E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

venerdì 9 novembre 2012

Jean-Luc Nancy e la metafisica della libertà pirata

Also, according to the origin of the word "experience" in peira and in ex-periri, an experience is an attempt executed without reserve, given over to the peril of its own lack of foundation and security in this "object" of which it is nor the subject but instead the passion, exposed like the pirate (peirates) who freely tries his luck on the high seas. In a sense, which here might be the first and last sense, freedom, to the extent that it is the thing itself of thinking, cannot be appropriated, but only "pirated": its "seizure" will always be illegitimate.

Jean-Luc Nancy, The experience of freedom

Risposta a un'accusa irrilevante

L'idea postoperaista della "creazione ontologica" che sarebbe naturalmente insita nella cooperazione sociale è ben fasulla: la cooperazione sociale può anche essere inutile, distruttiva, energivora, vampiresca e micidiale.
L'unico impetus che mi spinge davvero è il desiderio-creazione susseguente ai noochoc-eventi.
Non sono depresso, mio caro amico voyant (1), è solo che in assenza di nuovi eventi noochocanti la fedeltà ai vecchi eventi dopo un po' mi viene a noia e il mio operato si fa superegoico, automatico, approssimativo, incerto e inefficace.
All'asilo, del resto, non terminavo mai di colorare i Goldrake che disegnavo.

Lo vuoi sapere che cosa mi renderebbe davvero FELICE? Poter leggere e scrivere senza curarmi d'altro. La "solitudine essenziale" (Blanchot) della lettoscrittura, come forma empirica di nirvana.

IDEA: rammemorare la presenza mentale, un vecchio evento-verità sempre riattualizzabile, ma solo con fatica e solo per via pratica (pratica quotidiana).

(1) "C'est que le schème sensori-moteur ne s'exerce plus, mais n'est pas davantage dépassé, surmonté. Il est brisé du dedans. Des personnages pris dans des situations optiques ou sonores, se trouvent condamnés à l'errance ou à la balade. Ce sont de purs voyants, qui n'existent plus que dans l'intervalle de mouvement et n'ont même pas la consolation du sublime, qui leur ferait rejoindre la matière ou conquérir l'esprit. Ils sont plutôt livrés à quelque chose d'intolérable qui est leur quotidienneté même. C'est là que se produit le renversement : le mouvement n'est plus seulement aberrant, mais l'aberration vaut pour elle-même et désigne le temps comme sa cause principale. "Le temps sort de ses gonds" : il sort des gonds que lui assignaient les conduites dans le monde, mais aussi les mouvements du monde. Ce n'est pas le temps qui dépend du mouvement, c'est le mouvement aberrant qui dépend du temps. Au rapport, situation sensori-motrice -> Image indirecte du temps, se substitue une relation non localisable, situation optique et sonore pure -> image directe du temps" (Gille Deleuze, l'Image-temps: http://www.cineclubdecaen.com/analyse/livres/imagetempsv2.htm)

venerdì 2 novembre 2012

Comunicato stampa del Partito Pirata Italiano, solidarietà alla residenza universitaria occupata Verdi

Martedì, 30 ottobre 2012, le forze dell'ordine hanno sgomberato la residenza universitaria Verdi di Torino, occupata da gennaio scorso dagli studenti dell'Università in protesta ai tagli al diritto allo studio della Regione Piemonte, in seguito ai quali ottomila studenti aventi diritto sono rimasti senza borsa di studio. L'assemblea online del partito pirata italiano ha precedentemente approvato quanto segue, (risoluzione 996 del 26 giugno 2012:
"Il PP-IT approva e sostiene ogni azione di riappropriazione e autogestione di aree e spazi urbani o rurali, sottratti alla speculazione, da destinarsi a finalità abitativa per quanti, italiani e migranti, non possano accedere al diritto alla casa in tutte le sue forme o a percorsi con finalità socio-culturali, nel rispetto dei Diritti fondamentali, destinati all'intera cittadinanza senza alcuna distinzione."
Sulla base di questo principio, il PP italiano considera l'occupazione della residenza Verdi di Torino un esempio ideale di riappropriazione e riorganizzazione di spazi a fine sociale, avendo la residenza ospitato in questi mesi numerosi studenti iscritti all'Università di Torino e privati della borsa di studio che gli sarebbe spettata di diritto. Il PP vuole ricordare le numerose attività culturali promosse dal comitato di occupazione, quali l'apertura di una libreria-baratto di testi universitari ,di una palestra, di una ciclo officina, l'organizzazione di rassegne cinematografiche e le infinite attività rese servizio del vicino ateneo. Attività talvolta non citate dai mezzi di informazione che hanno erroneamente dipinto gli occupanti come un gruppo di “clandestini sudamericani”, lontani dal mondo universitario. Niente di più falso: alla residenza Verdi è sempre stata privilegiata, di fronte ad un pressante numero di richieste dovute all'emergenza abitativa di una Torino capitale degli sfratti, la vocazione originaria del luogo. In questo momento sono privati del diritto allo studio studenti modello, stranieri e italiani, che dormono nell'atrio dell'università, come è stato largamente riconosciuto dagli organi di stampa. A questo riguardo il PP esprime perplessità per la contraddizioni diffuse dai media nazionali, così come sgomento per la violenza con cui le proteste sono state represse da parte delle forze di polizia. Il il PP esprime tutta la propria solidarietà agli studenti sgomberati e appoggia future esperienze di laboratorio sociale finalizzate a tutelare diritti fondamentali garantiti dalla stessa Costituzione italiana, quale il diritto allo studio, oggi messi in grave pericolo dall'attuale crisi economica e sociale.
Questo documento è stato approvato democraticamente dall'Assemblea Permanente del Partito Pirata.

lunedì 29 ottobre 2012

La disperazione di Penelope, Ghiannis Ritsos


Non è che non lo riconobbe alla luce del focolare;
non erano
gli stracci da mendicante, il travestimento – no;
segni evidenti:
la cicatrice sul ginocchio, il vigore, l'astuzia nello
sguardo. Spaventata,
la schiena appoggiata alla parete, cercava una scusa,
un rinvio, ancora un po' di tempo, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent'anni,
vent'anni di attesa e di sogni, per questo miserabile
lordo di sangue e dalla barba bianca? Si accasciò muta
su una sedia,
guardò lentamente i pretendenti uccisi al suolo, come
se guardasse
morti i suoi stessi desideri. E "Benvenuto" disse,
sentendo estranea, lontana la propria voce. Nell'angolo
il suo telaio
proiettava ombre di sbarre sul soffitto; e tutti gli uccelli
che aveva tessuto
con fili vermigli tra il fogliame verde, a un tratto,
in quella notte del ritorno, diventarono grigi e neri
e volarono bassi sul cielo piatto della sua ultima rassegnazione.

 
1968; da Pietre Ripetizioni Sbarre, 1972: Ripetizioni, seconda serie; trad. Nicola Crocetti

domenica 21 ottobre 2012

Luigi Einaudi sull'orario di insegnamento nella scuola italiana: cent'anni trascorsi invano?

Ringrazio INFINITAMENTE Stefano Beniamino Vaselli per aver reperito questo testo interessantissimo, il cui senso riceve una luce perfetta dagli avvenimenti recenti.
Ricordiamoli brevemente: il ministro della Pubblica Istruzione impone un aumento del 30% dell'orario di lezione a parità di stipendio, non senza aver prima invocato la necessità di usare "il bastone e la carota" per gli insegnanti italiani.
Questo testo è un eccezionale bastone politico e una carota intellettuale ad usum ministri.



Luigi Einaudi, Economista e uomo politico liberale, II Presidente della Repubblica Italiana, I° Presidente Eletto dal Parlamento dell'Italia libera.
(1913) “LA CRISI SCOLASTICA E LA SUPERSTIZIONE DEGLI ORARI LUNGHI.

… Da vent'anni a questa parte le ore di fiato messe sul mercato dai professori secondari sono andate spaventosamente aumentando. Specie nelle grandi città, dalle 10 a 12 ore settimanali, che erano i massimi di un tempo, si è giunti, a furia di orari normali prolungati e di classi aggiunte, alle 15, alle 20, alle 25 e anche alle 30 e più ore per settimana. Tutto ciò può sembrare ragionevole solo ai burocrati che passano 7 od 8 ore del giorno all'ufficio, seduti ad emarginare pratiche. A costoro può sembrare che i professori con le loro 20-30 ore di lezione per settimana e colle vacanze, lunghe e brevi, siano dei perditempo. Chi guarda invece alla realtà dei risultati intellettuali e morali della scuola deve riconoscere che nessuna jattura può essere più grande di questa. La merce «fiato» perde in qualità tutto ciò che guadagna in quantità. Chi ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere impunemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con intenti educativi, logora. Appena si supera un certo segno, è inevitabile che l'insegnante cerchi di perdere il tempo, pur di far passare le ore. Buona parte dell'orario viene perduto in minuti di attesa e di uscita, in appelli, in interrogazioni stracche, in compiti da farsi in scuola, ecc., ecc. Nasce una complicità dolorosa ma fatale tra insegnanti e scolari a far passare il tempo, pur di far l'orario prescritto dai regolamenti e di esaurire quelle cose senza senso che sono i programmi. La scuola diventa un locale, dove sta seduto un uomo incaricato di tenere a bada per tante ore al giorno i ragazzi dai 10 ai 18 anni di età ed un ufficio il quale rilascia alla fine del corso dei diplomi stampati. Scolari svogliati, genitori irritati di dover pagare le tasse, insegnanti malcontenti; ecco il quadro della scuola secondaria d'oggi in Italia. Non dico che la colpa di tutto ciò siano gli orari lunghi; ma certo gli orari lunghi sono l'esponente e nello stesso tempo un'aggravante di tutta una falsa concezione della missione della scuola media …".

(Dal Corriere della Sera, 21 aprile 1913).
“SCUOLA EDUCATIVA O SCUOLA CALEIDOSCOPIO? (A proposito del disegno di legge Credaro) di Luigi Einaudi

… A me sembra che 18 ore di lezione alla settimana sia il massimo che possa fare un insegnante, il quale voglia far scuola sul serio, e quindi prepararsi alla lezione e correggere i compiti coscienziosamente ed attendere ai gabinetti di fìsica o chimica; il quale, sopra tutto, voglia studiare. Se il legislatore voleva davvero provvedere al bene della scuola doveva aumentare gli stipendi, come fece; ma insieme vietare in modo assoluto agli insegnanti di far lezione oltre le 18 ore settimanali in istituti sì pubblici che privati; non solo, ma doveva proibire assolutamente di dare ripetizioni private a scolari proprii od altrui. Meglio costringere all'ozio assoluto l'insegnante protervo nel non voler prendere un libro in mano, che costringerlo o permettergli di sfibrarsi in un lavoro di vociferazione, che può essere giudicato leggero solo da chi non ha l'abitudine dell'insegnamento …”.
http://www.archive.org/stream/gliidealidiuneco00eina/gliidealidiuneco00eina_djvu.txt

lunedì 8 ottobre 2012

LETTERA APERTA AI MILITANTI DI ALBA, Soggetto Politico tutt'altro che Nuovo

Cari definitivamente ex compagni di ALBA,
oggi senza alcun motivo serio mi avete bannato dal vostro gruppo Facebook di Torino (un gruppo per altro creato da me e popolato di numerosi miei amici e conoscenti ma poi ceduto a voi per dissensi sulla linea comunicativa: voi volevate censurare ogni messaggio fastidioso, io volevo la massima trasparenza).
Questo, naturalmente, è solo l'epilogo della nostra storia comune, all'inizio della quale io ero uno dei due coordinatori torinesi, e alla fine della quale mi ritrovo ad essere stato da voi dimissionato perché iscrittomi nel frattempo al Partito Pirata (nel quale mi trovo benissimo) e  quindi a vostro parere inaffidabile e forse sospetto di tradimento.
Oggi avete anche cancellato diversi post nei quali Rinaldo Locati, l'altro iniziale coordinatore torinese, dopo mesi di vostra frequentazione esprimeva veementemente le sue critiche...
Trovo che per un progetto politico nato all'insegna della democrazia spinta, adottate dei metoducci ben meschini e ridicoli.
Se pensate di poter controllare la comunicazione in Rete siete ridicoli e patetici. (Per esempio quando mi bannate, se sapeste l'ABC dovreste ricordarvi che io di account FB ne ho almeno 2... Ops: e se avessi anche dei fake per spiarvi e farvi gli scherzi? Brrrrrrrr, che paura!).
Ora BANNATEMI SUBITO PER LA SECONDA VOLTA, esercitate questo piccolo potere che vi sentite di avere in virtù dell'investitura che ALBA, il grande Soggetto Politico Nuovo vi ha dato.
FORZA! Bannate! Non potete fare molto altro, ma questo almeno fatelo, CANCELLATE, RIPULITE, ORDINATE, e poi quando fate i vostri congressi sorridete alle masse come quei rivoluzionari perbene che volete essere. Qualcuno tra voi si è persino permesso di invocare la biopolitica dei farmaci per censurare l'opinione di un compagno: un'idea fascista che però sulla vostra bella bacheca non viene censurata. Evidentemente secondo voi la piccola violenza repressiva delle parole da duri va benissimo, se serve per mantenere il vostro ordine: il desiderio di pulizia e innocenza a quanto pare non nuoce troppo alla vostra bella immagine di un'ALBA dorata (ah no, scusate, quello è il nome del partito nazista greco, che strana coincidenza di nomi).
Ma quale immagine pensate di avere costruito? Chi vi segue, oltre ai lettori del Manifesto e a qualche sperduto elettore di una Sinistra ormai morta e sepolta e, all'inizio, qualche babbeo come me? E soprattutto, che siate popolari o meno, COME VI PERMETTETE di censurare il parere di chi vi ha seguito fin dall'inizio, come Rinaldo e il sottoscritto, per poi rimanere profondamente delusi dalla vostra inconcludenza, falsità e opportunismo?
COME VI PERMETTETE? Chi credete di essere, chi credete di rappresentare oltre ai vostri professori universitari le cui parole vi bevete come fossero oro colato? Se foste intelligenti democratici vi mettereste a lavorare per ottenere il consenso dei cittadini e non perdereste tempo a far congressi sui congressi per poi guardare ansiosi e cupidi la televisione ("qualcuno può guardare se nel TGR regionale hanno parlato del convegno?").
Certo, da postmoderni intuitivi e rozzi sapete bene che se nessuno vede l'albero che cade nel fitto della foresta è come se l'albero non fosse caduto per davvero: volete apparire perché temete di non essere, di non essere altro che un gruppuscolo che ha creduto bastasse il Manifesto per fare politica.
(Detto per inciso, siccome siete mediamente abbastanza vecchi ricorderete bene che nel 1972 il Manifesto si presentò alle politiche ottenendo un meritato 0,67% dei voti: io penso che anche impegnandovi non riuscirete a fare molto meglio :-).
Se faceste un buon lavoro politico non avreste tempo da perdere per tenere in ordine il vostro giardinetto su Facebook (un social network di cui per altro non capite nulla, come della Rete in generale: inutile ricordarvi che qualche tempo fa Diego Di Caro e io abbiamo provato a convincervi dell'utilità di avvicinarvi alla democrazia digitale: è stato come voler cavare sangue da una rapa, come voler far volare un asino, ci avete risposto con un assordante e strafottente silenzio, forse perché non avete proprio idea di che cosa sia la politica oggi).

Ora, io ho altro a cui pensare, ma sappiate che da oggi non perderò occasione per dire chi siete veramente: una sinistra vecchia e stanca con qualche ambizioso rinforzo semigiovanile e con un'ingiustificata smania di conquistare spazio nella politica rappresentativa, che per altro vi meriterebbe completamente (peccato per voi che non vi siate dati da fare prima per entrare nel gioco delle poltrone parlamentari).
Soprattutto, non perderò occasione per dire come trattate le persone benintenzionate che con il vostro più gran disappunto non si limitino a eseguire i comandi del vostro Gruppo Dirigente. Già perché voi non siete una struttura democratica, avete un Gruppo Dirigente che vi comanda dall'alto quali iniziative prendere, il dibattito interno non sapete che cosa sia, e sui contenuti politici della vostra proposta siete in alto mare e aspettate tranquilli che ve la confezionino i vostri professori.

Di una cosa sono più contento che di ogni altra: di vedere che alla fine della mia relazione con voi coloro con cui mi sono maggiormente scontrato all'inizio sono gli stessi con cui mi trovo più d'accordo adesso: i compagni Rinaldo Locati, Jasmina Radivojevic e Lino Sturiale. Questo rivolgimento potrebbe insegnare che il confronto e persino lo scontro dialettico, può portare ad insperate sintesi, che il vostro unanimismo perbenista non avrebbe nemmeno permesso di concepire. Ma dubito fortemente che qualcuno di voi possa cogliere l'ironia preziosa di questo insegnamento.

Buona fortuna a tutti, e che la vostra ALBA non vi sia grave.
In ogni caso non credo che siate preparati alla durezza del meriggio.


giovedì 4 ottobre 2012

Deleuze si specchia (vecchio incipit per un blog di fotografia mai aperto)


Deleuze si specchia tra due specchi.
Specchio del mio desiderio, chi è il più singolare del virtuale?
E' nel tra-due che avviene la Differenza, o molteplicità intensa.
Specchiandosi tra due specchi mentre viene fotografato in uno d’essi, Deleuze si sdoppia e si moltiplica all’infinito.
E' una singolarità molteplice: una singolarità con il cappello attuale nebulizzato in un’infinità di copricapi virtuali.
Indossa un soprabito impersonale. La molteplicità in effetti è impersonale, una persona è un fascio di singolarità, non garantita da alcun dio o io.
Deleuze è moltiplicato dal dividersi dell’istante temporale, verso il passato eterno e verso il futuro infinito.
Guarda l’obiettivo. Mi guarda. In ogni fotografia che lo ritrae, Deleuze mi guarda sempre, come se lui fosse una persona, come se lui fosse una persona, come se lui fosse una persona. Come se io fossi una persona e lui volesse mostrarmi che mentre lo vedo sono visto da lui.
Deleuze è una singolarità molteplice, fatta di attuale e di virtuale; il virtuale e l’attuale sono indiscernibili e si scambiano.
Guardando la foto, di primo acchito abbiamo l’impressione di sapere bene qual è il piano del reale e qual è il lato del virtuale. Eppure. Che cosa ce lo garantisce?
La macchina fotografica non può riprendere entrambi gli specchi, perché attuale e virtuale non coesistono mai completamenete. E c’è di mezzo colui che ritrae Deleuze che mi guarda, mi guarda come se lui fosse una persona, come se io fossi una persona e lui volesse mostrarmi che mentre lo vedo sono visto da lui. Ma è falso, sono le potenze del falso che si guardano attraverso i nostri occhi, attuali i miei, virtuali i suoi, o meglio ancora: attuali i suoi, alllora, virtuali i miei, in questo futuro attualizzatosi almeno per me.
Lui non c'è più, nel frattempo, ma le sue singolarità infinite sono ancora qui, con me, formano una nebulosa di concetti che non cessano di avviluppare la noosfera, la sezione di essa che mi è dato vedere dalla mia prospettiva.
In fondo, nell'Essere univoco, Deleuze e io e voi siamo tutti lì, ci teniamo molta compagnia, facciamo giochi bellissimi che non finiscono mai.

mercoledì 3 ottobre 2012

Spazi relazionali per moltitudini in carne e ossa (articolo commissionatomi da un famoso intellettuale organico di sinistra, e mai pagatomi, per una misteriosa rivista)


Gli spazi ipermercatali sono in potenza di infiniti incontri tra individui: le risorse cognitive e comunicative localizzabili in questi luoghi sono dunque sovrabbondanti e la loro attenta considerazione non dovrebbe sfuggire a qualsiasi soggetto interessato alla conoscenza delle dinamiche sociali. Eventualmente per influire positivamente su di esse. 
Avulso dalla scientificità della computer science, il discorso filosofico e culturale contemporaneo sui grandi spazi commerciali ha oscillato tra critiche radicali di scuola marxista (post- o neo-) e considerazioni metafisiche sulla libertà dell’individuo-massa, o piuttosto la mancanza di essa. La filosofia arricchita dall’apporto delle scienze cognitive potrebbe forse iniziare a ripensare queste realtà urbanistiche, economiche e antropologiche guardandole con lenti più variopinte. Tenendo presente che l’epoca degli ipermercati sta forse per tramontare, se è vero che da qualche anno negli USA non se costruiscono più e si iniziano anzi a demolire quelli già esistenti.
Per Guy Debord, il filosofo della Società dello Spettacolo (1971), i termini sono nettissimi: gli spazi extraurbani degli ipermercati sono punti di fuga da una città catturata in un movimento propriamente distruttivo, effetto inevitabile dell’estensione del dominio del capitalismo: “i momenti di riorganizza­zione incompiuta del tessuto urbano si polarizzano transito­riamente attorno a quelle “fabbriche di distribuzione” che sono i supermarkets giganti edificati in terreno nudo, su uno zoccolo di parking; e questi templi del consumo precipitoso sono essi stessi in fuga nel movimento centri­fugo, respinti più lontano via via che divengono a loro volta dei centri secondari sovraccarichi, dal momento che hanno determinato una ricomposizione parziale dell’agglomerato. Ma l’or­ganizzazione tecnica del consumo non è che in primo piano nel processo della dissoluzione generale che ha in tal modo con­dotto la città a consumare se stessa”.
Luoghi centrifughi per la distribuzione delle merci: nel contesto di una filosofia radicalmente negativa della contemporaneità capitalista, Debord non vede altro, anche se percepisce, più intelligentemente di molti epigoni, la positiva possibilità urbanistica e antropologica (“una ricomposizione parziale dell’agglomerato”).
Nella Società dei consumi (1974), Jean Baudrillard fa invece del centro commerciale il simbolo sintetico dell’intera civiltà contemporanea. In modo caratteristicamente iperbolico, il sociologo francese che teorizzerà la scomparsa della realtà ad opera del virtuale, fa del centro commerciale un luogo totalizzante: “Siamo al punto in cui il consumo comprende tutta la vita, in cui tutte le attività si concatenano nello stesso modo combinatorio, dove il canale delle soddisfazioni è tracciato in anticipo, ora per ora, dove l’“ambiente” è totale, completamente condizionato, ordinato, culturalizzato”. Per Baudrillard il sistema contemporaneo delle merci si trasforma in un flusso indifferenziato di segni, dove tutto è l’equivalente universale di tutto. Questa affascinante visione apocalittica sembra oggi più che altro un’invenzione interpretativa non fondata sulle reali dinamiche cognitive ed esperienziali dei soggetti coinvolti negli spazi del consumo di merci.
Un’altra autorevole voce che ha tematizzato i grandi spazi commerciali è quella dell’antropologo Marc Augé, padre della nozione di “non-luogo”: lo spazio extraurbano di un ipermercato, come quello di un aeroporto o di un lunapark, è interpretato da Augé come spazio senza qualità, o dalle qualità pre-determinate (luminosità, decibel, proporzioni, tutto è deciso una volta per tutte nel prototipo di questi spazi seriali). Qui gli individui non entrerebbero in relazione gli uni con gli altri. Questo concetto di relazione è però un concetto teorico non chiaro né distinto, un ideologema del sistema teorico di Augé: prescindendo da un’assiologia implicita, uno spazio in cui moltitudini di individui confluiscono insieme è uno spazio relazionale per definizione.
In anni più recenti, Vanni Codeluppi ha magistralmente riassunto la tradizione degli studi critici sulle merci e i loro spazi: in Lo spettacolo delle merci, Codeluppi rileva molto bene come i centri commerciali debbano mutuare alcune caratteristiche dai tradizionali luoghi di socialità: piazze, luoghi di transito, vie cittadine, spesso mimando le tradizionali strutture urbane (acciottolati, piccole piazze adorne di panchine e piante). Luoghi stereotipici che rinviano a un’idea platonica di città, ideale per l’homo consumens.
La scienza delle reti (Barabási, 2004) insegna che in ogni sistema complesso e strutturato come una rete esistono nodi centrali (hubs) che collegano tra loro nodi minori altrimenti irrelati. Un nodo ricco di collegamenti inediti com’è lo spazio architettonico e antropologico di un ipermercato periferico, frequentatissimo dalla popolazione metropolitana e suburbana, lungi dall’essere un banale esempio di alienazione contemporanea è al contrario un luogo ricco di senso.
Sarebbe bene iniziare a pensarlo come tale.


Testi citati:

Marc Augé M., Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, 2009.

Albert-László Barabási, Link - la scienza delle reti, Einaudi, 2004.

Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, 1976.

Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai passages a Disney World, Bompiani, 2000.

Guy Debord, La società dello Spettacolo, Sugarco edizioni, 1990.

martedì 2 ottobre 2012

La filosofia è una malattia (vecchio appunto)

Leggendo un bel libretto di uno dei miei filosofi italiani viventi preferiti mi sono reso conto che per me la filosofia ha un sottofondo psicologico che lui, uno dei miei filosofi italiani viventi preferiti, trascura completamente.
Un po' come quando ho intervistato il mio Maestro di musica, mi sono accorto che parlava di studio della musica in termini esclusivamente positivi, eppure la mia esperienza mi dice il contrario: sofferenze di vario genere possono accompagnare lo studio della musica, naturalmente se qualcosa è andato storto.
Ma sembra che le cose vadano storte molto spesso.

venerdì 28 settembre 2012

Lo spettacolo della nuda morte

Un mostro si aggira per l'Italia, anzi una mostra: una mostra di cadaveri per l'esattezza.
La mostra-mostro si intitola The Human body Exibitions e ha suscitato aspre polemiche in tutto il mondo (ma su un intellettualissimo quotidiano nostrano, qualche mese fa se ne faceva l'elogio, forse per una malintesa coerenza con il sostegno dato anni addietro all'incipiente arte transumana).
Ora l'orrido spettacolo si mostra a Torino, come se alla città non bastasse già lo shock per la crisi economica e le tensioni politiche.
Le polemiche hanno senso soprattutto perché non è chiara la provenienza dei corpi: si tratta forse delle spoglie di prigionieri cinesi, giustiziati e non reclamati dalle famiglie (crudeltà aggiunta a quel crimine contro l'umanità che è la pena di morte).
Ma le ombre di un'etica spettacolare rivoltante si allungano sull'operazione in sé: è sensato, è lecito, è interessante, è tollerabile che si dia in pasto alle folle la visione diretta (e perché non anche l'esperienza del tatto allora ?) di cadaveri umani plastificati e composti in posture divertenti, come un tempo accadeva agli animali impagliati? Il marketing della mostra blatera di opere d’arte con funzione scientifica, ma non si tratta di opere d'arte e la funzione scientifica è totalmente assente (alla sezione dedicata agli effetti di varie malattie ed errate abitudini alimentari può tutt'al più venire attribuita una funzione terroristica).
Un intelligente esperto di arte contemporanea come Francesco Bonami non ha esitato a scrivere tutto il suo disgusto – che condivido visceralmente – per questa operazione: questa roba (mostruosità, buffonata, pagliacciata, sono solo alcuni dei termini usati dal critico curatore) è pura pornografia [http://intranews.sns.it/intranews/20120525/SIQ5027.PDF]. E mi verrebbe voglia di aggiungere «con tutto il rispetto per la pornografia».
Ma che cosa diremmo se fosse un artista contemporaneo a esporre cadaveri umani per fini artistici? È vero per esempio che Jan Fabre ricopre teschi di coleotteri sgargianti e Damien Hirst espone grandi animali squartati, ma né Hirst né Fabre si sono mai sognati di trasformare cadaveri umani in pupazzi giocattolo. Né si sognerebbero di farlo, se non mi inganno completamente riguardo alla funzione e alle intenzioni dell'arte contemporanea, anche quella più forte, discutibile e « brutta ».
Riprendendo un'intuizione di michel Foucault, il filosofo italiano Giorgio Agamben chiama « nuda vita » la vita umana sottomessa al biopotere, che fa vivere e lascia morire. Qui si dovrebbe forse parlare del suo rovescio, la nuda morte, quella che la società dello spettacolo esibisce da decenni senza alcun pudore. Con l'aggravante della manipolazione tecnica dei corpi a scopo di profitto.
Ovviamente non ne faccio un'ingenua questione di « sacralità » degli esseri umani, per altro quotidianamente sacrificati su grande scala ai meccanismi mortiferi della nostra società planetaria. Vorrei però che si riflettesse su quali siano i limiti insuperabili persino dallo Spettacolo, entità neutra e priva di etica.
Quali che siano, The Human Body Exibition sembra averli irrimediabilmente superati.

PS: Spero che per una volta il perbenismo torinese abbia un senso positivo, e che la mostra sarà un orrendo flop...

martedì 11 settembre 2012

Il programma del Partito Pirata

http://programma.votopirata.it/

Il Partito Pirata si attiva politicamente per la difesa dei diritti dei cittadini ed in particolar modo è interessato allaCultura libera, al Diritto d’Autore ed alla Privacy, dentro e fuori la rete, ed enuncia i seguenti punti per i quali intende operare:

1. Principio di Legalità

Il Partito dei Pirati promuove la modifica delle leggi esistenti al fine di salvaguardare i diritti delle persone, dei consumatori, degli autori e degli operatori economici in modo equilibrato e socialmente accettabile.
Il Partito dei Pirati si riserva il diritto di promuovere delle azioni dimostrative tese a mettere in evidenza le contraddizioni di una legge, od i suoi effetti negativi sull’individuo o sulla società, nei limiti di una normale ed accettabile dimostrazione democratica, di carattere episodico e limitata nel tempo.

2. Riforma del Copyright

Il Partito dei Pirati intende promuovere una estesa e radicale azione di riforma della legislazione che riguarda ilDiritto d’Autore (Copyright), al fine di ripristinare l’equilibrio, ora perduto, tra gli interessi degli operatori economici, quelli dei consumatori, quelli degli autori e quelli della società nel suo complesso.
L’elemento fondante di questa riforma dovrà essere il concetto che i materiali protetti da copyright rappresentano la Cultura di una Nazione e come tale possono essere sottoposti a vincoli di utilizzo solo per brevi periodi di tempo e solo per determinate applicazioni di carattere commerciale.
L’accesso a questi materiali deve essere garantito anche per coloro che non possono permettersi l’accesso al mercato per ragioni economiche, ad esempio grazie ad opportune sovvenzioni o attraverso l’opera di pubbliche mediateche. In particolare, è nostra intenzione affrontare il tema del “corretto uso” dei materiali coperti da diritto d’autore (Fair Use), il tema della creazione e dell’uso di copie per uso personale ed il tema dell’uso di sistemi DRMper la protezione dei contenuti. Su tutti questi temi è nostra intenzione chiedere modifiche, anche estese e radicali, alla legislazione esistente.

3. Riforma del Brevetto

Il Partito dei Pirati intende promuovere una estesa azione di riforma della legislazione che riguarda il Brevetto (Patent), al fine di ripristinare l’equilibrio, ora perduto, tra gli interessi degli operatori economici, quelli dei consumatori, quelli degli inventori e quelli della società nel suo complesso.
L’elemento fondante di questa riforma dovrà essere il concetto che i materiali protetti da brevetto rappresentano la Tecnologia di una Nazione e come tale possono essere sottoposti a vincoli di utilizzo solo per brevi periodi di tempo e solo per determinate applicazioni di carattere commerciale.
L’accesso ad alcuni tipi di queste conoscenze ed ai prodotti che ne derivano, in particolar modo nel campo dellamedicina, deve essere garantito anche per coloro che non possono permettersi l’accesso al mercato per ragioni economiche, ad esempio grazie ad opportune sovvenzioni o attraverso l’opera di pubbliche strutture.
Il Partito dei Pirati vuole garantire che le popolazioni locali non siano ingiustamente private dei materiali e delle tecniche (culinarie, mediche e di altro tipo) che fanno parte della loro tradizione a causa di un brevetto.
Il Partito dei Pirati vuole garantire che non sia possibile sottoporre a brevetto un qualunque elemento del nostro ecosistema, dal DNA all’essere vivente nel suo complesso. Il Partito dei Pirati vuole garantire che non sia possibile sottoporre a brevetto idee astratte, codice per computer, algoritmi e formule matematiche.
Il Partito dei Pirati vuole ottenere il riconoscimento del diritto di un governo sovrano ad espropriare un brevetto in caso di necessità. Il Partito dei Pirati intende chiedere che su queste questioni venga delegato a decidere unorganismo sovrannazionale e super partes di cristallina affidabilità, come potrebbe essere l’ONU od ilParlamento Europeo.
Il Partito dei Pirati vuole garantire che i brevetti non vengano utilizzati per impedire l’accesso dei cittadini ad una tecnologia, per impedire l’accesso al mercato ad aziende concorrenti o come strumento di scambio tra aziende. In tutti questi casi, riteniamo che sia necessario l’annullamento immediato del brevetto.
Il Partito dei Pirati vuole garantire che i brevetti siano validi solo nella misura in cui vengono effettivamente utilizzati per rendere disponibile una tecnologia sul mercato. Riteniamo che un brevetto che non viene utilizzato, per qualunque motivo, debba essere annullato dopo solo un breve periodo di attesa.

4. Riforma del Trademark

Il Partito dei Pirati intende promuovere una modesta azione di riforma della legislazione che riguarda i Marchi, i Disegni ed i Modelli, al fine di ripristinare l’equilibrio, ora perduto, tra gli interessi degli operatori economici (aziende) e quelli dei consumatori.
In particolare, il Partito dei Pirati vuole garantire che non sia possibile sottoporre alla registrazione di Marchio dei nomi e dei simboli che già caratterizzano delle realtà simboliche riconosciute ed utilizzate dalla popolazione ma ancora non consolidate (ad esempio, neologismi non ancora inseriti in nessun dizionario ma già ampiamente riconosciuti dalla popolazione).
Il Partito dei Pirati vuole garantire che le popolazioni locali non siano ingiustamente private delle denominazioni dei prodotti e delle tecniche che fanno parte della loro tradizione a causa di un marchi che viene registrato da una azienda o da un consorzio di aziende.
Il Partito dei Pirati vuole garantire che non sia possibile sottoporre a registrazione di Disegno o Modello idee astratte, o comunque vaghe, di un prodotto, ma solo una sua effettiva e ben definita implementazione stilistica. Lo scopo finale di questo intervento è quello di permettere una più ampia concorrenza sul mercato, tra operatori diversi, in settori in cui l’elemento predominante è di tipo stilistico (prodotti di moda) o di tipo produttivo (prodotti alimentari tipici).

5. Riforma del Segreto Industriale

Il Partito dei Pirati intende promuovere una estesa azione di riforma della legislazione che riguarda il Segreto Industriale, al fine di ripristinare l’equilibrio, ora perduto, tra gli interessi degli operatori economici (aziende), quelli dei consumatori, quelli dei ricercatori e quelli della società nel suo complesso.
L’elemento fondante di questa riforma dovrà essere il concetto che le informazioni raccolte durante il lavoro diricerca all’interno delle aziende e delle università sono un bene di pubblica utilità, che deve entrare a far parte del pubblico dominio nel minor tempo possibile. A questo fine, il Partito dei Pirati intende riconoscere alle aziende il diritto ad un breve periodo di riservatezza, utile alla stesura di una richiesta di brevetto od alla conclusione di una parte sostanziale del processo di ricerca e sviluppo.
Il Partito dei Pirati intende anche chiedere che i ricercatori dell’industria siano liberi di rendere pubbliche le informazioni da loro raccolte in tempi brevi, dell’ordine di non più di 3 anni, dal momento della rivelazione delle informazioni al management aziendale.
Il Partito dei Pirati intende chiedere che il ricercatore sia tenuto per legge a divulgare immediatamente ogni informazione che possa contribuire a salvare vite umane o che possa evitare danni alla salute dei cittadini od all’ambiente in cui essi vivono

6. Diritto di Accesso alla Tecnologia

Il Partito dei Pirati intende ottenere il riconoscimento legale del diritto del cittadino ad accedere alla Tecnologia che è disponibile in ogni singolo momento storico nel suo paese.
Il Diritto di Accesso alla Tecnologia viene violato ogni volta che una azienda si rifiuta di produrre un oggetto di cui possiede i brevetti per ragioni economiche (scarsa remuneratività) o strategiche (logiche di scambio con altre aziende). In questo caso, la responsabilità è dell’azienda e l’intervento dovrà essere teso all’esproprio del brevetto.
Il Diritto di Accesso alla Tecnologia viene violato ogni volta che un cittadino non può accedere ad una tecnologia di carattere medico, e di rilevante importanza per la qualità della sua vita, per ragioni economiche o di altro tipo. In questo caso, la responsabilità è dello Stato e l’intervento dovrà essere teso alla copertura dei costi ed alla soluzione dei problemi tecnici di fornitura.

7. Diritto di Accesso alla Cultura

Il Partito dei Pirati intende ottenere il riconoscimento legale del diritto del cittadino ad accedere alla Cultura che è disponibile in ogni singolo momento storico nel suo paese.
Il Diritto di Accesso alla Cultura viene violato ogni volta che una casa editrice, od un altro operatore economico, si rifiuta di produrre e/o distribuire un’opera di cui possiede i diritti per ragioni economiche (scarsa remuneratività) o strategiche (logiche di scambio con altre aziende). In questo caso, la responsabilità è dell’azienda e l’intervento dovrà essere teso all’esproprio dei diritti.
Il Diritto di Accesso alla Cultura viene violato ogni volta che un cittadino non può accedere ad un’opera, per ragioni economiche o di altro tipo. In questo caso, la responsabilità è dello Stato e l’intervento dovrà essere teso alla copertura dei costi ed alla soluzione dei problemi tecnici di fornitura. Naturalmente, lo Stato ha tutto il diritto di decidere i tempi ed i modi dell’Accesso (Differita TV, DVD, visione/ascolto presso una medioteca, prestito gratuito od a prezzo politico, etc.).

8. Diritto ad una Fornitura Leale

Il Partito dei Pirati intende ottenere il riconoscimento legale del diritto del cittadino ad ottenere una fornitura di Beni e Servizi che sia caratterizzata dalla massima lealtà nei suoi confronti da parte del Fornitore.
Il Diritto ad una Fornitura Leale viene violato ogni volta che vengono imposti dei limiti arbitrari al Bene od al Servizio che viene fornito. Consideriamo casi eclatanti di violazione di questo diritto le limitazioni sul traffico Internet imposte dai fornitori di accesso (Traffic Shaping e Filtering) e le limitazioni imposte al funzionamento dei PC da parte dei produttori grazie a molte tecnologie di tipo DRM e di tipo Trusted Computing.
Consideriamo assolutamente inaccettabili le limitazioni d’uso imposte ai sistemi per pure ragioni di marketing, come la limitazione d’uso a sola Game Console della XboX di Microsoft (che, di fatto, è un vero PC). Consideriamo assolutamente inaccettabili le limitazioni d’uso imposte ai sistemi per pure ragioni di strategia aziendale, come l’uso di formati proprietari che limitano la possibilità di interazione con sistemi equivalenti prodotti dalla concorrenza e come l’assenza delle opportune funzioni di import/export necessarie a scambiare dati con sistemi equivalenti prodotti dalla concorrenza.
La fornitura di un Bene o di un Servizio deve essere improntata alla sua massima utilizzabilità sul mercato ed alla sua massima versatilità d’impiego.

9. Diritto alla Libertà di Scelta e di Azione

Il Partito dei Pirati intende ottenere il riconoscimento legale del diritto del cittadino ad avere la più totale liberta di scelta nell’acquisto di Beni e Servizi e nel loro uso dopo l’acquisto.
Il Diritto alla Libertà di Scelta e di Azione viene violato ogni volta che il cittadino/consumatore viene obbligato o condizionato ad un acquisto a causa della esistenza di vincoli imposti dai suoi fornitori. Consideriamo un esempio eclatante di violazione di questo diritto la politica di molte aziende che non forniscono strumenti adatti per l’interazione dei loro sistemi con sistemi prodotti dalla concorrenza o l’integrazione dei loro sistemi in sistemi di complessità superiore (scarsa o nulla interoperabilità).
Il Diritto alla Libertà di Scelta e di Azione viene violato ogni volta che al cittadino/consumatore viene negato un particolare tipo di utilizzo di un bene regolarmente acquistato senza che questo utilizzo rappresenti un danno diretto per il fornitore. Consideriamo un esempio eclatante di violazione di questo diritto la negazione del diritto alReverse Engineering dei sistemi quando questa attività non è rivolta al superamento dei sistemi di protezione del diritto d’autore (DRM) , bensì all’interazione con altri sistemi od all’integrazione in sistemi di complessità superiore.

10. Diritto alla Privacy

Il Partito dei Pirati intende pretendere il riconoscimento concreto del diritto del cittadino alla privacy, già più volte enunciato nelle Costituzioni Italiana ed Europea ed ancora largamente negato proprio ad opera di quei Governi che dovrebbero garantirlo.
In particolare, il Partito dei Pirati intende rivolgere la propria attenzione alla riservatezza delle comunicazionied intende ottenere la equiparazione di qualunque tipo di comunicazione (audio, telefonica, radio, digitale, etc.) alla comunicazione postale che è, tradizionalmente, l’oggetto di elezione di questo diritto all’interno della legislazione esistente.
Il Partito dei Pirati intende anche richiedere l’esplicito riconoscimento del diritti del cittadino ad usare sistemi crittografici per garantire la riservatezza della proprie comunicazioni

11. Diritto alla Comunicazione

Il Partito dei Pirati intende ottenere il riconoscimento legale del diritto del cittadino a comunicare con qualunque altra persona in qualunque momento ed in qualunque modo.
Il Diritto alla Comunicazione viene violato ogni volta che al cittadino viene negato l’uso di un canale di comunicazione per ragioni tecniche o commerciali risolvibili con ragionevole facilità. Consideriamo un esempio eclatante di violazione di questo diritto la negazione del libero uso di sistemi Wi-Fi dentro e fuori del domicilio privato. Consideriamo un esempio eclatante di violazione di questo diritto la negazione o la limitazione dell’uso di sistemi di File sharing (Peer-to-Peer), già messa in atto da alcuni governi.

12. Diritto alla Espressione

Il Partito dei Pirati intende pretendere il riconoscimento concreto del diritto del cittadino alla libertà di espressione, già più volte enunciato nelle Costituzioni Italiana ed Europea ed ancora largamente negato proprio ad opera di quei Governi che dovrebbero garantirlo.
In particolare, il Partito dei Pirati intende chiedere la modifica della legislazione esistente in fatto di attività giornalistica in modo da liberare la figura emergente del blogger dai vincoli che erano stati pensati per i giornalisti professionisti. Chi parla a proprio nome, od a nome di una associazione di qualunque tipo, e non a nome di un giornale, deve essere libero di dire ciò che vuole, nel modo e nei tempi che ritiene più opportuni. L’unico limite accettabile a questo diritto è quello rappresentato dal reato di diffamazione e dall’offesa personale.

venerdì 7 settembre 2012

Quali sono gli elementi distintivi che caratterizzano Liquidfeedback?

  • 01) Software caricato su due server del PP-De gestito da un'apposito team dedicato alla sicurezza dello stesso
  • 02) L’utente accede dal browser in https, non serve alcun installazione di software aggiuntivo
  • 03) Partecipazione tramite pseudonimo (dall’interno del sistema gli iscritti possono conoscere i real name degli utenti) per questione di privacy verso l’esterno che invece vede solo il nick
  • 04) Processi strutturati con tempistiche pretabilite e fisse
  • 05) Possibilità di discussione dentro e fuori dal sistema (il dibattito sulle proposte viene preferibilmente indirizzato verso l’esterno)
  • 06) Delegazione su più livelli con possibilità di concessione/rimozione senza limiti “quantitativi” e temporali (tante volte quanti si vuole e in ogni momento)
  • 07) Neutralità della Piattaforma
  • 08) Tracciabilità su tutti i processi
  • 09) Nessun filtro sulla creazione delle Proposte, ogni membro/utente ha uguale diritto e possibilità
  • 10) Nessuna moderazione dei contenuti delle proposte (a meno di proposte razziste o criminali)
  • 11) I numeri identificativi di Temi e Proposte sono assegnati automaticamente dal sistema
  • 12) La Proposta che origina il Tema viene trattata allo stesso modo di quelle immesse successivamente
  • 13) Tutti i processi software e gli esiti del voto sono traasparenti
  • 14) L’intera amministrazione della Piattaforma è chiaramente documentata ed il software open source è controllabile da chiunque 
http://www.piratpartiet.it/mediawiki/index.php?title=Lqfb_faq#Non_ho_ancora_ricevuto_un_invito_a_lqfb._Come_posso_partecipare.3Fhttp://www.piratpartiet.it/mediawiki/index.php?title=Lqfb_faq#Non_ho_ancora_ricevuto_un_invito_a_lqfb._Come_posso_partecipare.3F

mercoledì 29 agosto 2012

La doctrine deleuzienne des concepts philosophiques (un pezzo di mémoire de DEA?)


La doctrine deleuzienne des concepts philosophiques a été exposée de façon complète en Deleuze & Guattari 1995: il s’agit d’une théorie ouvertement métaphysique, d’une métaphysique préscriptive qui a été assez critiquée semblant ne pas se confronter avec la science et la logique contemporaine1. Cette théorie des concepts oppose nettement les concepts philosophiques aux pseudo-concepts de la science (les fonctifs) de la logique (prospects) et de l’art (percepts et affects), au point qu’elle doit bien apparaître comme

"un exemple particulièrement caractéristique et en même temps extrème de ce type de croyance “philosophante” (...) qui nous dit que les philosophes créent des concepts qui sont de leurs exclusive propriété.
Deleuze et Guattari appartiennent en effet à ces philosophes qui] diront que ce que les psychologues peuvent dire à propos des concepts ne les intèresse pas (ils ont même la tendence à penser que les concepts sont des créatures purement philosophiques)"2.

Le style philosophique est le dynamisme métaphorique propre aux concepts (philosophiques). Qu’il s’agisse de métaphore est certain, même si Deleuze, pour seconder les exigence du matérialisme spiritualiste3 qui informe sa pensée, tend à nier l’existence de la dimension métaphorique, atteignant sans doute les jugements de Wittgenstein et Lacan sur l’inexistence réelle du métalangage. Les concepts sont des entités immatérielles, donc ils ne peuvent subir un mouvement que métaphorique : il faudrait alors expliquer en quoi cela consiste. En bergsonien Deleuze amplifie l’ontologie du mouvement jusqu’à y comprendre «la perception, l’affection, e l’action comme trois espèces du mouvement»4. Sur le plan métaphysique tout est mouvement, devenir, et la stase n’est qu’une illusion (transcendentale)5. Aussi il résulte cohérent penser que les concepts vivent une forme de mouvement. Mais il est pour nous difficile comprendre qu’il s’agisse d’un mouvement métaphysique et non d’un mouvement historico-culturel, mouvement d’idées qui serait accettable à l’intérieur d’un modèle “épidémiologique” de la transmission culturelle, tel celui de Sperber 1996. Deleuze parle d’un mouvement qui doit forcément être conçu comme mental: est-ce qu’il nous faudrait une sorte d’intuition (un quale) du mouvement conceptuel?


1 Soulez 19???
2 Engel 1996, p. 204 et n.1 it
3 Acotto [1998], p.19: nous y qualifions la métaphysique deleuzienne comme un «matérialisme idéaliste»..
4 Deleuze [1990], p.166
5 Pour naïve qu’elle puisse paraître, cette métaphysique est peut-être plus proche de la Théorie de la Rélativité que d’autres métaphysiques plus scientifiques qui hypostatisent les formes e les objets. Sur la Rélativité et la Méchanique Quantique, cfr. Nozick [2001].

Jacques Derrida da me medesimo manualizzando


Presentazione.
La genealogia filosofica di Derrida è del tutto tipica della cultura francese degli anni ’40-‘50, e in particolare della formazione degli allievi dell’Ecole Normale Supérieure [vedi GEOGRAFIA DEL POST-STRUTTURALISMO]: si tratta delle canoniche “tre H” (Hegel, Husserl e Heidegger) e degli autori della cosiddetta (da Paul Ricoeur) scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud). Rispetto a Foucault e Deleuze, Derrida è un pensatore ancor più emblematico del postmodernismo, e come tale ha sempre ricevuto le più accese critiche da parte dei filosofi avversi al postmodernismo: significativa a questo proposito fu la contestazione dell’assegnazione della laurea honoris causa a Cambridge, nel 1992, con il pretesto che nella filosofia derridiana non fosse possibile reperire una teoria della verità (in un senso accettabile dagli analitici). Più di altri filosofi postmoderni (o ascritti a tale “corrente”) Derrida è stato ripetutamente accusato di non essere un vero filosofo ma piuttosto uno scrittore (un’accusa, questa, spesso mossa anche a Nietzsche): i suoi testi sarebbero infatti sprovvisti delle caratteristiche minime richieste al genere filosofico (argomentazione chiara, tematizzazione adeguata dei problemi e dei concetti, indicazione di soluzioni ai problemi proposti, ricerca di una teoria soddisfacente). Ma proprio l’originalità del trattamento sperimentale che Derrida riserva alla filosofia, da una parte sottoponendola a qualcosa di simile a una psicoanalisi freudiana, dall’altra sollecitandola fino ai suoi confini con la letteratura e l’arte, costituisce buona parte dell’importanza e dell’influenza che questo grande filosofo ha esercitato ed esercita tuttora.


Decostruzione e differenza
I due concetti cui il nome di Derrida è inscindibilmente legato sono la Decostruzione e la differenza. Di Decostruzione aveva già parlato Heidegger (in tedesco Dekonstruktion o Abbau): è un’operazione metafisica che ha luogo nell’ambito della storia dell’essere; è il venire meno, il destrutturarsi, o decostruirsi appunto, delle tradizionali istanze concettuali del pensiero metafisico, ossia – nella lettura nietzscheana e poi heideggeriana – del pensiero tout court, almeno di quello occidentale, e per un portato idealista sotteso a tutta l’ermeneutica (“l’essere che possiamo comprendere è linguaggio”, Gadamer) della realtà che non è pensabile al di fuori del pensiero/linguaggio.
La metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, consterebbe di una serie di opposizioni concettuali, quali: sensibile/soprasensibile, uomo/animale, uomo/donna, mito/logos, razionale/irrazionale, voce/scrittura, bene/male, ecc. Il “metodo” decostruttivo (ma in realtà si tratta di un procedimento così erratico e per certi versi poeticamente creativo da rendere impossibile parlare di metodo) mostra che all’interno di ogni testo filosofico della tradizione il discorso si struttura necessariamente sulla base di qualche opposizione del genere, mirando a mettere in luce che gli opposti stanno tra loro in una tensione dialettica sempre aperta su un terzo termine, che per Hegel era la Sintesi.
Nella conferenza omonima Derrida pensa il concetto di Differenza - o differanza come scrivono alcuni traduttori (in francese différance, con la a anziché con la e) - come alla differenza metafisica che è l’origine di tutte le differenze, ossia di tutti i segni e di tutte le cose: l’arci-differenza. La Differenza non è questa o quella differenza empirica o trascendentale perché la stessa opposizione empirico/trascendentale è possibile grazie al differire della Differenza: è la Differenza in sé, ciò che Plotino chiamava, con un’espressione spesso citata da Derrida, l’informe traccia della forma. Il nome stesso, différance, non è comprensibile se non leggendolo, il che è un buon esempio dell’idea centrale di Derrida riguardo alla scrittura, dalla metafisica tradizionalmente rimossa rispetto alla voce.


Metafisica della scrittura. La tematica della Differenza trova nella scrittura un suo banco di prova privilegiato. In una serie di opere infatti (La voce e il fenomeno; Della grammatologia; La scrittura e la differenza) Derrida ha facile gioco nel mostrare come la filosofia abbia tradizionalmente subordinato la scrittura alla voce, ipostatizzando lo spirito vivente (si pensi alla coscienza della fenomenologia husserliana) e considerando la scrittura come un supplemento privo di vita e al limite perverso e nocivo (il Fedro platonico è all’inizio di questa storia di rimozione della scrittura). Derrida pensa invece che la scrittura, intesa come iscrizione, preservazione del presente attraverso tracce che testimoniano il passato e permettono l’interpretazione futura, sia originaria rispetto al pensiero e alle sue manifestazioni viventi, come la voce in tutte le sue declinazioni: voce della coscienza, soliloquio interiore, dialogo, ecc. Derrida ha chiamato “logocentrismo” questa rimozione strutturale della scrittura: la metafisica pospone e subordina la materialità del significante (la traccia in tutti i suoi aspetti non significativi) all’idealità del significato, il logos.
Di tutte le coppie concettuali decostruite da Derrida quella di scrittura e voce è senz’altro la più significativa: da essa deriva la corrente “testualista”, teorizzata da Richard Rorty e di cui Derrida sarebbe il massimo esponente. La famosa affermazione derridiana secondo cui “non esiste fuori-testo” è stata infatti interpretata nel senso che non esisterebbe nulla al di fuori di un discorso teorico, di un mondo testuale costruito da questa o quella tradizione filosofica, venendo a sostenere qualcosa di simile al filosofo della scienza Willard Van Orman Quine, secondo cui nulla esiste al di fuori di una teoria. Derrida ha successivamente attenuato il senso di questa affermazione, intendendo che nulla avrebbe senso al di fuori del suo contesto: se questa attenuazione rischia di risultare banalmente vera, si mostrano qui altre possibili analogie del pensiero filosofico derridiano, in particolare con la filosofia del secondo Wittgenstein e la sua tematizzazione delle forme di vita e dei giochi linguistici, che vanno osservati più che pensati.


Verità, metodo, teoria
In comune con il post-strutturalismo (e a differenza di alcuni suoi successori come Alain Badiou, cfr. cap. Pop-filosofia, maitres-à-penser e neurofilosofi) Derrida questiona il concetto stesso di verità, pur non approdando affatto a posizione relativistiche (questo sarà evidente nell’ultima fase della produzione derridiana, quella più spiccatamente etico-politica), ma piuttosto a un arcitrascendentalismo di stile non incompatibile con quello kantiano. Se ogni dato empirico ha un’origine trascendentale, il trascendentale è l’origine della verità; tuttavia il trascendentale non potrà essere ridotto all’elenco kantiano di forme pure dell’intuizione, categorie e schemi, ma si rivelerà di volta in volta come Differenza attraverso l’operazione di decostruzione dei testi e delle tracce di cui la storia della metafisica è la disseminazione.
Cade così da sé l’accusa di mancanza di metodo, spesso rivolta a Derrida e alla decostruzione, e che rappresenta una differenza forte rispetto all’ermeneutica gadameriana cui pure spesso Derrida viene avvicinato. La decostruzione non può avere un metodo semplicemente perché la decostruzione decostruisce ogni metodo, mostrando l’impalcatura logica e concettuale e la sua non-assolutezza, la sua relatività dialettica che fa sì che ogni concetto chiaro e distinto sia sempre dipendente e quindi intrinseco al proprio opposto: non per nulla si è parlato di un iper-hegelismo di Derrida.
In questo modo si indebolisce anche la possibilità di una teoria filosofica compiuta: la decostruzione si caratterizza come dissoluzione di tutte le teorie esistenti, non certo per spirito distruttivo ma perché queste si basano su presupposti che celano la struttura dialettica della realtà e del pensiero: portare alla luce il rimosso di ogni pensiero non può che essere un’operazione demistificatrice e salutare.


Messianismo e politiche spettrali. L’ultima fase della filosofia derridiana è caratterizzata da un forte interesse per l’etica e la politica, che in precedenza erano sempre stati sullo sfondo degli scritti derridiani, con prese di posizione anche molto forti (per esempio contro l’eurocentrismo dello Husserl della Crisi delle scienze occidentali). In una serie di opere in cui si decostruiscono come sempre i testi della tradizione letteraria, filosofica, etica e politica, Derrida sferra un potente attacco all’umanismo progressista e al relativismo postmodernista, a dispetto del fatto che la sua filosofia sia spesso stata criticata come una delle forme filosofiche del relativismo contemporaneo.
Parallelamente a un accresciuto interesse per la politica si accentua anche l’insistenza di Derrida sulla tematica del messianismo ebraico, che viene trasposto dal campo religioso a quello puramente metafisico. La struttura logica soggiacente a tutti gli atti di decostruzione mostrati nei testi derridiani è sempre quella per cui se è vero che, secondo la lezione di Heidegger, non si dà mai una pura presenza (il vero dono non è quello che si può donare, il vero perdono non è quello che si può concedere ecc.) è anche vero che gli esseri umani sono costantemente in cerca di una piena presenza. L’analogia con la filosofia di Kant è evidente, e infatti vi è un’istanza “illuministica” in quest’ultima fase del pensiero derridiano: ciò che non è coglibile dalla ragione come oggetto del pensiero acquista il suo senso in prospettiva tendenziale, come idea della ragione (o come orizzonte della decostruzione).
In Spettri di Marx (1993) Derrida esplicita definitivamente il suo interesse per la filosofia politica. Marx viene riletto in una chiave originale, quasi “letteraria”, e messo a confronto con Shakespeare: lo spettro del comunismo che si aggira per l’Europa (Manifesto del partito comunista) viene paragonato al fantasma del padre di Amleto e analizzato nei termini freudiani del ritorno del rimosso, per cui il naufragio del comunismo – sovietico – non è un argomento decisivo contro la persistenza delle istanze rivoluzionarie e di emancipazione, di cui Marx nella lettura derridiana (che ne fa più un pensatore messianico dell’emancipazione e della giustizia che un filosofo della rivoluzione) appare un campione.
Gli ultimissimi testi di Derrida testimoniano di un impegno politico diretto e radicale in un modo insospettabile nelle prime fasi della sua opera: il filosofo francese mette infatti il suo armamentario decostruttivo a confronto con l’attualità mondiale, stigmatizzando per esempio la guerra americana in Afghanistan e Iraq e interpretando l’attentato dell’11 settembre alle due Torri Gemelle come una conseguenza della politica di terrore attuata dagli Stati Uniti nel corso del dopoguerra. Inoltre, molti tra gli ultimi testi di Derrida decostruiscono l’opposizione uomo/animale, inserendosi in modo peculiare nel recente dibattito filosofico animalista.

lunedì 27 agosto 2012

MANGIAR TANTO, MANGIAR POCO (Vecchi racconti, 1998))

Al collegio G. spesso accanto a me mangiava un ragazzo dalle strane abitudini alimentari. Fino alla fine del pasto, sei mele giacevano inesorabilmente davanti al suo piatto: alla fine due venivano mangiate e quattro le raccoglieva con le grosse mani femminee, per consumarle in stanza durante la serata di studio.
R. mangiava tanto ma un tempo era stato anoressico. A quell'epoca avevo scoperto da poco che cos'è l'anoressia, perché me l’aveva spiegato V., che era stata anoressica negli USA. All'età di diciotto anni V., di ritorno dall'Intercultura negli USA, era irriconoscibile, scheletrica, una persona diversa rispetto a prima. Anoressica. Gli ultimi tempi negli USA mangiava mezzo toast al giorno, adesso invece V. è in carne, è guarita perfettamente dall'anoressia, più di recente però ha avuto altri problemi psicologici di cui non mi sono interessato perché non eravamo più per niente amici.
Io peso 55 chilogrammi e sono alto un metro e settantasette, dovrei pesare minimo dieci chili in più. Mangio troppo poco. Al tempo del liceo, l'anno prima della maturità, avevo smesso di mangiare carboidrati per un certo tempo, perché credevo di avere la pancia. Per un altro periodo mangiavo pasta scondita al posto del pane anche a colazione, perché avevo letto su un libro di macrobiotica che il pane occidentale diluisce il sangue. Non volendo indebolirmi a causa del sangue diluito preparavo tanta pasta e la lasciavo nel colapasta in forno (il colapasta era di plastica), cosi al mattino benché non fosse per niente buona me la trovavo in forno, fredda da accompagnarsi con la soia prima di andare a scuola. L'avrò fatto per poco tempo ma nel mio ricordo è un'intera epoca.
Adesso invece ho deciso di mangiare tanto. Per la verità l'avevo già deciso l'anno scorso, mi ero detto che è importante avere un corpo forte se non ci si vuole ammalare facilmente e morire come mio padre, e mi ripromettevo di prendere cinque chili entro Natale. Ma non c’è stato niente da fare, non ci sono riuscito.
Ora da qualche giorno cerco di mangiare a ogni pasto sia proteine che carboidrati, e questo dovrebbe farmi ingrassare.
Sabato sera abbiamo cenato in un ristorante giapponese di Place Saint Opportune, e mentre parlava di quanto piaccia il sushi a Franco Quadri A. ha preso il tempura dopo il sushi, cioè ha mangiato due volte. Mi ha fatto piacere vedere uno che mangiava tanto. Suppongo che lo facesse per un motivo preciso, però non mi era chiaro quale fosse questo motivo che lo spingeva a mangiar tanto.

domenica 26 agosto 2012

L'educazione esistenziale dell'intellettuale squattrinato (intervista inedita e troppo personale a Gianluigi Ricuperati )

Lo scrittore e giornalista Gianluigi Ricuperati esordisce con un romanzo molto bello e toccante (Il mio impero è nell'aria, Minimum Fax), nel quale visita alcune possibilità contemporanee di inautenticità esistenziale e dolorosa. Il denaro, e l'ansia di disporne prendendolo a prestito, è uno dei motori narrativi delle vicende di Vic Gamalero (alter-ego virtuale dello scrittore?). Ma il rapporto con i genitori e l'amore ricevuto e dato, con una faticosa presa di coscienza, sono la vera chiave per comprendere questo libro, che merita letteralmente la definizione che il filosofo Gilles Deleuze dava di un'opera d'arte: blocco di sensazioni.

Vic Gamalero è un intellettuale - anche se tu non lo presenti come tale (diciamo che camuffi un po' il suo status sociale). Mi domando se la sua formazione incompleta e fluttuante, che lo porta a occuparsi di cose di cui non sa nulla pur essendone attratto, come l’architettura, sia un’implicita critica a un tipo di intellettuale odierno (quello postmoderno) oppure se tu abbia piuttosto voluto fotografare un tipo umano particolare, affetto da una debolezza di volontà slegata dal contesto storico.
La tua impressione è corretta. Vic Gamalero è un intellettuale, ma un intellettuale marginale dell'era hyper-finanziaria, con un cumulo di conoscenze e strumenti assai superiore a quelli richiestigli. È un intellettuale sottoutilizzato, come molti altri - in questo è una rappresentazione realistica, il romanzo, per nulla metaforica, a mio parere. Non sono d'accordo invece con la tua definizione di 'debolezza di volontà' riguardo alle azioni e ai pensieri di Vic. Mi pare invece l'esatto opposto: a intrappolarlo è un eccesso di volontà, con una totale assenza di strategia. Cos'è un intellettuale, se non un agente deputato alla produzione di conoscenza? Ecco, in questo senso Vic è capace di produrre conoscenza, pur nella sua volatilità e superficialità, tocca forse delle corde nascoste e abbastanza profonde all'interno dei 'sistemi' in cui s'infila più o meno lecitamente: l'architettura, la pubblicità, il recupero crediti, l'élite economica. Dice cose ‘vere’ - come direbbe Franca D'Agostini - rispetto al suo sfregamento con questi 'mondi', e anche rispetto a questi mondi in se stessi. Il punto è un altro. È che Vic, pur essendo a tutti gli effetti un agente della produzione di conoscenza, non si accontenta della conoscenza: vuole produrre realtà. Vuole influenzare i processi che accadono nella cosiddetta realtà: vuole influenzare gli altri, che sono parte consistente della 'realtà'. Per rovesciare il famoso motto coniato a mo' di titolo dal grande Tommaso Landolfi - uno degli eroi citati e nascosti di questo personaggio, con la sua languida attrazione per il nulla e per la creazione e la distruzione di valori, economici e sentimentali - 'cosa importa / se non la realtà'?

Nonostante si muova in un ambiente normalmente politico (c’è il cattolicesimo borghese dei genitori; viene anche evocatala figura di un giudice che combatte la mafia), Vic è un personaggio impolitico. Per esempio, abbandona l’Opus Dei nel giorno stesso della beatificazione di Escrivà de Balaguer; ci si potrebbe attendere un giudizio sul personaggio beatificato (notoriamente simpatizzante per il nazionalsocialismo), invece sembra quasi che Vic prenda le distanze dall'Opus Dei in virtù dell'ascolto del mitico disco dei Velvet Underground. Il tuo è cinismo verso la politica?
Impolitico è una definizione interessante. Considerazioni di un impolitico di Mann è uno dei miei libri prediletti e la sua posizione rispetto alle turbolenze ideologiche del 900 è per me un modello di relazione corretta (e impermeabile alle mode) di relazione fra un letterato e la politica. Come cittadino ho opinioni contraddittorie e screziate, pur all'interno di una generale adesione a ciò che potremmo chiamare liberalismo di sinistra: provo simpatia per Vendola, che ho conosciuto recentemente, ma ritengo che l'Italia abbia bisogno disperato di un nuovo Prodi. Generalmente giudico un politico verificando la sua attitudine verso la letteratura, perché in un mondo che emargina sempre di più il sapere letterario, sostenerlo e amarlo è per me prova di coriacea appartenenza al meglio del passato e coraggiosa diffidenza nei confronti di un futuro che sembrerebbe poco incline ai polverosi abissi gratuiti che allignano al fondo di ogni educazione letteraria. Io detesto gli scrittori che emettono giudizi semplicistici per bocca dei loro personaggi. Vic è indifferente alla beatificazione di Jose Maria Escrivà perché è rapito dalla testa ai piedi: completamente avvinto dalla scoperta di un meraviglioso disco che fa parte per me della storia della letteratura e dell'arte contemporanea non meno che della musica rock. La beatificazione è per lui un rito fatto da adulti morti. I Velvet e il loro mondo sono un rito fatto da giovani immortali.

Il bisogno di denaro di una persona “irregolare” ma di estrazione benestante è uno dei motori narrativi del tuo romanzo e ha una fortissima valenza emotiva e affettiva. A un certo punto però raffiguri in maniera grottesca un ricco miliardario che si priva di tutti i suoi soldi per motivi etici (un po’ come fece il filosofo Ludwig Wittgenstein). Non hai dato un’immagine troppo sbrigativa e ingenerosa di chi col denaro ha (o cerca di avere) un rapporto non egoistico?
Non credo. Anzi. È una storia vera, quella del miliardario, che ho di peso trasferito nella realtà romanzesca; occupa un momento importante del libro, e non contiene commenti del narratore, che in un romanzo trainato dal continuo commentare del narratore è un segno di appartenenza a uno status speciale: è un'isola di fuga da alcune dinamiche psicotiche dominanti nella narrazione, ma lasciata così, come una porta che si potrebbe aprire, o forse l'incipit di un romanzo futuro. Il fatto che il miliardario, privandosi del proprio capitale progressivamente e radicalmente, finisca col compiere alcune gesta obbiettivamente grottesche (come cercare di farsi espiantare il fegato in un disperato bisogno di ‘donare’ anche parti del corpo) certamente fa acquisire un punto alla squadra di coloro che ritengono l'istinto alla proprietà e al difenderla un tratto 'naturale’ e non troppo modificabile culturalmente (cioè eticamente). Non ti dirò come la penso, anche se è facile intuirlo. Però ti dirò questo: nella mia vita, personale intendo, ho sperimentato e sperimento delle pulsioni verso la generosità che trovo talvolta inquietanti: cioè mi appaiono come inversioni della natura, sebbene possiedano l'indubbia qualità di farmi stare molto bene. È come dire: non essere egoisti con la proprietà e con le proprie cose (materiali e immateriali) rende un po' più felici e un po' più strani, irregolari rispetto al decorso umano.

Ti ho sentito dichiarare che il tuo potrebbe essere il primo “personaggio post-berlusconiano” della letteratura italiana contemporanea. Ma per configurare alternative antropologiche al berlusconismo imperante non ci vorrebbe un personaggio un po’ più engagé di Vic, che rispetto all'Italia contemporanea appare comunque come un outsider (e anche piuttosto simpatico)?
I personaggi engagé producono talvolta letteratura che non suscita interesse, almeno in me. Io credo che la svolta antropologica non dipenderà dalla letteratura o dal cinema, ma da un complesso, troppo complesso coincidere di effetti e conseguenze – un incrocio fra un crollo e una prova d'orchestra. I personaggi che m'interessano di più sono i faccendieri, figuriamoci se può funzionare l'engagement di un faccendiere...

A differenza di Vic tu non sei certo un intellettuale disorientato e in crisi con la realtà: Vic rappresenta un destino che hai pensato possibile per te?
Sono disorientato, ma non in crisi con la realtà. Mi piace maneggiarla, affrontarla, influenzarla per come posso. Il destino di Vic è esattamente l'opposto, e spero con ogni vivacità d'animo che non sia il mio.

Mi pare che il tuo romanzo si presterebbe molto bene a una versione cinematografica: ci sono progetti in questo senso?

Sarebbe cosa buona e giusta. Ci sono contatti ma per ora non posso dire nulla.

venerdì 17 agosto 2012

Sceneggiatura film Heidegger, 1


Scena Arendt.

Mdp nell’angolo in basso a destra dell’aula, orientata dal basso in alto in modo da riprendere gli scranni degli studenti.

Arendt siede in mezzo a un gruppo di allievi, al centro degli scranni; due ragazze sedute in prima fila al centro, altre due in fondo a destra (rispetto mdp). Arendt è vestita di un sobrio abito verde, le braccia stese dritte sul banco; il suo sguardo è inespressivo, immobile, ma dolce, e punta verso Heidegger che tiene lezione.

Heidegger:

... [un brano di Ontologia sul senso dell’esistenza]

Alla fine della lezione uno studente va da H e gli porge la mano con gravità; mentre ancora gliela serra gli dice:

Studente: «Lei ha saputo elevare lo spazio accademico alla tensione dialettica di un autentico spazio sacro. Le rispondenze essenziali del Suo pensiero con lo spirito del tempo ne mutano autenticamente la struttura epocale. Ma la Germania ha bisogno di un Führer, acciocché la decisione esistenziale del popolo tedesco trovi modo di formularsi nella sua originarietà.»

Heidegger non dice nulla e resta dietro la cattedra; lo studente abbassa lo sguardo ed esce dall’aula. Hannah resta seduta nel banco. Lei e Heidegger si fissano l’un l’altro in silenzio per diversi secondi (mezzo minuto).

Arendt (guardando Heidegger, con tono inespressivo): «Nella passione, con la quale, soltanto, l’amore coglie il chi dell’altro, va per così dire in fiamme l’interstizio mondano che ci collega agli altri e al tempo stesso ce ne separa. Ciò che separa gli amanti dal resto del mondo è che essi sono privi di mondo, che il mondo che si pone fra gli amanti è bruciato».

I due continuano a fissarsi immobili, mentre lo spazio fra di loro si consuma in dissolvenza bianca (cfr. Querelle de Brest) fino a lasciare le due figure avvolte su uno sfondo abbagliante che infine le avvolge.

[Sonoro: Un suono insistente, ossessivo, simile a un brano di Ligeti, accompagna la dissolvenza dello sfondo.]

Stupidario heideggeriano

A Heidegger devo molto, incluso il fatto di aver *deciso [noterò con un * tutti i concetti che si possono ricondurre alla mia *comprensione della filosofia heideggeriana] di studiare filosofia. All'ultimo anno di liceo mi pareva che il suo *essere-per-la-morte fosse la cosa più importante che si potesse studiare, che io potessi studiare. La *possibilità suprema, ossia la possibilità che tutte le possibilità diventino impossibili.
Se non avessi incontrato Heidegger al liceo, di sicuro mi sarei *salvato...

Di ritorno dal Giappone per un breve viaggio, mi è tornato in mente un libretto in mio possesso su "H e l'Oriente" e me lo sono portato appresso per la vacanza agostana. Non l'avessi mai fatto, e soprattutto non ne avessi mai scritto su Facebook, dove Jacopo Valli mi attendeva al varco col suo nondualismo antiscientista...
Risultato: ora devo leggermi diversi libri su H e i filosofi giapponesi della Scuola di Kyoto, a cominciare da "On Buddhism" di Keiji Nishitani, interlocutore di H, nonché tutto ciò che mi permetta di ricollegarmi ai miei antichi studi universitari heideggeriani (fu Deleuze a salvarmi da H e Derrida).

La mia attuale intuizione, è che HEIDEGGER FOSSE STUPIDO. Lo so che a molti questa affermazione sembrerà la definitiva dimostrazione della MIA stupidità, non importa: la *storia della filosofia è costellata di filosofi che detestano cordialmente qualche Grande del *pensiero.
(Nota: con questo non intendo che io sia parte della storia della filosofia. Non sono stupido).
D'ora in poi - e per il resto della mia vita! - cercherò di collezionare tutte le stupidaggini di Heidegger, impegnandomi naturalmente a dimostrare che si tratta effettivamente di stupidaggini.
Insigni ricercatori (Adorno, Bourdieu, Farias, Faye) hanno dedicato parte del loro tempo a dimostrare che H fosse intrinsecamente nazista, che il suo pensiero fosse nazista: questo, assieme a nonno Deleuze, io lo do per scontato.
Cercherò piuttosto di mettere in luce gli aspetti RIDICOLI del profeta di Todnauberg, così come essi appaiono ai miei (ridicolo) occhi.
Ritengo che tali aspetti costituiscano materia essenziale per un film su H (un film su H è un mio vecchio progetto, ma in passato mi sfuggiva la vena comica del poetastro baffuto).

PS: fu Edgard Reitz a rivelarmi, un mattino in cui lo accompagnai a colazione al collegio Ghislieri, che avrebbe voluto fare un film su Wittgenstein presentandolo come "comico". L'idea era buona, ma il filosofo giusto non era Wittgenstein: era Heidegger.

PSS (30/04/14): rettifico, non mi impegnerò affatto a dimostrare che le seguenti stupidaggini sono stupidaggini. Se non siete stupidi dovreste essere d'accordo con me.

STUPIDAGGINE 1, H e la tecnica secondo Franco Volpi: "Per Heidegger, in sostanza, non si va oltre la tecnica assumendo degli atteggiamenti di reazione rispetto ad essa. Nel vortice del nichilismo della tecnica l'uomo non deve assumere, come dire, degli atteggiamenti semplicemente di ritorno, di battaglia, di conservazione del pretecnico, perché la tecnica consumerebbe e roderebbe qualsiasi tentativo di reagire. Proprio perché per Heidegger essa è una potenza epocale non può essere riscattata attraverso degli atteggiamenti di semplice reazione o di conservazione. Per oltrepassare la tecnica è indispensabile lasciare che la tecnica si dispieghi in tutte le sue potenzialità. L'unico atteggiamento possibile che Heidegger vede in questo dispiegarsi della tecnica consiste nell'aiutare la tecnica a sviluppare tutte le sue possibilità fino all'estremo, e dunque un atteggiamento che, come dire, raccolga le risorse ancora integre, per poter mantenere l'equilibrio nel vortice che la mobilitazione totale della tecnica ha scatenato."

COMMENTO: eliminando le parole retoriche come "vortice" e "mobilitazione totale" (titolo di un libro di Junger) sembra quasi che (secondo Volpi) secondo Heidegger bisognerebbe costruire il maggior numero possibile di centrali nucleari, space shuttle e scudi stellari per affrettare la fine di un'epoca e l'inizio di una nuova epoca. Il tutto, inanellando raffinati testi filosofico-poetici in compagnia di professori universitari occidentali e orientali in visita alla propria semplice baita nel bosco...

STUPIDAGGINE 2: dalla biografia di H. W. Petzet, paragrafo sull'incontro con

Heidegger aveva parlato di ‘abbandono’, di ‘apertura al mistero’. Così, alla fine si parla dell’essenza della meditazione [Meditation]: cosa significa per l’uomo orientale? Il monaco risponde del tutto semplicemente: “Raccogliersi”. E spiega: quanto più l’uomo, senza sforzo di volontà, si raccoglie, tanto più dis-fa [ent-werde] se stesso. L’‘io’ si estingue. Alla fine, vi è solo il niente. Il niente, tuttavia, non è ‘nulla’, ma proprio tutt’altro: la pienezza [die Fülle]. Nessuno può nominarlo. Ma è, niente e tutto, la piena realizzazione [Erfüllung]. Heidegger ha compreso e dice: “Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto.”
Ancora una volta il monaco ripete: “Venga nella nostra terra. Noi La comprendiamo”.
Heidegger è molto scosso. Chiude il colloquio con le parole (rivolte a me): “Le dica che tutta la mia fama nel mondo non significherebbe per me nulla, se io non fossi compreso e trovassi comprensione. Di questo non solo sono grato, ma in questo colloquio ne ho avuto una conferma, quale raramente mi è toccata.”
Entrambi si alzano e si guardano a lungo. Poi il monaco si inchina profondamente e va via. Il colloquio è durato più di due ore e si è fatto notte.
Solo lentamente si scioglie la tensione. Gli Heidegger mi pregano di restare a cena. Prima, devo mostrare alla Signora Elfride dove si trova Bangkok su di un vecchio atlante scolastico. Poi vengono in luce molte piccole osservazioni. Heidegger ed io conveniamo sul fatto che il volto del monaco ha una purezza infantile, tra l’animale e lo spirituale, ma mostrata senza ‘infantilità’, poiché vi è la più profonda consapevolezza. E che attraverso il viso diventa visibile la santità di tutta la persona. Meravigliosi i profondi occhi che, a differenza dei giapponesi, guardano dritto negli occhi. Nessun dualismo tra spirito e sensi. La serietà, ma anche la serena allegria: questo resta indimenticabile.
D’altra parte, Heidegger ha sentito fortemente che uomini come il monaco non avvertono neanche ciò che significa realmente l’apparato tecnico che noi usiamo. Essi lo prendono e lo usano come un martello o un ago. Tanto poco sono impressionati dalla tecnica occidentale, altrettanto poco sanno cosa accade nella ‘In-stallazione’[Ge-Stell].
Doveva aver ragione. Circa un anno dopo l’incontro con il monaco (o forse di più?), un giorno mi chiamò: aveva da parteciparmi qualcosa di triste. “Il monaco col quale ebbi quel bel colloquio ha abbandonato il suo Ordine e ha assunto un lavoro in una società televisiva americana.”

COMMENTO: numerosi spunti, qui, gustosissimi. Inizierei sottolineando la necessità di "mostrare alla Signora Elfride dove si trova Bangkok su di un vecchio atlante scolastico". La signora Elfride, nazista convinta e antisemita conclamata, evidentemente nelle scuole del Terzo Reich non aveva imparato a consultare un atlante. Ma a Martin piaceva per la sua fresca e originaria femminilità.
Venendo a Martin, frasi come "Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto" mi riportano alla mente il caro zio Leone: anche lui diceva sempre "io dico sempre...".
Pregevolissimo l'epico momento in cui Heidegger è "molto scosso": “Le dica che tutta la mia fama nel mondo non significherebbe per me nulla, se io non fossi compreso e trovassi comprensione.”
Si evince che Martin temeva moltissimo di essere ammirato senza reale comprensione, solo per vezzo, magari per il suo severo e diginitoso aspetto fisico (non fu lui che una volta disse a Jaspers che Hitler aveva delle mani bellissime?). Mettiamoci nei suoi panni: stuoli di ammiratori lo considerano uno dei più importanti filosofi viventi e lui è triste perché pochi lo comprendono davvero. Terribile. Per fortuna ogni tanto arriva un monaco buddhista dalla Tailandia a risollevare la media della comprensione di Heidegger. Anzi no, perchè poco dopo si capisce che anche il tailandese era un babbione come gli occidentali: "D’altra parte, Heidegger ha sentito fortemente che uomini come il monaco non avvertono neanche ciò che significa realmente l’apparato tecnico che noi usiamo. Essi lo prendono e lo usano come un martello o un ago. Tanto poco sono impressionati dalla tecnica occidentale, altrettanto poco sanno cosa accade nella ‘In-stallazione’[Ge-Stell]."
Non per nulla il monaco furbastro, l'anno successivo (forse dopo aver capito il senso della filosofia di Heidegger) decise di andare negli USA a lavorare in televisione. O tempora o mores.

STUPIDAGGINE 3. A Zollikon, Ginvera Bompiani chiese in francese a Heidegger se conoscesse la musica di Nietzsche. Poiché Heidegger non capiva bene il francese, equivocò che Ginevra gli stesse chiedendo se conosceva Nietzsche.
COMMENTO: Quando si dice "insight", "principio di carità" e "massimizzazione della pertinenza" non si pensa di sicuro a Heidegger.

STUPIDAGGINE 4. Citato in "Perché ancora la filosofia", Carlo Cellucci, p.4:«nessun sapiente proverà invidia per gli ‘scienziati’ – gli schiavi più miseri dei tempi più recenti».
COMMENTO: no comment.


STUPIDAGGINE 5. Citato in "Heidegger, antisemita e vero nazista", Ranieri Polese: «Ma può essere un caso che il mio pensiero e le mie questioni nell’ultimo decennio siano stati rifiutati proprio in Inghilterra, e che non si sia fatta nessuna traduzione delle mie opere?».
COMMENTO: Ehi, Martin, non credo affatto che sia stato un caso: a quel tempo, prima che voi crucchi cominciaste a bombardarli, i britannici avevano già a che fare con Wittgenstein. Wittgenstein, hai presente? (Che pure apprezza la tua nozione di angoscia, in un suo frammento).