique, celle de compléter et de confirmer la théologie logocentrique qu’ils pouvaient contester d’autre part.
Jacques Derrida, Positions
Le contenu de la définition que Badiou donne de l’ontologie serait peut-être recevable pourvu qu’on réussisse à lui attribuer un sens compréhensible et précis en dehors du jargon idiosyncrasique de Badiou. Comme le dit Bouveresse :
Dans le cas des énoncés philosophiques, la question est donc moins de savoir s’ils n’ont pas de sens en eux-mêmes que de savoir si nous avons réussi et même simplement cherché à leur en donner un.
Finalement, selon nous, on ne peut peut-être pas parvenir à donner un sens à l’assertion selon laquelle les mathématiques sont l’ontologie. Cela pour au moins deux raisons: a) cette assertion est basée sur la position que est le nom propre de l’être-en-tant-qu’être, ce qui finit par signifier l’identification de (la dicibilité de) l’être-en-tant-qu’être avec (les propriétés mathématiques de) l’ensemble vide. Au début il y a la position selon laquelle l’être est ineffable en dehors de ses formes mathématiques, mais c’est une position jamais déclarée et qu’il faudrait éclaircir; b) l’ontologie et la métaphysique n’ont pas nécessairement à parler de la Différence Ontologique entre l’Être et les étants, à moins de vouloir poursuivre (mais alors pour quels fins?) la fabulation de Heidegger.
L’expression “être-en-tant-qu’être” devrait traduire le tò òn è òn aristotélicien. Comme le dit le philosophe analytique italien Achille Varzi :
dans un certain sens l’expression est vide [même si] il y a un sens dans lequel l’ontologie peut être raisonnablement définie comme la science de l’être en tant qu’être: elle s’occupe de ces propriétés générales et structurelles qui caractérisent tout ce qui existe, indépendamment de ce qui existe. Dans ce sens elle s’occupe de ce qui existe simplement en tant qu’il existe. Par exemple, les relations de dépendance ontologique qui subsistent entre les parties et le tout constituent un sujet d’enquête indépendamment de la nature des entités en question.
La thèse selon laquelle les mathématiques sont l’ontologie se fonde (et ne se fonde que) sur une redéfinition radicale, une paraphrase révolutionnaire, du sens du terme “ontologie”. Qu’en est-il alors de l’ontologie “réaliste” (anti-kantienne) qui s’occupe du monde empirique et des mondes possibles ?
Il résulte qu’il est impossible de discuter cette thèse sans employer le mot ontologie dans le même sens de Badiou. A moins d’accepter pleinement son jargon, il faut avouer que l’assertion « les mathématiques sont l’ontologie » est dépourvue de sens. Badiou n’a pas de raisons pour affirmer cette thèse si ce n’est son désir de traduire l’anti-métaphysique heideggérienne en des termes mathématiques dans le style lacanien.
La proposition « les mathématiques sont l’ontologie » est en effet proposée alternativement comme un “énoncé philosophique” , une “thèse” , une “hypothèse” , une “assertion” : c’est dire que, au moins au niveau terminologique, le statut assertif n’est pas clair. La seule chose que Badiou garantit est que cette proposition méta-ontologique est
rendue nécessaire par la situation actuelle cumulée des mathématiques (après Cantor, Gödel et Cohen) et de la philosophie (après Heidegger).
On nous permettra de douter que cette nécessité soit réelle. Si l’on accepte qu’il y a d’autres ontologies que celles de l’être-en-tant-qu’être, l’assertion les mathématiques sont l’ontologie n’est pas valable, ni au niveau descriptif ni au niveau prescriptif. Badiou a certes des raisons pour affirmer sa thèse, dans son propre jeu de langage, mais tout à fait relativement et sans aucune prétention de véridicité. Il affirme d’ailleurs avec clarté et honnêteté que
le mode propre sur lequel une philosophie convoque une expérience de pensée dans son espace conceptuel relève strictement, non de la loi supposée de l’objet, mais des objectifs et des opérateurs de cette philosophie elle-même.
Voici à titre d’exemple un passage qui affiche l’impossibilité d’argumenter la thèse "les mathématiques sont l’ontologie" :
Quelle que soit la prodigieuse diversité des «objets» et des structures mathématiques, ils sont tous désignables comme des multiplicités pures édifiées, de façon réglée, à partir du seul ensemble vide. La question de la nature exacte du rapport des mathématiques à l’être est donc entièrement concentrée – pour l’époque où nous sommes – dans la décision axiomatique qui autorise la théorie des ensembles (nous soulignons).
Le “donc” n’indique pas du tout une déduction valide: que la théorie des ensembles permette la transcription des mathématiques dans le langage ensembliste n’implique aucunement que les mathématiques “expriment l’être”, sauf à poser que ce qu’on appelle depuis Aristote l’être-en-tant-qu’être trouve une parfaite correspondance en mathématique par cet objet théorique qu’est l’ensemble vide (mais alors comment?).
Les mathématiques sont l’ontologie est une affirmation injustifiée au niveau théorique comme au niveau empirique et historique. Badiou prétend justifier sa position armé de la notion de décision (ou pensée) axiomatique:
Mais qu’est-ce qu’une pensée qui ne définit jamais ce qu’elle pense ? Qui donc ne l’expose jamais comme objet ? Une pensée qui même s’interdit de recourir, dans l’écriture qui l’enchaîne au pensable, à quelque nom que ce soit de ce pensable ? C’est, évidemment, une pensée axiomatique. Une pensée axiomatique saisit la disposition de termes non définis. Elle ne rencontre jamais ni une définition de ces termes ni une explicitation praticable de ce qui n’est pas eux. Les énoncés primordiaux d’une telle pensée exposent le pensable sans le thématiser .
Il nous semble que l’idée d’une pensée qui procède exclusivement par des termes non-définis soit complètement imaginaire (d’autant plus que Badiou définit plusieurs termes).
6. Ontologie et métaphysique analytiques.
En matière d’ontologie il n’y a pas que Heidegger. Il existe aussi une “métaphysique analytique”. Les philosophes analytiques et les cognitivistes ont en matière d’ontologie des idées bien différentes que celles de Badiou. Pour les philosophes analytiques qui ont essayé de “régimenter” le langage naturel (Quine) ou pour ceux qui ont étudié le langage commun (Austin, Searle) on ne peut pas proférer des phrases comme «le néant néantit», si ce n’est à l’intérieur d’un jeu de langage particulier qui correspond à une forme de vie particulière (le philosophe académique français).
Dans l’absence de critères de significations explicites et partagés il ne peut pas y avoir de signification, ni de signification philosophique possible, et l’ontologie peut se faire la fabula heideggérienne d’un Être oublié.
Qu’est-ce que c’est l’ontologie du point de vue analytique? Voici deux définitions possibles:
L’ontologie, en tant que branche de la philosophie, est la science de ce qui est, des types et des structures des objets, des propriétés, des événements, des processus et des relations qui ont lieu dans chaque région de la réalité. « Ontologie » est souvent employé par les philosophes comme synonyme de « métaphysique » [...]
Parfois « ontologie » est employé en un sens plus large, pour désigner l’étude de ce qui peut exister, lorsque « métaphysique » est employé pour l’étude de ce qui, parmi les différentes alternatives possibles, correspond à la réalité .
En effet, si la métaphysique [...] s’occupe fondamentalement de la nature ultime de tout ce qui existe, revient aussi à la métaphysique la tâche préliminaire d’établir qu’est-ce qui existe, ou du moins de fixer des critères pour établir ce que serait raisonnable d’inclure dans un inventaire précis du monde. La mise au point de tels critères définit justement la question ontologique [...] .
Ici ce n’est pas question d’être-en-tant-qu’être: l’ontologie est définie comme la science de ce qui existe. La philosophie analytique, que Badiou désigne comme le “tournant langagier” de la philosophie, enquête autour des propriétés des choses du monde réel et des mondes possibles. Ce qui implique que le réel ne soit pas “l’impossible” lacanien, mais un champ d’enquête pour cette discipline rigoureuse qu’est l’ontologie analytique.
Voici un petit catalogue, fourni par Kevin Mulligan, de questions propres de la métaphysique et de l’ontologie du point de vue analytique:
Qu'est-ce que c’est exister ?
Qu'est-ce que c’est une substance ?
Qu'est-ce que c’est un tout ?
Qu'est-ce que c’est une relation ?
Qu'est-ce que c’est la dépendance ?
Qu'est-ce que c’est la causalité ?
Qu'est-ce que c’est une propriété ?
Qu'est-ce que c’est un état ?
Qu'est-ce que c’est l’identité ?
Qu'est-ce que c’est un type ?
Qu'est-ce que c’est la survenance ?
Une ontologie qui enquête les «types d’objets et leurs structures, les propriétés, les événements, les procédures et les relations dans toute partie de la réalité » contraint à se procurer une doctrine du sensible.
Cela requerrait sans doute d’autres instruments philosophiques que ceux choisis par Badiou.
7. L’ontologie de Badiou entraîne beaucoup de problèmes relatifs à ce qui n’est pas mathématisable. L’exemple de la pensée.
Un point très insatisfaisant pour nous de la philosophie de Badiou est le fait qu’elle ne se prononce jamais sur la nature de la pensée et n’analyse pas suffisamment cette notion centrale de la philosophie.
L’ontologie-mathématique permettrait selon Badiou de choisir sa propre «orientation de/dans la pensée». L’oscillation entre les prépositions “de” et “dans” semble symptomatique du fait que Badiou ne décide pas sur la nature de la pensée. La pensée semble être un certain «dedans» (orientation de: la pensée a une orientation métaphorique vers des objets noétiques) et aussi un certain «dehors» (orientation dans: la pensée comme élément immatériel, finalement le même que l’être).
On comprend que dans le lexique conceptuel de Badiou l’orientation de/dans la pensée est l’origine des choix ontologiques, c'est-à-dire du choix, conscient ou inconscient, d’une ontologie-mathématique plutôt que d’une autre.
Quelques questions majeures se posent pourtant: 1) s’il existe quelque chose de semblable, qu'est-ce que c'est la pensée pour Badiou?; 1.bis) si ce n’est pas une chose mais un événement, quels sont les critères d’identités de cet événement particulier (différent de tout autre événement) que serait la pensée? ; 2) (si c’est bien une chose) quelles seraient les propriétés de la pensée? ; 3) qu'est-ce que ce serait une propriété de la pensée comme une orientation?
Voyons quelque possibilité de réponse.
1) Il est vrai que Badiou revendique pour une pensée “axiomatique” le droit de ne pas définir ce qu’elle pense, mais la notion de pensée reste ainsi bien mystérieuse. Une citation peut nous orienter dans la théorie implicite de Badiou sur la pensée:
Une pensée n’est rien d’autre que le désir d’en finir avec l’exorbitant excès de l’état (...) La pensée est, proprement, ce que la dé-mesure [entre un ensemble et l’ensemble de ses parties], ontologiquement attestée, ne peut satisfaire. L’insatisfaction, cette loi historique de la pensée dont la cause gît où l’être n’est plus exactement dicible, se donne communément dans trois grandes tentatives de parer à l’excès (...) Car c’est bien, dans le désir qu’est la pensée, de l’injustice innombrable de l’état qu’il est question.
Que la pensée soit un désir, ce n’est qu’une métaphore. Il nous semble bien difficile pour un philosophe contemporain de ne pas se confronter avec les connaissances scientifiques actuelles en matière d’esprit et de cerveau, lorsqu’on parle de pensée en philosophie. Badiou ne se confronte pas du tout avec la philosophie contemporaine de l’esprit, ce qui rend sa théorie de la pensée assez idiosyncrasique, métaphorique, anti-scientifique, incompréhensible ou impossible à souscrire.
Pour une ontologie analytique, soit la pensée n’est rien, soit elle est une chose ou une propriété ou un événement.
Même voulant rester à l’intérieur du système de Badiou, on peut se demander si la pensée, dans le cas où elle est une chose, fait partie du monde ou pas, c’est-à-dire si c’est une chose sensible ou une chose abstraite.
Si la pensée faisait partie du monde sensible, ni l’ontologie-mathématique ni la méta-ontologie de Badiou ne pourraient pas en traiter, la première ne prononçant que, la seconde ne se prononçant que sur, les formes de l’être-en-tant-qu’être, et non pas sur les étants.
Dans cette perspective, étant donné qu’il n’a pas d’indices pour imaginer que pour Badiou la pensée soit une chose abstraite comme un nombre ou une propriété, elle deviendrait probablement quelque chose comme une condition de pensabilité-dicibilité du monde, donc un transcendantal, atteint par l’ineffabilité propre des transcendantaux kantiens.
1.2) Si la pensée était un événement, il faudrait poser la question de ses critères d’identification, comme le fait Slavoj Zizek dans son The Ticklish Subject. The Absent Centre of Political Ontology. Comment distinguer un événement d’un non-événement qui pourrait être proclamé tel par quelque pseudo-sujet événementiel?
La réponse ici semble simple : le véritable événement est celui qui “troue le Savoir”, comme le dit Badiou, ou qui bouleverse la situation cognitive établie dans un système humain quelconque, dirions nous. Mais est-ce si simple? Gênes 2001 a-t-il été un événement ou pas? Et que dire du 11 septembre?
En tout cas on ne voit pas bien ou nous amènerait suivre cette direction pour décider que la pensée chez Badiou a le statut d’événement...
2) D’ailleurs Badiou doit avoir au moins une théorie sur les propriétés de la pensée, car il la dit “unique”:
Il est à mon sens erroné de dire que deux orientations différentes prescrivent deux mathématiques différentes, soit deux pensées différentes. C’est à l’intérieur d’une pensée unique que s’affrontent les orientations.
Mais en sus de son unicité la pensée a d’autres propriété ou est-elle ce que J.C. Milner appelle une «pensée sans qualité» ? Pourquoi ne pas s’attarder sur la nature de l’unicité de la pensée? Cette notion posée comme intuitive (Badiou ne l’explique pas du tout), si elle était expliquée nous permettrait sans doute de supposer que Badiou n’est pas loin de croire à la réalité de quelque chose comme un “langage de l’esprit” à la Jerry Fodor, Steven Pinker et d’autres cognitivistes. Cette hypothèse nous permettrait peut-être de confronter le discours de Badiou avec celui des sciences cognitives. Cela nous semblerait très intéressant. Mais le discours de Badiou devrait pouvoir se confronter (si ce n’est aux sciences de la nature) au moins au monde sensible et à la sphère intentionnelle, bannie par Badiou, et rien n’est moins certain que cette confrontation soit possible (ni même désirée par Badiou).
Avec l’affirmation parménidienne, tardive et quelque peu étonnante (vu son matérialisme dialectique mathématisé des années soixante-dix), selon laquelle l’être est le même que la pensée , c’est comme si Badiou renonçait à jamais à formuler des propositions empiriquement contrôlables qui se référeraient à la pensée.
3) A propos de son orientation, Badiou attribue à la pensée trois directions possibles : a) une orientation “grammairienne ou programmatique”, b) une “doctrine déployée des indiscernables”, c) une “logique de la transcendance”. Ces trois orientations de la pensée sont justifiées de façon non-empirique , et elles se trouvent en correspondance, respectivement, avec
la doctrine des ensembles constructibles, créée par Gödel et raffinée par Jensen [...] la doctrine des ensembles génériques, créée par Cohen [...] la doctrine des grands cardinaux, à laquelle ont contribué tous les spécialistes de la théorie des ensembles. [Badiou trouve aussi des correspondances, respectivement, avec la philosophie de Leibniz, celle de Rousseau et] toute la métaphysique classique [...] fût-ce sous le mode de l’eschatologie communiste.
Dans le Court traité d’ontologie transitoire la théorie des orientations de la pensée est reprise avec plus de clarté:
Il faudrait donc disposer d’une théorie des orientations dans la pensée, comme territoire réel de ce qui peut activer la pensée mathématique comme pensée. (…) Ces orientations sont l’orientation constructiviste, l’orientation transcendante, l’orientation générique.
La première norme l’existence par des constructions explicites et, en définitive, subordonne le jugement d’existence à des protocoles langagiers finis et contrôlables. Disons que toute existence se soutient d’un algorithme, qui permet d’atteindre effectivement un cas de ce dont il s’agit.
La deuxième, la transcendante, norme l’existence par l’admission de ce qu’on peut appeler une surexistence, ou un point de bouclage hiérarchique qui dispose en deçà de lui-même l’univers de tout ce qui existe. Disons que, cette fois, toute existence s’inscrit dans une totalité qui lui assigne une place.
La troisième pose que l’existence est sans norme, sinon la consistance discursive. Elle privilégie les zones indéfinies, les multiples soustraits à toute récollection prédicative, les points d’excès et les donations soustractives. Disons que toute existence est prise dans une errance qui fait diagonale pour les montages supposés la surprendre.
On a l’impression de comprendre, mais, au juste, après tout qu'est-ce que c'est une orientation de la pensée?
Dans le Court traité Badiou propose une pseudo-définition: une orientation de la pensée serait
une norme immanente qui ne constitue pas la pensée, mais l’oriente. Nous appellerons orientation dans la pensée ce qui règle dans cette pensée les assertions d’existence. Soit ce qui, formellement, autorise l’inscription d’un quantificateur existentiel en tête d’une formule qui fixe les propriétés qu’on suppose à une région d’être. Ou ce qui, ontologiquement, fixe l’univers de la présentation pure du pensable. Une orientation dans la pensée s’étend non seulement aux assertions fondatrices, ou aux axiomes, mais aussi aux protocoles démonstratifs, dès que leur enjeu est existentiel (nous soulignons).
Ce n’est pas une véritable définition car Badiou dit, de façon parfaitement circulaire, qu’une orientation dans la pensée est ce qui oriente la pensée. Est-ce cela qu’entend Badiou disant qu’une pensée axiomatique ne définit pas ses termes? Pourtant il y a bien quelque chose comme une définition négative: une orientation de la pensée est «une norme immanente qui ne constitue pas la pensée». Or, les normes constitutives étant celles qu’on ne peut pas transgresser par définition: par exemple, dans le jeux des échecs le cheval ne peut pas bouger comme la reine, et le joueur qui l’ignore ne pourrait pas jouer au même jeu. La pensée pour Badiou serait donc quelque chose qui ne pourrait pas avoir affaire à des normes constitutives mais bien à des normes non-constitutives, parmi lesquelles il y aurait les orientations? On en sait rien.
Les réponses à ces questions seraient liées à la théorie badiousienne de la pensée, sauf que cette théorie n’est pas explicitée.
Conclusion.
La dernière parole parménidienne de Badiou selon laquelle l’être est le même que la pensée nous laisse soupçonner que le discours badiousien est en train de devenir de plus en plus clos, et qu’à sa mise entre parenthèses du monde ontique s’ajoute désormais la suspension volontaire d’un concept et d’un sens transmissibles de la pensée (comme de la philosophie).
Nous avons voulu parcourir quelques lieux de l’ouvrage très riche et complexe de notre philosophe. Nous savons que notre reconstruction de ce système de pensée n’a pas beaucoup de chances pour ne pas déplaire aux interprètes plus proches de Badiou, parmi lesquels nous avons été quelque temps, sans doute de façon inadéquate. Pourtant il nous semblait important de faire voir qu’en dépit de plusieurs éléments intéressants, à notre avis, de cette philosophie, l’architecture globale reste gravement affaiblie par une fondation inconsistante d’origine ouvertement lacanienne.
D’après Robert Nozick les systèmes philosophiques peuvent ressembler soit à une tour à la fondation mince et friable (on construit sur les intuitions philosophiques initiales comme si tout devait être déduit du Principe), soit à un temple grec comme le Parthénon, dont les colonnes sont les différentes intuitions sur lesquelles on bâtit une architrave de propositions philosophiques qui peuvent rester valables et intéressantes même après l’écroulement de certaines parties du temple. Des propositions de quelque façon déliées de la prétendue fondation.
Or, prolongeant cette belle image, il nous semble que le système de Badiou ressemblerait à une sorte de pyramide puissante et solide mais, hélas, entièrement bâtie sur un seul point presque inexistant.
Ça ne doit pas être un hasard si pour Badiou le réel est justement un point impossible.
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