E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

venerdì 28 gennaio 2011

Pop a Mambassa (Vogue18)

[Pubblicato su Vogue.it]

Da quando l’ho lasciata vent’anni fa, Bra, la mia piccola città piemontese tra Langhe e Roero un tempo sopita e noiosa, ha subìto un’esplosione di vitalità e creatività che a volte mi appare enigmatica e che sarei quasi tentato di spiegarmi con teorie alla Carpenter (gli alieni sono sbarcati all’insaputa di tutti e sotto mentite spoglie hanno preso in mano le redini della città).
Il gruppo rock Mambassa (http://www.mambassa.com/), giunto ora al suo quinto disco, Lonelyplanet, uscito alla fine del 2010  per la EMI, è sicuramente una parte importante di questa rinascita braidese.
Il cantante del gruppo, Stefano Sardo, scrittore e sceneggiatore (La doppia ora) è anche uno dei padri dell’interessantissimo festival di cortometraggi “Cinema corto in Bra”, che si svolge annualmente ed è in notevole crescita.
I Mambassa fanno una musica intelligente, un pop raffinato e divertente, senza vertigini ma senza punti morti (la famiglia di appartenenza è quella dei Perturbazione, o per altri versi i Tiromancino). Nel video del primo singolo, Casting, diretto da Lucio Pellegrini (E allora mambo), si alternano sovrapponendosi in provini fittizi attori e attrici giovani e meno giovani che cantano in playback: compaiono tra gli altri Martina Stella, Andrea Bosca, Filippo Nigro, Daniela Virgilio, Giorgio Colangeli e Marco Messeri.
Il video del secondo singolo, Nostalgia del futuro, diretto da Lorenzo Vignolo, è anch’esso interpretato da giovani esponenti del mondo del cinema, il che conferma che il link tra i Mambassa e il mondo di celluloide (molto presente anche nei testi del disco) è una cifra stilistica non passeggera.

mercoledì 26 gennaio 2011

Filosofia al cubo (Vogue17)

Tatiana Carelli, è laureata in filosofia teoretica, scrittrice, sceneggiatrice, in bilico tra parola e immagine. Durante gli studi ha lavorato come cubista nelle discoteche italiane ed estere: a questo mondo è ispirato il suo primo romanzo, Discocaine (Oscar, Mondadori 2004), seguito da Contratto di schiavitù (Strade Blu Mondadori, 2008) e racconti vari.


Come sei diventata cubista?

Ho iniziato questo mestiere per pagarmi gli studi, arrivando da 17 anni di danza classica: ero un'aliena, sopratutto perché non avevo le tette rifatte, elemento determinante nell'ambiente.


Ti sembra che quell’osservatorio particolare ti abbia fatto capire meglio certe caratteristiche degli esseri umani, magari quelli di sesso maschile?

Più che altro mi ha incuriosito l’Altro nel suo presentarsi; ciò che mi si è dischiuso è stato un mondo di relazioni basiche, animali, carnali, terrene, celestiali, tristi, cattive, ironiche, volgari, golose posso dire delle macchine desideranti, inutile da definire, un continuo flusso. Ogni momento è eterno, per quanto non ci sia già più. Come distinguere il maschile dal femminile? Non so, io non ho mai distinto...

In Discocaine ti soffermi spesso sull'abbigliamento e sulle scarpe, spesso di lusso: è una tua passione personale o è un elemento "ideologico" proprio di quell'ambiente?

Questa domanda mi fa sussultare per un attimo il sangue. Ahimè, “la scarpa” è una dipendenza. Tocca sinapsi di vanità. La sostituzione della zeppa, quella classica, truce, inestetica, con la scarpa-gioiello-feticcio è nata a Milano negli anni ‘90. La creazione della mise era fondamentale, ricercata nel concept e nell’interpretazione, oltre che un immenso piacere shopaholico. Zanotti, Sergio Rossi, Casadei, Westwood, Gucci, Dolce e Gabbana, Miu Miu... quanti soldi versati in quegli orgasmi inorganici.


Una domanda di scottante attualità: avresti mai pensato che il personaggio della Cubista avrebbe assunto una rilevanza sempre maggiore nell'immaginario italiano, insieme a una visibilità quasi inspiegabile in una società diversa dalla nostra?

Senza esser maghi era inevitabile immaginare che la cubista, apparenza pura, venisse stigmatizzata come vestale del divertimento. Ne aveva tutte le caratteristiche, e anche un velo etico della danza, per quanto dionisiaco, dietro cui ripararsi. Qual è la differenza? Il passo dalla cubista alla escort è abbastanza sdrucciolevole. Sempre di donne su un cubo, o ripiano, si parla (l’importante è che sia elevato, sovrastante, un piedistallo), la differenza è l’abbordabilità, via via più sottile finché c’è stato un capovolgimento per una tale immersione nell’oggetto desiderato, identificazione, per cui la cliente è diventata peggio della cubista: più denudata, disponibile. La velinizzazione ha cancellato l’idea di cubista, quel periodo oscuro che a volte precede la stigmatizzazione. L’ha inglobata. Così è diventata, più che icona, topos.
Tutto ciò è la conseguenza di un degrado dell’idea di donna messo in atto dalla nascita della tv privata e dall’abuso pubblicitario, un piano di mercificazione del corpo e mortificazione dell’anima, neanche tanto sottile. Un progetto politico di controllo che sta schiacciando il diritto alla femminilità e che rende difficile alla donna essere se stessa senza diventare o la costola mancante dell’uomo o moneta di carne.

L'opposizione di una giornalista tunisina: Sihem Bensedrine


Mi torna alla memoria il calvario della famiglia Mahdaui, in Tunisia : il padre imprigionato per appartenenza a un partito islamico e tutta la famiglia punita per i “crimini” commessi da uno dei suoi. Ma nel mio paese la sanzione non ha limiti nel tempo: la famiglia sarà perseguitata per tutta la sua esistenza.
Ali era meccanico in una fabbrica di gesso nel sud del paese. È sulla trentina quando viene arrestato per la prima volta nel dicembre 1991. All’uscita dalla prigione è costretto ad una quotidiana «sorveglianza amministrativa»: così la polizia lo obbliga a firmare un registro due volte al giorno, in orario diverso ogni volta in modo da impedirgli di organizzare la sua vita professionale e famigliare. Per nutrire la sua famiglia è costretto all’esodo, trova lavoro a Khetmin, nel nord del paese, in una fabbrica di mattoni. Ma non sfugge alla persecuzione della polizia, che di volta in volta si adopera per farlo licenziare. Diventano frequenti le sue convocazioni al distretto di sicurezza nazionale, dove spesso è guardato a vista, con o senza ragione. La sua casa è regolarmente invasa ad ore tarde della notte dalla polizia, che semina il terrore tra i suoi figli.
Braccato in tutti i lavori che trova, si decide a diventare venditore ambulante nei mercati delle pulci. La persecuzione si fa più dura, le sue mercanzie vengono calpestate o confiscate e lui subisce lunghe interrogazioni sull’origine del denaro investito per comprare la merce. Viene nuovamente arrestato e condannato a otto anni di reclusione per “terrorismo” : attualmente li sta scontando nella prigione di Harbub.
Non per questo termina il calvario della sua famiglia. Sua moglie Tunes viene regolarmente convocata al distretto di Biserta, dove la insultano e la picchiano affinché confessi la fonte delle sue risorse economiche. Si esercitano pressioni sul proprietario del suo tugurio affinché venga scacciata, e i suoi ritardi nel pagamento sono una buona scusa! Continuano le «inopinate visite notturne» della polizia: la sua cucina, i suoi piatti e la sua spazzatura vengono minuziosamente ispezionati per identificare il pasto mangiato alla sera dai suoi figli. E se per sbaglio qualche anima buona le ha offerto un’ala di pollo, ecco che si guadagna un pestaggio per farle denunciare il “benefattore”.
Siccome le è stato ritirato il libretto sanitario, Tunes non può più curare gratuitamente Munir, che ha la tubercolosi, Ahlem, che soffre di allergia, e nemmeno Wafa che non ha potuto essere scolarizzata perché soffre di una cataratta che le impedisce di vedere. È una famiglia di appestati, esclusa dalla categoria dei cittadini tunisini. La loro disperazione servirà da esempio.
Montassar, il figlio maggiore, è disgustato da questa vita da cani e attribuisce a suo padre la responsabilità di non averli saputi proteggere a causa delle sue scelte politiche. D’altronde i poliziotti che fanno irruzione nella loro casa non perdono mai l’occasione di ripeterglielo in mezzo a un mare di insulti. Notando il suo silenzio di approvazione, lo convocano a più riprese al commissariato e gli fanno intravedere la fine del calvario e la possibilità di una remunerazione che metterà fine all’indigenza della loro quotidianità. A questo giovane di sedici anni non occorre molto di più per venire reclutato e diventare colui che farà i rapporti circostanziati sugli amici di famiglia che tentano di venire in loro aiuto, nonché denunciare dopo due anni la propria madre, che finirà in prigione per aver ricevuto una lettera da parte di suo marito in carcere.
Sì, questa razza di uomini senza fede né legge li conosco troppo bene. Chiamano patriottismo la delazione e l’abilità nel cavarsela, il ricorso a metodi indegni per procurarsi denaro. Hanno il potere di corrompere i più fragili e di metterli in situazioni nelle quali non avranno altra possibilità se non sprofondare nell’infamia e bere il calice fino alla feccia. Grazie a questa capacità di «invischiare» quelli che non si sospetterebbe capaci di tali bassezze il regime giunge a mantenere un intero popolo sotto la sua dominazione, e a disinnescare ogni tentativo di ribellione di massa.
I ribelli, coloro che non si possono «sporcare» faranno la figura dei pazzi, teste calde ai quali verrà comminata una sanzione esemplare.

[...]


Facendo appello ai servizi degli specialisti in relazioni pubbliche delle agenzie occidentali, il regime invita a più non posso, per soggiorni da favola e giri turistici, giornalisti, occidentali che ricoprono cariche elettive o sono dotati di poteri decisionali. Questi soggiorni comportano visite a centri o istituzioni che valorizzano i traguardi raggiunti dal potere e in cui tutti i successi e i punti forti dei tunisini sono strumentalizzati e presentati come opera del regime. Questa procedura reca i suoi frutti. Più d’uno viene sedotto e diventa sordo alle grida di disperazione delle vittime di questa dittatura.
Come ho potuto cadere nel tranello di questa propaganda, come ho potuto essere cieca a tal punto di fronte alla strumentalizzazione che il regime iracheno faceva delle sofferenze del suo popolo, come ho potuto non vedere oltre la evidentissima corazza di approvazione e unanimismo ostentata dagli artisti e dagli intellettuali che avevo incontrato?


[...]


Rientrando a Tunisi scopro che i giornali allineati sono scatenati contro di me perché ho fatto questo viaggio. Il giornale Ashuruq, per la penna di «SBH», il rappresentante della Tunisia all’Unione dei giornalisti arabi, sale «coraggiosamente» sugli spalti. Nessun appellativo mi è risparmiato: traditrice, rinnegata, serva dell’imperialismo americano e del sionismo... Agli occhi dell’opinione pubblica tunisina la questione palestinese e quella dell’Iraq costituiscono due questioni estremamente delicate nel momento in cui i due popoli vivono entrambi l’occupazione delle loro terre e la negazione dei loro diritti. Il giornalista dunque mi attacca su un terreno costituito da argomenti calunniosi legati a queste due cause.
Siccome provengono dal potere, quelle calunnie sono onorevoli. Le mie attività dissidenti mi valgono una forte ostilità che mi lusinga. Oggi si conoscono bene i piani per sottomettere i dissidenti che il regime di Ben Ali ha applicato minuziosamente dal 1987. Ha saputo maneggiare con destrezza il bastone e la carota, lusingando le ambizioni personali di coloro che sapevano dare accenti di verità alle loro subitanee conversioni e sprofondando nella miseria coloro che gli resistevano.
Ho conosciuto personalmente i misfatti dei servizi speciali del ministero degli Interni, che usano mezzi poco gloriosi come la violazione del domicilio, lo svaligiamento, i furti di beni, la confisca del passaporto, la privazione di risorse economiche, il tentativo d’assassinio o il fotomontaggio di album pornografici... E una costante sorveglianza poliziesca che dà il sentimento di vivere in una gabbia trasparente, senza possibilità di preservare una qualsiasi vita privata. Ovviamente, quando ci si rivolge all’autorità non c’è mai un’inchiesta, mai un procedimento penale!
Soffrivo per il mio paese, per le sue istituzioni deviate, prese in ostaggio da «delinquenti» che le usano come beni privati. «Non c’è legge, non c’è sicurezza per i cittadini di questo paese, non c’è altra regola se non quella della sottomissione»: è il messaggio che inviano a coloro che si avventurano a protestare.
Mi ricordo per esempio di quella domenica dell’agosto 2001. La città di Biserta era in stato d’allerta a causa di un ricevimento organizzato in mio onore da amici bisertini a casa di Am Ali Ben Salem, un oppositore di lunga data che non ha mai abbassato le armi di fronte a tutte le tirannie. Era per festeggiare la mia uscita di prigione. Tutti gli accessi che portavano a casa sua erano sbarrati da poliziotti in borghese, in numero sproporzionato. Mi ero abituata a vedermi alleggerita dei miei diritti di cittadina nello spazio pubblico. Poi era lo spazio privato ad aver subito l’assalto di quel verminaio che si arrampica su tutto quanto è vivo. Ma conservavo in fondo a me la folle speranza che la legge potesse essere di un qualche soccorso. Ciò che allora mi aveva afflitto era innanzitutto il silenzio della cittadinanza, che assisteva allo spettacolo come se fosse fuori dall’evento, mentre erano i primi ad essere impediti nella loro libertà di movimento; ma mi aveva afflitto soprattutto la replica del capo della polizia di Biserta che rispondeva alle mie domande sulla legalità dei suoi atti: «Io sono la legge e quello che decido è legale!»
Si ha un bell’esserci abituati, ma udirlo formulare così dalla bocca di colui che è considerato rappresentare la legge, ti raggela. Non c’è più stato di diritto, semplicemente non c’è più diritto. E ti invade la tristezza di vedere le istituzioni del tuo paese fatte a pezzi.
Pochi si ricordano oggi del clima ripugnante che ha minato gli ambienti democratici durante la prima fase del regime di Ben Ali, preludio a un’impresa di sottomissione della società civile. Quel periodo ha preceduto lo scatenamento della fase repressiva e l’instaurazione del terrore come metodo di governo. Il regime non ha inventato nulla; non ha fatto altro che recuperare una vecchia regola hitleriana: «Corromperò tutto». Il potere poliziesco iniziò così a sommergere la scena mediatica con nuove testate giornalistiche «private», interamente dirette e finanziate dai suoi servizi, emarginando i giornali indipendenti fino a farli scomparire; allo stesso modo ha lanciato nel circo mediatico battaglioni di nuove «penne» passate per una formazione speciale, la scuola della disinformazione, e incaricate di denigrare sistematicamente gli oppositori con l’obiettivo di favorire il disgregarsi delle organizzazioni indipendenti, di darne un’immagine negativa e decadente, spingendo i cittadini a disertare in massa lo spazio pubblico.
Dunque sono abituata agli sgorghi di fango dei giornali di fogna. Da anni la normalità sono gli attacchi alla reputazione dei dissidenti con campagne di stampa diffamatorie, senza diritto di replica o di rettificazione su altri media, visto che alla stampa libera è stata messa la museruola.
D’altronde i tunisini hanno appreso a decodificare questi messaggi. Comprendono che se un militante della libertà è bersaglio del potere significa che sta sferrando seri colpi all’immagine di quel potere corrotto. Una donna mi avvicina in un luogo pubblico e mi dice: «Se davvero si tratta di connivenza con gli americani dovrebbero incensarvi, piuttosto, visto che sono alleati degli americani e hanno appena firmato un accordo per una base americana in Tunisia». Questo buon senso popolare mi rassicura, tanto quanto mi inquietano i pregiudizi dell’ambiente politico.


[da Lettera a un'amica scomparsa in Iraq, Nottetempo, 2006]

martedì 25 gennaio 2011

Gadda, Eros e Priapo

Parlando del fascismo, Gadda sembra parlare di noi oggi. Parte fondamentale dei 150 anni di storia italiana è il nucleo nero dell'autoritarismo sempre-ritornante: nell'Ottocento i Savoia, nel Novecento il fascismo.

"Be’, i crimini della trista màfia e di tutti li «entusiasmati» a delinquere avendo raggiunto o me’ dirò permeato ogni pensabbile forma del pragma, cioè ogni latèbra del sistema italiano (con una «penetrazione capillare», oh! sì, davvero), è ovvio che tutte le nostre attività conoscitive e le universe funzioni dell’anima debbano intervenire nel giudizio del male, patito e fatto. Tutti i modi, i metodi, le tecniche, le singule operazioni e le discipline della mente sono chiamati a soccorrerci. L’atto di conoscenza con che nu’ dobbiamo riscattarci prelude la resurrezione se una resurrezione è tentabile da così paventosa macerie. Quest’atto sacrale si attiene a tutte le ripartizioni del conoscere, a tutti gli argomenti del dire. Tutti i periti, e d’ogni sorta medici, hanno e aranno discettare sulla maialata."

C. Gadda, Eros e Priapo, http://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/resources/essays/eros1-3.php

lunedì 24 gennaio 2011

L’Italia è una città


L’Italia è una città, non lo sapevi?
L’Italia non è uno Stato e non lo è mai stata.
L’Italia è una città che è fatta di città più piccole e sconosciute, alcune molto belle.
Le città hanno borgate che son fatte di quartieri e sti quartieri hanno isolati con dentro altri isolati, i palazzi e le case, che al tramonto risuonano di grida di donne e panni fruscianti, o silenzi gravi e paurosi come a Napoli in via Monte di Dio.
L’Italia è una città di città di borgate di quartieri di palazzi di case, e nelle case ci sono le famiglie che sono fatte di famiglie mescolate ad altre famiglie, a volte sovrapposte, segrete, orribili, mostruose.
In ogni famiglia di ogni casa di ogni quartiere di ogni città ci sono gli italiani, non persone ma individui di individui, hanno l’anima scomposta in tante parti che nessuna è intera.
L’Italia è una città fatta di parti di individui vivi morti e inesistenti, che non hanno mai fatto un Uno.
L’Italia è un puttanaio di frattali, un paesaggio ricorsivo, un tessuto sgretolato, una tela di Penelope che di giorno si cuce per lacerarsi la notte, un passo avanti due passi indietro, avanti, su avanti, e poi hop hop indietro ancora.
L’Italia è una città perduta di perduta gente.

domenica 23 gennaio 2011

Pierre Klossowski tra linguaggio e immagini (2008)


Pierre Klossowski (Parigi 1905-2001), fu scrittore, filosofo, traduttore dell’Eneide, di Hölderlin, Kierkegaard, Nietzsche, Benjamin, Heidegger, Wittgenstein, ma anche pittore e attore cinematografico (tra l’altro in Au hasard Balthasar di Robert Bresson).
Di lontane origini polacche, fratello del pittore Balthus e figlio di pittori, amico di Gide e Rilke, Klossowski è uno dei maggiori intellettuali francesi del Novecento. Partecipa alle avanguardie artistiche degli anni trenta lavorando, tra gli altri, con Bataille (di cui è amico e collaboratore nella rivista Acéphale), Artaud, e Masson. Insieme a Deleuze, Foucault e altri pensatori, è uno dei promotori della reinterpretazione novecentesca di Nietzsche nell’ambito della filosofia francese (Nietzsche e il circolo vizioso, 1969). Ha anche un ruolo importante nell’interpretazione di Sade (Sade prossimo mio, 1947-1967), letto, come Nietzsche, nella prospettiva della «decostruzione» del soggetto susseguente alla «morte di Dio». È degli anni settanta l’incontro con Carmelo Bene, che si avvicina al suo Bafometto, metafisica simbolizzazione del demoniaco idolo dei Templari (il sapere assoluto), senza però mai mettere in scena l’opera.
Le opere di Klossowski sono permeate di un eccentrico immaginario religioso-erotico (studia teologia negli anni dell’occupazione nazista, durante i quali è vicino al Fronte Popolare, poi in contatto con la Resistenza): nella trilogia Le leggi dell'ospitalità (La Revoca dell’Editto di Nantes; Roberta, stasera; Il suggeritore, editi in italiano per SE) e nel Bafometto, i personaggi si ritrovano al centro di sottili perversioni voyeuristiche quando non vittime di sadiche violenze: Eros e Thanatos assumono in Klossowski una valenza teofanica. I suoi romanzi, superficialmente ascrivibili a un certo genere di letteratura «pornografica» di stile surrealista, elaborano (l’osservazione è di Deleuze) la figura della Coppia come dispositivo concettuale nelle cui pieghe prospettiche l’identità dell’individuo risulta dissolversi.
Il fatto che nel fornire la prima traduzione francese del Tractatus di Wittgenstein Klossowski cada in errore nel rendere con tableau («quadro») la parola tedesca bild (nel Tractatus: «immagine logica»), sembra confermare la coappartenenza, nella sua elaborazione, di parola e immagine, secondo il giudizio di Gilles Deleuze: «L’opera di Klossowski è costruita su un sorprendente parallelismo tra il corpo e il linguaggio». Il corpo è incarnazione visibile del linguaggio invisibile che, nella metafisica occidentale, è Dio.

venerdì 21 gennaio 2011

Su La vita oscena di Aldo Nove: discussione FB con una Critica Trasformatrice


Edoardo Acotto Aldo Nove è il mio italiano preferito da vent'anni, anch'io forse sono sempre uguale a me stesso
Ieri alle ore 15.11 ·

Edoardo Acotto e per me La vita oscena è il suo capolavoro, però io non sono un critico.
Ieri alle ore 15.11 ·

Critica Trasformatrice sì difatti il critico ha l'obbligo di motivare, sempre.
Ieri alle ore 15.12 ·

Edoardo Acotto Ah, ma quello so farlo anch'io: La vita oscena è il suo capolavoro perché non aveva mai scritto con tale immediatezza de la-vita-la-morte.
Ieri alle ore 15.18 ·

e chi l'ha detto che scrivere con immediatezza sia un pregio? per Bachtin, ad esempio, la qualità inderogabile di un narratore è l'extralocalità: tanto più sei vicino alle cose, tanto meno la tua visione è ''eccedente'' e dunque pregna di significato ''per noi''. qualunque giudizio critico è legittimo, Acotto, ma il critico, ha, oltre a quello di motivare, anche l'obbligo della coerenza: non puoi sostenere mi piace Aldo Nove da vent'anni, perché quell'Aldo Nove che ti piaceva vent'anni fa, immediato non era affatto: tutt'altro. ed era il suo pregio, e la sua forza, lo straniamento. dunque, ti piaceva allora, o adesso?
Ieri alle ore 15.28 ·

è proprio questo il punto: mi piace adesso proprio perché mi piaceva allora (non so l'effetto che mi farebbe un libro simile alla Vita scritto da un altro).
Prima mi piaceva come resisteva al pensiero della vita-la-morte, col suo violento surrealismo comico degno di Beckett; ma poiché si è sempre percepito che dietro quel soggetto scrivente c'era un soggetto che mediava la cosa stessa, la-vita-morte appunto, oggi ci si manifesta finalmente quel soggetto che era rimasto latente per tanti anni, procedendo mascherato, e trapelando solo qua e là.
Essendo io abbastanza hegeliano, non credo che la verità stesse nell'Aldo9 prima maniera OPPURE in quello de La vita, ma in entrambi.
La vita oscena compie l'Aufhebung di Woobinda, e la dialettica è già ripartita verso il momento successivo.
Ieri alle ore 15.37 ·

Critica Trasformatrice Non scomodiamo Hegel, e per citare il s. Agostino che sembra essere l'unico riferimento delle famigerate interviste del Nostro, non rammarichiamoci tanto di averlo perso, ma godiamoci quel che abbiamo avuto. Woobinda forever. comunque non era un sondaggio su Aldo Nove, del suo libro si parla già troppo dappertutto. e senza una voce di dissenso: quelle le mette a tacere a priori il ricatto sentimentale. che non è un libro che possa accontentare tutti, via.
Ieri alle ore 15.56 ·  · 1 persona

Critica Trasformatrice secondo me un buon metro, poi, è sempre andare a vedere chi ne ha scritto, oltre che come: ida bozzi, elena stancanelli, lorenzo cherubini, daria bignardi. un critico che sia uno, si è pronunciato, su questo libro? (a parte Giglioli, nel modo di cui dicevamo). fine della parentesi Oscena, ve ne prego.
Ieri alle ore 16.12 ·  · 1 persona

Edoardo Acotto ok, mi eclisso, ma sappi che ne scriverò anch'io, intervistandolo, e neanch'io sono un critico. Dopodiché, sai come la penso sui critici...
Ieri alle ore 16.22 ·

Edoardo Acotto Ah, ecco, ne sta scrivendo il bravissimo Francucci: lui è un critico.
Ieri alle ore 16.23 ·

Critica Trasformatrice una rondine non fa primavera, diceva mia nonna (dove ne scrive il bravissimo Francucci? ma non pensavi male dei critici? ah, già, una rondine non fa primavera, già già).
Ieri alle ore 16.24 ·

‎(non penso male dei critici come individui, ma critico il ruolo della categoria, in questo determinato contesto politico-culturale.
Oppure: per Francucci faccio un'eccezione...)

[su una rivista letteraria, non ricordo quale, gli chiedo]

...<tua nonna si chiamava Aristotele?>Mostra tutto
Ieri alle ore 16.27 ·

anche Laborintus, che per me è il libro più importante del secolo passato, ebbe le sue brave stroncature. Non c'è nessun grande libro che accontenti tutti. Questo, intendevo. Quando ciò accade, è perché chi dissente non ha il coraggio di es...porsi (in questo caso per via del ricatto emotivo), oppure semplicemente si rimane interdetti, come sento dire moltissime volte, in questi giorni: ma perché ha scritto un libro così? Poi Aldo Nove è Aldo Nove, e pure un libro di Aldo Nove ''così'' non può essere un libro-ciofeca. Ma gridare al capolavoro è ingiusto per i veri capolavori (mi)sconosciuti (Le strade che portano al Fucino, a dirne uno) e anche per Aldo Nove stesso. Lo stiamo prendendo per il naso, come fa la Bignardi (''ma come, ti è andata a fuoco la casa, a Viggiù? e i famosi pompieri dov'erano?''). Ecco, sentir dire che l'Osceno è un capolavoro, a me fa l'effetto-Bignardi.
Ieri alle ore 16.30

Critica Trasformatrice ‎[il verri, I suppose]. mia nonna aveva la quinta elementare, e quand'ero piccola ha provato a insegnarmi le tabelline e il ciambellone, fallendo in entrambi i casi. (magari nella prossima intervista lo dico, così vendo una/ due copie).
Ieri alle ore 16.33


Secondo me un problema di voi critici e che non distinguete tra letteratura per letterati e letteratura per un pubblico di non specialisti, come se i filosofi pretendessero che tutti si studiassero i Principia Mathematica, Goedel e Kripke.
Questo libro non è un libro per specialisti, ma per un ipotetico pubblico universale.
Aldo Nove è un grande autore, un bravissimo poeta, e ora ha scritto un libro che fonde assieme Reale Immaginario e Simbolico (posso scomodare Lacan).
Libri così sono comprensibili da pubblici eterogenei, perciò io penso che questo libro diventerà forse un "classico" (se ci saranno ancora i classici).
Non è certo un libro perfetto, ma rappresenta una dimensione difficilmente rappresentabile: non c'entra la sua vita privata, ma l'esperienza della morte che penetra la vita fino ad appiccicarlesi e confondersi con essa, mi ha fatto pensare alla forza di Aracoeli, naturalmente in piccolo).

E la Bignardi per quel che mi riguarda non esiste.
Ieri alle ore 16.49

giovedì 13 gennaio 2011

MIRAFIORI'S FALLING

Oggi sono andato a Mirafiori al seguito di un amico giornalista che scrive quotidianamente della vertenza Fiat.
Io abito a Torino ma non è detto che tutti i torinesi seguano da vicino la vicenda Fiat, perciò, quando il mio intelligente amico mi ha proposto di accompagnarlo,  ho pensato che era l’occasione per vedere coi miei occhi il cancello che avevo visto soltanto nei film e documentari che parlavano di altre lotte e altri anni.
Davanti al cancello c’è una piccola folla un po’ surreale, un po’ felliniana, di giornalisti di tutte le testate con cameramen forniti di videocamere e microfoni di varie dimensioni e sindacalisti di tutte le sigle per il NO al referendum.
I sindacalisti fanno comizi abbastanza altisonanti e stonati rispetto alla situazione, mentre alcuni operai oltrepassano il cancello e si avviano al loro turno. Questi non parlano volentieri con i giornalisti (ma va?). Poi arrivano quelli che escono dal turno precedente, e man mano che si allontanano vengono braccati per le interviste, si allontanano anche di aprecchi metri prima di accettare di scambiare qualche parola (all’inviato del Tg2 non importa palesemente un cazzo, porge domande con tono stupido e irritante e nessuno lo caga).
Io ascolto molti discorsi un po’ in disparte, un po’ a disagio, mi sento mezzo compagno e mezzo voyeur, gli operai mi scambiano di sicuro per un giornalista e forse anche i giornalisti sospettano che io sia un collega ignoto.
Dopo aver sentito lo sconforto di un'operaria intervistata che dice che qui è solo l'inizio ma poi la stessa sorte toccherà a tutte le altre aziende mi viene quasi da piangere per questa lucida coscienza: gli operai sanno benissimo di essere vittime sacrificali, alcuni reagiscono con rabbia ma molti, forse i più, con rassegnazione.
Questa notte alle 22 inizia il referendum in fabbrica.
A me è venuta la depressione

***
11 luglio 2012

Aggiornamento dopo la visione del film di Jacopo Chessa, L'accordo, proiettato ieri sera a Torino, alla Fondazione Mirafiori.

Il film di Jacopo documenta benissimo la molteplicità dei punti di vista sul cosiddetto accordo, che i più bellicosi tra i sindacalisti chiamano retoricamente "il ricatto".
Molti operai ritenevano di non avere alternative, di dover firmare per l'estremo tentativo (poi disatteso) di sbloccare l'investimento da un miliardo necessario a salvare Mirafiori; costoro rifiutavano giustamente di essere considerati vili, stupidi o traditori: facevano semplicemente una diversa analisi dei costi-benefici rispetto alla situazione complessiva. Non è lecito considerarli dei puri egoisti, perché in una situazione collettiva nessuno può ragionare in maniera puramente egoistica.
Gli operai iscritti alla FIOM che presenziavano alla proiezione, alla fine hanno detto che ovviamente la vittoria del sì non ha portato lo sperato investimento di un miliardo, e che ci sono attualmente operai che in un anno hanno lavorato soltanto 17 giorni, il resto cassa integrazione (con perdite anche di 12mila euro annui).
Ma la domanda è: se avesse vinto il no sarebbe cambiato molto?
La lotta contro questo intollerabile stato di cose ingiusto e imputridito, non andrà fatta da un'altra parte, con altri mezzi, e al limite anche da altri soggetti?


lunedì 10 gennaio 2011

Tron Legacy. Oltre lo specchio digitale (Vogue16)

[pubblicato su Vogue.it]
Quante sono le opere di fiction che ci hanno raccontato che cosa c’è dall’altra parte della realtà? A partire dalla discesa agli inferi di Odisseo, Eracle e Orfeo, le catàbasi (questo il nome greco) non si contano facilmente: dalla Divina Commedia al Viaggio al centro della Terra, da Alice nel Paese delle meraviglie al Viaggio Allucinante, da Total Recall a Matrix. Ma non tutte le rappresentazioni del Mondo Parallelo riescono col buco, perché se il meccanismo finzionale consiste nell’importare elementi e personaggi del mondo attuale nel mondo virtuale (reale anch’esso ma in modo diverso), bisogna pur che la comunicazione tra attuale e virtuale sia affidata a un espediente narrativo accettabile, o almeno comprensibile.
Nel 1982 Tron, un film bizzarro e sperimentale prodotto dalla Walt Disney, aveva sostanzialmente fallito nel compito – poi riuscito a Matrix – di coniugare l’immaginario del mondo parallelo con la rivoluzione informatica: a differenza di altre opere affini, infatti, Tron ipotizzava l’in-credibile, ossia che un essere umano (Kevin Flynn interpretato da Jeff Bridges) si ritrovasse miracolosamente dentro al computer, non in effigie elettronica o tramite un avatar, bensì miniaturizzato al suo interno.
A distanza di 28 anni dal primo film, Tron - Legacy riprende quell’ipotesi assurda, rendendola se possibile ancora meno credibile: il film non fa mai scattare la suspension of disbelief teorizzata da Coleridge: non si inizia mai a credere a quello che si vede, non ci si lascia mai andare al godimento dello spettacolo, perché quello che si vede non solo è assurdo ma nemmeno scaturisce da alcuna logica verosimigliante.
Nonostante questo difetto capitale, il film è a suo modo un prodotto perfetto. Le citazioni dai film di fantascienza si sprecano. Le più evidenti: nel mondo virtuale la natura sembra la Terra post-devastazione in Matrix; la casa di Flynn è la visione finale di 2001. Odissea nello Spazio; l’algida ragazza-programma dai capelli bianchi (Beau Garrett) richiama esplicitamente i personaggi di Arancia meccanica; il duello aereo ricorda Star Wars, richiamato anche da cappucci e spade laser alla moda Jedi, senza contare che l’incontro tra padre e figlio, anticamente separati, è uno dei fulcri della saga di Star Wars.
Il cast sembra improntato a due criteri semplici: assicurare una labile continuità col primo film, attraverso la presenza di Jeff Bridges e qui sdoppiato nell’alter-ego cattivo (è la cosa forse più interessante del film) ed esibire alcune giovani attrici di abbagliante bellezza come Olivia Wilde (Quorra) e Beau Garrett (Gem). Divertente l’ambiguo personaggio di Michael Sheen (Zuse), mentre Garrett Hedlund nei panni del giovane Flynn sembrerebbe poter essere interpretato da qualsiasi attore giovane e carino.
Le musiche dei Daft Punk promettono un po’ più di quanto non mantengano (si veda la condivisibile critica di Rolling Stone: http://www.rollingstone.com/music/albumreviews/tron-legacy-20101206).
Tutto questo, purtroppo, non è sufficiente a renderci felici, proprio nel momento in cui ci fa sognare una possibile perfezione mancata. La grande consolazione consiste nell’accorgersi, rivedendolo, che oggi il vecchio Tron sembra un’opera ben più originale e dirompente del suo sequel di successo. Del resto il messaggio di Tron 2010 è chiaro: la perfezione non è conoscibile, anche se è costantemente sotto i nostri occhi. In modo imperfetto, siamo comunque nei paraggi del sublime spettacolare.