E’ tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell’oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all’intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)
sabato 7 aprile 2018
lunedì 19 marzo 2018
Il desiderio di paternità
Quand'ero piccolo mio padre mi raccontava di avere tanto desiderato diventare padre. La cosa mi lasciava abbastanza indifferente, poiché un bambino non ha interesse a penetrare la psicologia dei suoi genitori, anche quando costoro, forse sbagliando, ve lo invitino. Tuttavia non mi pareva che vi fosse nulla di strano in questo presunto desiderio di paternità esibito da mio padre.
In età adulta mi sono invece accorto che il desiderio di paternità non esiste. È vero che anche la consistenza del desiderio di maternità è stato messo in discussione da certe teoriche culturaliste, ma mi pare che il dibattito sia ancora aperto.
Riflettendo sulla mia esperienza concreta mi sento invece di poter dichiarare guerra al dubbio concetto di desiderio di paternità.
In età adulta mi sono invece accorto che il desiderio di paternità non esiste. È vero che anche la consistenza del desiderio di maternità è stato messo in discussione da certe teoriche culturaliste, ma mi pare che il dibattito sia ancora aperto.
Riflettendo sulla mia esperienza concreta mi sento invece di poter dichiarare guerra al dubbio concetto di desiderio di paternità.
I maschi che dichiarano di voler diventare padri non fanno che assecondare il loro desiderio di creare un alter-ego a loro immagine e somiglianza, di eternare se stessi per un fondamentale narcisismo maschile. Penso proprio che non essere implicati fisicamente nella gravidanza e nel parto ponga il genitore maschio in una posizione molto astratta, che difficilmente può pensarsi correlata a un autentico desiderio: si può desiderare di essere padre, ossia occuparne il ruolo, ma non di diventarlo.
Essere-padre è una condizione imprevedibile cui si giunge con l'evento-nascita, ossia con un salto ontologico nel vuoto, con l’attualizzazione di un mondo possibile, o il passaggio da un mondo a un altro. Un uomo può effettivamente desiderare di somigliare al proprio padre diventando padre a sua volta, ma questo significa qualcosa di differente da ciò che si intende normalmente con “desiderio di paternità”: non è un desiderio con un oggetto (il figlio) bensì un’intenzione ego-riferita: “voglio assumere la posizione del Padre, voglio imitare e sostituire mio padre”.
Quando una donna desidera un figlio, desidera un figlio: non tanto “diventare madre”, quanto piuttosto dar vita a una creatura, generarla nel proprio ventre, sentirla animarsi, crescere, prendere forma e finalmente separarsi dal suo corpo per diventare un individuo idealmente autonomo. Per la madre l'evento della nascita è fisicamente immanente, per il padre è trascendente, non avendo luogo nel suo corpo (è dunque meta-fisico). Non dico che ogni donna desiderosa di maternità abbia una rappresentazione mentale chiara e distinta della catena causale che porta dal desiderio al figlio, ma mi pare innegabile che una maggior dose di autocoscienza generativa sia implicita nella mente femminile rispetto a quella maschile.
Questo discorso risente forse di una distinzione tra sessi troppo assoluta, e glissa del tutto sulla non coincidenza della differenza sessuale con la differenza di genere. Forse ho già affermato troppo rispetto a quanto io davvero non possa fare senza cadere in quella sicumera filosofica propria di tanti filosofi contemporanei. È una sicumera che detesto, dunque faccio ammenda e torno sui miei passi, limitandomi a dire ciò che so della condizione paterna per mia esperienza e riflessione personale.
Credo che un uomo che non si senta ancora all'inizio della vecchiaia, e che dunque non pensi all'approssimarsi della morte, il cui pensiero può parere più temibile qualora non si abbiano eredi, non possa desiderare realmente di procreare un figlio da una donna.
Nella nostra società un uomo desidera “possedere” la donna che ama, come dice la lingua italiana, ma in questo possesso reiterato e sperabilmente infinito l'idea di procreare un figlio non figura come effetto necessario né come causa adeguata (del prolungamento) dell'amore. Spesso viene anzi percepito come un possibile ostacolo all'amore, dato che gli individui contemporanei sono egocentrati narcisisti e vogliono tendenzialmente ampliare le loro possibilità vitali, non certo restringerle.
Nella nostra società un uomo desidera “possedere” la donna che ama, come dice la lingua italiana, ma in questo possesso reiterato e sperabilmente infinito l'idea di procreare un figlio non figura come effetto necessario né come causa adeguata (del prolungamento) dell'amore. Spesso viene anzi percepito come un possibile ostacolo all'amore, dato che gli individui contemporanei sono egocentrati narcisisti e vogliono tendenzialmente ampliare le loro possibilità vitali, non certo restringerle.
Mi rivolgo dunque a te, amico padre che mi leggi: non sentirti in colpa se non hai desiderato il tuo divenire-padre, perché nella moderna società alienata è difficile rendersi conto che c'è dell'altro oltre al godimento personale. Del resto, se sei diventato padre o lo stai diventando sai benissimo di che cosa parlo: quando la tua compagna ti ha annunciato di essere incinta, che tu te l’aspettassi oppure no, avrai probabilmente fatto un sobbalzo, provando qualcosa di simile a una gioia onnipotente, e poi avrai detto a te stesso qualcosa come: “che il cielo ce la mandi buona!”.
Proprio questo dobbiamo fare, noi padri: sperare di essere all’altezza dell’Evento su cui si fonda la nostra nuova vita.
Proprio questo dobbiamo fare, noi padri: sperare di essere all’altezza dell’Evento su cui si fonda la nostra nuova vita.
domenica 18 marzo 2018
GEOMETRICA POTENZA:
A torto si ritiene che siano le filosofie idealiste, spiritualiste e postmoderniste ad avere esaltato nel miglior modo la creatività dello spirito umano. Queste filosofie hanno certamente posto la libertà dello spirito alla base del manifestarsi dell'essere e della conoscenza, tuttavia non hanno detto nulla che non fosse metaforico, almeno dal mio punto di vista (scientista e dialetticamente materialista).
Il padre della linguistica cognitiva, Noam Chomsky (n. 1928), ha invece dimostrato che la facoltà linguistica umana è fondamentalmente creativa in senso algoritmico: vi sono regole e rappresentazioni alla base della generazione delle frasi "grammaticali", riconosciute come accettabili dai parlanti, anche se le occorrenze possibili sono combinatoriamente infinite.
La stessa creatività della mente umana ha iniziato ad essere studiata dalle scienze cognitive (la studiosa di riferimento è Margaret Boden) aggiungendo così un tassello importante alla conoscenza scientifica della psiche e approfondendo il divario tra scienze sperimentali e discipline umanistiche (anche se nulla vieterebbe di coniugare le due direzioni di ricerca, come del resto già fanno studiosi innovativi e brillanti come Johnathan Gotschall).
Chi ha inventato il sintagma "geometrica potenza"? Di solito si risponde col nome di Franco Piperno (Dal terrorismo alla guerriglia, in "Pre-Print"dicembre 1978). Qualcun altro ha provato ad andare più indietro nel tempo, fino a Mussolini e Vittorio Emanuele III, ma direi con scarso successo.
Si osservi ora il quadro di Gino Severini intitolato Cannoni in azione, 1915. In basso al centro si legge distintamente "géométrique PUISSANCE".
Il concetto non filosofico di potenza è certamente parte del repertorio concettuale del futurismo, e l'apposizione dell'aggettivo "geometrica" sembra riferirsi all'elemento macchinico della guerra moderna, elemento tanto caro ai futuristi (come del resto la guerra).
Il concetto non filosofico di potenza è certamente parte del repertorio concettuale del futurismo, e l'apposizione dell'aggettivo "geometrica" sembra riferirsi all'elemento macchinico della guerra moderna, elemento tanto caro ai futuristi (come del resto la guerra).
Questo quadro è piuttosto famoso, e chiunque lo abbia guardato avrebbe potuto isolare il sintagma in questione. Forse è il caso anche del professor Piperno? Io penso di sì perché leggendo le sue spiegazioni relative all'espressione in questione, si comprende che egli aveva in mente una presunta "precisione" militare dei brigatisti.
Nella porzione testuale rilevante del quadro di Severini si legge infatti, in sequenza verticale:
Nella porzione testuale rilevante del quadro di Severini si legge infatti, in sequenza verticale:
Perfezione
Aritmetica
Ritmo
Geometrica
POTENZA
POTENZA
LEGGEREZZA
FRANCIA*
FRANCIA*
Mi pare che l'idea di Piperno sia già tutta qui. Ma quello che potremmo dire con Chomsky è che nessuno è realmente "inventore" di un sintagma di due parole, perché l'infinita creatività linguistica della specie umana rende assai probabile che la medesima combinazione di due concetti, se non prorio dei medesimi significanti, sia ricorrente anche a distanza di tempo, dato un insieme di concetti e parole (una "cultura") non troppo diversi (i sintagmi dei primi sapiens saranno stati statisticamente abbastanza diversi dai nostri).
In pratica, è probabile che diversi parlanti abbiano potuto unire "geometria" e "potenza" da quando esistono i concetti e le parole relativi (quindi per lo meno da Talete, per la geometria, e da Aristotele per la potenza).
Diversa, naturalmente, è la storia delle tracce documentarie: in attesa di smentite dichiaro che il quadro di Severini può essere considerato a buon diritto come la prima occorrenza testuale nota del famigerato sintagma.
* Severini era fissato con la Francia e voleva essere francese.
mercoledì 14 marzo 2018
Roman nouveau, 14 bis
Fuoriusciti italiani a Parigi
Il post-operaismo è un pensiero alcolista. Questo mio giudizio tranchant ha certamente la sua origine nell’essermi sentito dire che Toni Negri iniziava a ragionare solo dopo essersi scolato una bottiglia di vino. Me lo disse un italiano suo amico che viveva a Parigi, un amico di Deleuze, per altro, che io fui ben contento di conoscere ed era molto simpatico.
Ci divertimmo particolarmente una sera, alla presentazione di un libro italiano all’Istituto di Cultura, dove mi aveva invitato Bruno: incontrammo il deleuziano italiano e il traduttore italo-francese di Deleuze. Come d’uopo, magnavamo e bevevamo: era questo il tipo di intensità del divenire che maggiormente mi piaceva sperimentare, e anche quell’unica che mi era dato esperire più di frequente, dato che sport ne facevo ben poco (ogni tanto la piscina sempre con Bruno), e scopare non scopavo mai perché ero ancora triste per Elisa.
Ci divertimmo particolarmente una sera, alla presentazione di un libro italiano all’Istituto di Cultura, dove mi aveva invitato Bruno: incontrammo il deleuziano italiano e il traduttore italo-francese di Deleuze. Come d’uopo, magnavamo e bevevamo: era questo il tipo di intensità del divenire che maggiormente mi piaceva sperimentare, e anche quell’unica che mi era dato esperire più di frequente, dato che sport ne facevo ben poco (ogni tanto la piscina sempre con Bruno), e scopare non scopavo mai perché ero ancora triste per Elisa.
Di alcolista, nella teoria post-operaista della produzione ontologica trovavo soprattutto il fatto che, effettivamente, da ubriaco avevi l’impressione di stare creando qualcosa, se parli con qualcuno o guardi un film o scrivi.
Ma questa teoria è gravissima perché sostiene in maniera idealistica che ogni essere umano è di per sé produttore, dunque una sorta di lavoratore ontologico.
Dunque il capitalismo sarebbe fondamentalmente sbagliato e ingiusto semplicemente per il fatto che non remunera senza sfruttamento questa produzione di vita di noi tutti operai dell’essere.
Sarebbe come dire: capitalisti di tutto il mondo: remunerateci!
Sarebbe come dire: capitalisti di tutto il mondo: remunerateci!
[Continua: incontro con Scalzone & co.]
Breve intervista a una ragazza torinese
D: ...
R: Certamente, la prima volta che lo incontrai fu in occasione di una serata organizzata insieme alla mia amica torinese, che era in Erasmus come me a Parigi. Decidemmo di fare un incontro di tutti gli Erasmus torinesi che si trovavavano a Parigi. Lei a Saint Denis aveva conosciuto qualcuno, e in più c'era Caterina che da anni già viveva lì. Così quella sera vennero Edoardo e Pierpaolo.
D: ...
R: La cosa che mi ha colpito di più era che fosse di Bra. Aveva l'aria un po' anni Settanta, come li immagino io, e mi piacque la sua socievolezza. cioè, era simpatico, parlava molto. Visto che io sono timida mi piacciono le persone socievoli. E poi il fatto che parlasse tanto, visto che a me piace ascoltare.
D: ...
R: Ricordo perfettamente che aveva un montone, e se non mi sbaglio era un montone di suo papà. Non ne sono sicura, ma ho questa idea in mente. E poi aveva i pantaloni di velluto a coste. Forse.
D: ...
R: Si, perchè faceva un DEA, mi sembrava che fosse già super introdotto. Io avevo appena scoperto cosa fosse un DEA, e cosa fosse un dottorato
D: ...
R: Si, molto. Ma ogni tanto ero un po' malinconica e facevo fatica a stare da sola.
D: ...
R: Era una cosa che volevo fortemente, volevo internazionalizzarmi. E quella è stata la prima tappa per farlo.
D: ...
R: Passeggiare senza meta. E andare al cinema e mangiare le crepes.
D: ...
R: Perchè avevo finito l'Erasmus. Perchè nessuno mi ha proposto di mantenermi per più di un anno a Parigi e non ero abbastanza coraggiosa per farlo da sola, senza aiuti. Perché ero fidanzata e non volevo lasciare il mio fidanzato.
D: …
R: Ho dovuto lasciare l’università perché il mio professore era morto prima che io potessi vincere il posto da ricercatrice. Sono diventata avvocata. Mi piace il mio lavoro, ma ogni tanto rimpiango di non aver potuto continuare a dedicarmi alla teoria.
sabato 13 gennaio 2018
I filosofi e la morte (Roman nouveau, 35)
Riprendendo probabilmente Epicuro, e anticipando Sartre, nel Tractatus Logico-philosophicus Wittgenstein dice: “La morte non è evento della vita. La morte non si vive” (Tractatus, 6.4311). Chiunque abbia vissuto un lutto importante dovrebbe sapere che questo è uno dei tentativi consolatori della filosofia meno riusciti di tutti i tempi, perché il ragionamento vale solo – posto che valga – per la propria morte. Ma se a morire è un altro? Se a morire, nella fattispecie, è il proprio amatissimo padre?
Su questo punto il padre della psicoanalisi sembra avere visto decisamente meglio di quegli algidi filosofi, ossia Epicuro, Sartre e Wittgenstein (faccio notare en passant che nessuno dei tre è diventato padre, a differenza di Freud).
E infatti, in generale, dopo la morte di mio padre la filosofia mi risultò all'improvviso dolorosamente inutile, come se mi rendessi conto di essermi sempre ingannato sul potere salvifico del pensiero filosofico.
Cercare consolazione filosofica per la morte nella filosofia di Badiou, per esempio, è un'impresa disperata. Per Badiou la morte non ci riguarda, riguarda soltanto il nostro corpo, l'animale che c'è in noi, quell'involucro materiale di passioni, desideri, opinioni, che non può che scomparire in quanto essenzialmente temporale, caduco, solo parzialmente vero e in grandissima parte falso e irrilevante sub specie aeternitatis, come diceva Spinoza. Badiou è un anti-vitalista: la vera vita non può essere per lui altro che la vita eterna del Soggetto, che esiste solo quando si segue una Verità (cfr. Concetti badiousiani). Per questo lui ha ben ragione a definirsi platonico: Platone destinava all'anima umana, affine alle Idee o Forme, l'eternità che le competeva oltre qualsiasi nostalgia della vita terrena e delle nostre limitate miserie mortali. Ecco perché Nietzsche odiava Platone ed ecco perché Badiou non apprezza un granché Nietzsche, e nemmeno Deleuze e Foucault, in quanto nietzscheani.
E nemmeno io, nonostante fossi deleuziano, apprezzavo molto Nietzsche Foucault e Deleuze su questo punto. Il punto della morte.
Fin da quando avevo iniziato a studiare Deleuze, durante il mio Erasmus a Strasburgo, il suo pensiero in fatto di morte mi era risultato estremamente oscuro. Tutta la sua filosofia, a dire il vero, era alquanto oscura ma il suo pensiero sulla morte lo era in modo particolare.
Deleuze parla di morte soprattutto in Logica del senso, tributando a Blanchot di avere detto le cose fondamentali:
la morte è a un tempo ciò che è in un rapporto estremo o definitivo con me e con il mio corpo, ciò che è fondato in me, ma anche ciò che è senza rapporto con me, l'incorporeo e l’infinito, l’impersonale, ciò che è fondato soltanto in se stesso.
Deleuze inserisce nella morte ciò che i dialettici chiamano una contraddizione: la morte mi appartiene propriamente e mi è radicalmente estranea. La contraddizione è una figura fondamentale del pensiero deleuziano, anche se lui la chiama “sintesi disgiuntiva”, un sintagma ossimorico ripreso da Kant. Di fatto si tratta della sintesi hegeliana, che unisce A e non-A in un superiore A’=B che toglie-e-conserva (Aufhebt) sia A che non-A. La duplicità inconciliabile dell'evento si manifesta in due modi:
Da un lato, la parte dell’evento che si realizza e si compie; dall’altro, “la parte dell’evento che il suo compimento non può realizzare.” Vi sono dunque due compimenti, i quali sono come l’effettuazione e la contro-effettuazione. Ed è per questo che la morte e la ferita non sono un evento come gli altri. Ogni evento è come la morte, doppio e impersonale nel suo doppio.
La morte, oltre che doppia, è qui detta incorporea, infinita, impersonale. Sono concetti che vanno ben chiarificati, se si vuole capire che cosa pensa Deleuze della morte. L'incorporeo deleuziano è il concetto stoico: gli stoici credevano che tutto fosse materiale tranne i cosiddetti incorporei (vuoto, tempo, luogo, significato). Gli incorporei stoico-deleuziani “Non sono sostantivi o aggettivi, ma verbi”, quindi, per capirci, anziché dire “la morte”, ipostatizzando, sostanzializzando, personificando, dovremmo magari dire “il morire”. Magari.
Riguardo all'infinito, poi, avevo trovato in Badiou un pensiero non romantico-intuitivo dell'infinito, pensato come insieme infinito cantoriano: sentirmi dire da Deleuze che la morte è infinito mi sembrava un pensiero oltremodo folcloristico per non dire insensato.
E veniamo all'impersonale, che è forse l'aspetto che mi interessava di più. Sempre Blanchot dice:
Essa è l’abisso del presente, il tempo senza presente con il quale non ho rapporto, ciò verso cui non posso lanciarmi, poiché in essa io non muoio, sono decaduto dal potere di morire, in essa si muore, non si cessa e non si finisce di morire.
E Deleuze:
Quanto questo si differisce da quello della banalità quotidiana. È il si delle singolarità impersonali e preindividuali, il si dell’evento puro in cui egli muore come piove [il pleut]. Lo splendore del si è quello dell’evento stesso o della quarta persona. Ed è perciò che non vi sono eventi privati e altri collettivi; come non vi è individuale e universale, e non vi sono particolarità e generalità. Tutto è singolare e perciò collettivo e privato a un tempo, particolare e generale, né individuale né universale.
Che confusione! E non solo grammaticale, come direbbero i wittgensteiniani: a parte il fatto che in italiano non funziona, Deleuze voleva farmi credere che si possa dire “muore” come si dice “piove”? E perché mai? Che vantaggio si avrebbe per il pensiero a dire che “muore” anziché che qualcuno muore, all'occasione un mio caro o io stesso? Che garanzie mi dai, caro Deleuze? A che cosa serve questo tuo modo di pensare per un giovane come me? Mi veniva in mente ciò che disse Kostas Axelos, professore e amico di Deleuze, alla pubblicazione dell'Anti-Edipo: “tu, rispettabile professore francese, bravo sposo, eccellente padre di due bei bambini, amico fedele (...), vorresti che i tuoi allievi e i tuoi figli seguissero nella loro "vita reale" la strada della tua vita o per esempio quella di Artaud, a cui tanti scrittori si richiamano?”
Dopo questa frase Deleuze non cercò mai più Axelos.
Anche Badiou, tra l'altro, criticava il concetto deleuziano di morte: se per Deleuze la morte è l'evento per eccellenza, per Badiou un evento non ha nulla a che spartire con il negativo, la morte, la distruzione: esso è incorporea verità.
Badiou mi sembrava molto più sano di Deleuze sotto il rispetto della morte.
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giovedì 4 gennaio 2018
giovedì 14 dicembre 2017
Leggere/pensare (Intuizione 44)
Quando ho iniziato a studiare filosofia credevo che il problema fosse solo leggere, i testi sacri, quanto più possibile, leggere il Testo Generale.
Poi ho iniziato a pensare che il problema fosse solo pensare correttamente (Wittgenstein non conosceva Hegel).
Ora ho capito che si tratta di pensare correttamente leggendo tutto ciò che va letto (il che esclude molti testi che pensavo di dover leggere in quanto "filosofici" o filosoficamente rilevanti).
Poi ho iniziato a pensare che il problema fosse solo pensare correttamente (Wittgenstein non conosceva Hegel).
Ora ho capito che si tratta di pensare correttamente leggendo tutto ciò che va letto (il che esclude molti testi che pensavo di dover leggere in quanto "filosofici" o filosoficamente rilevanti).
martedì 12 dicembre 2017
Eserghi (Nouveau roman nouveau)
(...) una vita si svolge a spirali; ripassa sempre per gli stessi punti ma a livelli diversi d’integrazione e di complessità (Sartre, Questioni di metodo 85)
"Ho raggiunto il mio ideale terreno, perché con un impiego e una donna si ha tutto in questo mondo" (Hegel).
Una vita può benissimo essere al contempo vacua e breve. I giorni scorrono miseramente, senza lasciare traccia né ricordo; e poi, di colpo, si arrestano (Houellebecq, EDL 47)
Tra l'altro, poi, essendo un mortale la cui presenza nel mondo è abbastanza inutile, ha ben poca importanza il mio modo d’agire. (Tristram Shandy, p.29)
mercoledì 15 novembre 2017
De corpore (Roman nouveau, 34)
Entrai nella stanzetta della terapia intensiva e vidi mio padre. Era giallo d’ittero.
Sembrava contento di vedermi, però faticava a parlare come se avesse la bocca impastata. Tossiva. Le sue labbra erano ricoperte da uno strato di pellicine sanguinolente e lui non smetteva, tossendo, di mettersi le dita in bocca per estrarne grumi di materia a me ignota. Io pensavo: ecco i miceti, che lo ammazzeranno entro due o tre giorni, ma ovviamente mi sbagliavo. I miceti sono microscopici funghi e anche se avrei voluto vederli, i nemici mortali, gli assassini di mio padre, essi erano invisibili.
Stando accanto al capezzale di mio padre cercavo di consolarlo, di rassicurarlo: devi essere paziente, gli dicevo, devi stare tranquillo e superare la crisi che hai ora.
“E credi che non lo sappia?”, borbottò lui, facendomi sentire come l’ombra di un rimprovero. Sì, percepii un implicito rimprovero che avrebbe potuto essere espresso così: “sono debole ma non rincoglionito, so che sto morendo perché non sono riuscito a mantenermi in vita, non devi provare a consolarmi. Non mentire, non fare l’ipocrita come tuo solito”.
Mio padre era un lamentoso risentito, e mi aveva sempre rimproverato e rinfacciato tutto quanto potesse, a me che ero il suo unico figlio.
Scosse il capo guardandomi e mi disse:
CHE VITA DEL CAVOLO.
Mi sentii annichilire. Pensavo ormai anch’io che fosse proprio del cavolo la sua vita, con la morte che arrivava nel momento più sbagliato, esattamente all’inizio della pensione, quando io, suo unico figlio egoista e prepotente ma premuroso e affettuoso, avevo deciso di organizzargli la prossima vita in vista della serenità, con viaggi per noi due, insieme per il mondo.
A Mosca, tanto per iniziare, e poi in Europa e negli Stati Uniti, per fargli realizzare il suo sogno americanista di giovane torinese degli anni ‘50.
Ma che cazzo di vita pensava fosse la sua? Immaginava forse che gli fossero mai state possibili vite trionfali, ricolme di gioie che lui neanche aveva potuto sfiorare? È vero, aveva ragione, queste vite esistono, ma era stato lui a non voler fuoriuscire dalla sua vita-del-cavolo. Mio padre doveva essersi voluto così com’era, il che in qualche modo lo assolve dalla colpa della sua stupida morte.
Questo almeno me lo sono detto a posteriori.
Mio padre desiderava sicuramente che bere non rappresentasse per davvero il modo a lui proprio di ammazzarsi, pur continuando a bere quanto più possibile. Forse desiderava morire e non dover morire. Forse la sua mente si era innalzata al di sopra del principio di non contraddizione. Una volta andata via mia madre, per lui non erano pensabili altre vite più felici. Di sicuro non credeva di poter più cambiare vita alla sua età. In effetti nessuno immaginava che potesse farlo, nonostante avesse soltanto cinquantacinque anni.
Quella frase della vita del cavolo mi ha fatto molto male, mi è rimasta incuneata nella memoria. Mi ha causato molta inutile pietà e mi sono detto che avrei dovuto obiettargli così: “papà, la tua vita non è del cavolo. Per niente. Io sono qui, lo vedi, sono effetto della tua vita normale, io ti voglio bene e questo mi pare sufficiente a dimostrare che hai torto e sei uno stupido che non ha mai capito niente. Perché non capisci niente e dici così?”
“Ti voglio bene”, invece, lo sussurrai all’orecchio del suo cadavere, quand’era chiaramente tardi ma avevo almeno l’impressione di fare ciò che dovevo, di sistemarmi la coscienza, come fossi alla televisione o mi guardassero dal panopticon. Come se mi guardasse insomma il grande Altro, che poi non esiste.
Davanti a mio padre invece non volevo piangergli in faccia, non so perché: che male ci sarebbe stato se tanto poi doveva morire? Avrebbe forse potuto dargli un po’ di empatico sollievo, magari si sarebbe messo a piangere pure lui, forse avrebbe desiderato farlo. E avrebbe ben potuto farlo, sarebbe stato suo estremo diritto, piangere un po’. Invece neanche quello.
Non pianse, e tutto quel che aggiunse al giudizio sulla sua vita del cavolo fu la constatazione stupefatta che non si era mai sentito così male. Lui che si era sempre vantato di avere avuto una salute di ferro, anche se già da bambino sospettavo spesso che il suo corpo sovrabbondante non fosse più tanto sano. Qualche anno prima della sua morte, papà difendeva ancora la sua forma fisica con promesse e progetti chimerici: “riprenderò a sciare” o, simmetricamente, “riprenderò a fumare dopo i sessant’anni, se ci arrivo”.
Ma il suo organismo si era sciupato rapidamente (cosa sulla quale mia madre ed io non mancavamo di fare frequenti commenti, più denigratori che preoccupati).
Papà era diventato oltremodo grasso e flaccido, aveva perso progressivamente la capacità di fare sforzi, era diventato malsicuro sulle gambe. Si compativa persino da sé, più o meno esplicitamente. Poiché lui stava sempre peggio, aveva infine smesso di insultare me per la mia forma fisica, come faceva non sporadicamente, specie quand’ero adolescente, dicendomi che non ero certo robusto come lui.
Io non ero robusto, ok, ma lui è morto e io sono ancora vivo.
sabato 11 novembre 2017
Il filo d'erba (Roman Nouveau, 33)
Deleuze dice che il divenire è come la crescita del filo d'erba, che avviene al centro e non alle estremità. Questo tipo di crescita è anti-arborescente e anti-gerarchico. Così dice Deleuze, proponendo quest’immagine come modello di pensiero per il divenire, che poi per lui è doppio, in quanto manifestazione del biforcarsi dell’istante temporale verso il passato e verso il futuro.
Sto scrivendo questo libro in modo antisimmetrico al divenire del filo d’erba: l’evento centrale è la morte di mio padre, ma poiché mi è troppo faticoso giungere a narrare quell’evento, che è il cuore di tutto questo mio ricordo, ho cominciato dall’inizio e dalla fine, in modo retrogrado, sicché terminerò di scrivere quando riuscirò ad approdare al centro, il solido cuore ben rotondo della morte di mio padre.
Vero è che la narrazione bipartita tende a dilatarsi sempre più procedendo verso il doloroso medio, ma la situazione è molto meno paradossale di quella rappresentata nel Tristram Shandy, dove si crea un regresso all’infinito chiaramente unilaterale e votato a un unico esito: l’impossibilità della narrazione.
Qui la situazione è diversa: gli estremi sono narrabilissimi, e il peggio che possa accadere è che il libro rimanga monco del suo centro, che diventerebbe così una macchia cieca della vostra conoscenza del mio passato.
Vero è che la narrazione bipartita tende a dilatarsi sempre più procedendo verso il doloroso medio, ma la situazione è molto meno paradossale di quella rappresentata nel Tristram Shandy, dove si crea un regresso all’infinito chiaramente unilaterale e votato a un unico esito: l’impossibilità della narrazione.
Qui la situazione è diversa: gli estremi sono narrabilissimi, e il peggio che possa accadere è che il libro rimanga monco del suo centro, che diventerebbe così una macchia cieca della vostra conoscenza del mio passato.
Ma forse questo non accadrà.
lunedì 16 ottobre 2017
Digressione sull’inconscio (Roman nouveau, 32bis)
Digressione sull’inconscio
Mi rendo conto che finora non ho parlato molto del concetto di inconscio, ma noi deleuziani siamo fatti così: con l’inconscio abbiamo un rapporto strano, di odio-amore. Innanzitutto è chiaro che dicendo “l’inconscio” sembra che io presupponga la sua esistenza, ma non è affatto così. L'inconscio non è una cosa, una parte della mente, bensì un dispositivo. Dispositivo è la parola che usano Foucault e Deleuze, e i filosofi come Agamben che da quegli autori dipendono strettamente. Anche in Heidegger c'è il “Gestell”, che Vattimo traduce come “Im-pianto”, ma è una cosa un po' diversa perché si riferisce all'Essere nel suo insieme, al modo in cui esso Essere si dà, si dis-vela in epoche della sua storia (dell'Essere), l'ultima delle quali sembrerebbe essere quella della metafisica, che si estende grossomodo da Platone a Nietzsche.
L'inconscio è un dispositivo psichico ma anche fisico, per noi deleuziani. Sul piano metafisico, Deleuze è un filosofo monista, un filosofo del'Uno-tutto, come del resto lo ha ben dipinto Badiou nel suo Deleuze. Il clamore dell'Essere.
A guardar bene Deleuze si potrebbe anche considerare un filosofo panpsichista, ossia per lui tutto l’Essere è animato, e preso in un circuito di contrazione e distensione da cui derivano le diverse vibrazioni del mlteplic reale.
In ogni caso l'inconscio è per Deleuze un modo di produzione della realtà. Ho già detto che per Deleuze (e Guattari), in contrasto con quella che loro chiamano concezione idealista del desiderio, il desiderio è creazione e non mancanza, vuoto da riempire. Ora devo aggiungere che per Deleuze (e Guattari) l’inconscio è acefalo, ossia: a-soggettivo. L’inconscio, cioè, non è il sapere inaccessibile del soggetto che non sa di sapere, come per Freud e Lacan, bensì un campo trascendentale di produzione schizofrenica automatica.
(continua...)
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giovedì 21 settembre 2017
Nuovo diario buddhista, 1
Nell’estate del 2005 stavo diventando buddhista da appena un mese. Appena finito di esaminare i maturandi al Galfer di Torino, partii per un viaggetto da Leonardo a Venezia. Ci trovammo al bar Rosso in campo Santa Margherita, e il discorso sul buddhismo venne fuori subito. Scherzando dissi a Leo che volevo fare proseliti e convertire tutti gli amici. Non era così falso anche se lì per lì pensavo di essere ironico. Avevo inziato a diventare buddhista dopo un percorso abbastanza lungo, cominciato con la fine della mia storia con F. La strada verso il buddhismo doveva essere una sorta di destino perché non sono andato in cerca di nulla. Gli eventi sono avvenuti, dipendevano dal mio karma.
Nel settembre del 2003 F. ed io ci lasciammo dopo una storia violenta e abbastanza tragica. In termini di karma, entrambi ce lo siamo sporcato con le cattiverie che ci siamo fatti. F. odiava molto il mio marxismo e questo mi ha scosso le certezze, facendo sì che poco dopo esserci lasciati io comprendessi come la mia vera ispirazione politica fosse l’anarchismo e non il marxismo. Tutt’ora vorrei studiare seriamente i rapporti reali e possibili tra buddhismo e anarchismo (storicamente credo siano pochi).
Finché ero marxista non sarei potuto diventare buddhista perché «la religione è l’oppio dei popoli». Una volta diventato anarchico mi sono convinto a dirmi ateo, anche se qualcosa non mi convinceva nell’odio degli anarchici spagnoli contro il cattolicesimo: le famose fucilazioni delle statue di Cristo, e gli incendi delle chiese non mi parevano atti politici intelligenti... (D’altra parte va detto che Durruti non è responsabile dell’incendio della cattedrale di ...). Però non avevo ancora messo a fuoco la nonviolenza dunque non capivo che cosa non mi stesse bene dell’anarchismo. Divenni anarchico grazie ai libri di Chomsky. Fu un passo importante per liberarmi del mio dogmatismo razionalista;
Poi iniziai ad andare settimanalmente dal Dottor B., psicanalista freudiano torinese molto figo, perché dopo F. con le donne mi sentivo un disastro. La psicanalisi è praticamente opposta al buddhismo, perché questo predica l’assenza di un Io, quella te lo vuole rafforzare.
In prospettiva buddhista la contraddizione si supera facilmente, ma per la psicanalisi il complesso di credenze buddhiste deve necessariamente risultare una copertura di ragioni più psicomateriali e in ultima istanza legate alla libido.
Diciamo che se non ci riesci diversamente, con la sola pratica buddista, la psicanalisi può darti quella tranquillità nei confronti di te stesso che poi ti permetterà di trascenderti attraverso la pratica della presenza mentale e la meditazione sul non-sé.
Quando ho iniziato a parlare del buddhismo al Dottor B. lui ha detto che gli sembrava che io non volessi impegnarmi in una sola cosa. Ha ragione: perché mai dovrei?
Nel luglio 2004, infine, sono iniziati i miei problemi di salute per le intolleranze alimentari sovrapposte: ho abbandonato l’alcol e sono diventato tendenzialmente vegetariano. Bizzarramente iniziai a stare male per l’alimentazione proprio mentre leggevo Gandhi e Capitini che legano dieta vegetariana e nonviolenza.
Al momento attuale ho scoperto che tutte le mie presunte intolleranze erano frutto della mia mente. Sto benissimo, me lo ha fatto capire un dietologo che mi ha anche ingiunto una dieta iperproteica per mettere su muscoli (sono astenico) e di correre tre volte alla settimana per allenarmi alla maratona. Questo sarà difficile ma l'allenamento l'ho iniziato.
mercoledì 20 settembre 2017
Diario della presenza mentale, 9
In La biada quotidiana, 2 (Spinoza e la presenza mentale), si era affacciata per l'ultima volta nelle mie note la Presenza Mentale (d'ora in poi PM).
Oggi è ritornata.
Penso che la PM sia una sorta di grazia. In ogni caso non è possibile darsela.
Oggi pomeriggio ha fatto la sua ricomparsa.
Sembra l'effetto remoto di una lunghissima, misteriosa, catena causale.
In certe situazioni "mi torna in mente" la (possibilità della) PM: allora provo a praticarla e dopo pochi secondi percepisco me stesso in un altro modo, mi rilasso, mi pare di ricordarmi che non ci sia nulla di cui preoccuparsi.
La sensazione dura però pochi secondi, poi scompare. A quel punto sento che dovrei fare un grande sforzo per ricominciare*.
Credo che, questa volta, la PM mi sia tornata per via delle mie letture di Emanuele Severino: l'idea che tutto sia eterno non mi risulta più così assurda come un tempo. Del resto, quando anni fa mi dedicai al buddhismo zen, riuscivo a pensare l'essere-vuoto del tutto. (Sono idee complementari? Sono la stessa idea?)
*Nel Diario della presenza mentale, 8, dicevo infatti: "una volta che l'idea della presenza mentale è presente, bisogna usare la volontà per praticarla. La mia volontà deve anzi lottare duramente contro l'inerzia della mente per riuscire a concentrarsi nella propria autopresenza.
So che la mia coscienza può cambiare di qualità attraverso la presenza mentale, anche se non l'ho mai sperimentata per tempi lunghi. Ormai penso di dovermelo imporre volontariamente."
Oltre i limiti del pensiero, di Graham Priest
1. I limiti del pensiero
La finitudine è un fatto fondamentale dell'esistenza umana. Che si tratti di una fonte di dolore o di sollievo, è indubbio che ci siano limiti a ciò che le persone vogliono fare, siano essi limiti della resistenza umana, delle risorse, o della vita stessa. Quali siano questi limiti, talvolta possiamo solo ipotizzarlo; ma che ci siano, lo sappiamo. Ad esempio, possiamo solo indovinare quale sia il tempo limite per correre un chilometro; ma sappiamo che c'è un limite, imposto dalla velocità della luce, se non da molte cose più terrene.La finitudine è un fatto fondamentale dell'esistenza umana. Che si tratti di una fonte di dolore o di sollievo, è indubbio che ci siano limiti a ciò che le persone vogliono fare, siano essi limiti della resistenza umana, delle risorse, o della vita stessa. Quali siano questi limiti, talvolta possiamo solo ipotizzarlo; ma che ci siano, lo sappiamo. Ad esempio, possiamo solo indovinare quale sia il tempo limite per correre un chilometro; ma sappiamo che c'è un limite, imposto dalla velocità della luce, se non da molte cose più terrene.
Questo libro parla di un certo genere di limite; non i limiti degli sforzi fisici come correre un chilometro, ma i limiti della mente. Li chiamerò limiti del pensiero, anche se "il pensiero", qui, deve essere compreso nel senso oggettivo, fregeano, in quanto riguarda il contenuto dei nostri stati intenzionali, non la nostra coscienza soggettiva. Si potrebbero anche descrivere come limiti concettuali, in quanto riguardano i limiti dei nostri concetti. Comunque li si chiami, alla fine del libro avrò dato una precisa caratterizzazione strutturale dei limiti in questione, nella forma dello Schema di Inclusione. Per ora, alcuni esempi basteranno a indicare ciò che ho in mente: il limite di ciò che può essere espresso; il limite di ciò che può essere descritto o concepito; la linea di ciò che può essere conosciuto; il limite di iterazione di qualche operazione o simili, l'infinito nel suo senso matematico.
sabato 16 settembre 2017
Lacan ha rotto i coglioni (da Fools, Frauds and Firebrands di Roger Scruton)
Lacan è stato descritto da Raymond Tallis come "lo strizzacervelli venuto dall'inferno", parole che caratterizzano in modo adeguato la pratica di uno psicoanalista che poteva vedere dieci clienti in un'ora, a volte assistito dal suo barbiere, sarto o pedicurista e la cui idea di cura era quella di insegnare ai pazienti a parlare, pensare e sentire nello stesso linguaggio paranoico del proprio medico. Ma forse non dovremmo essere troppo duri con Lacan da questo punto di vista. Le persone diventano famose come psicoanalisti non per i loro successi terapeutici (forse non ce ne sono), ma per le loro idee. E la fama di un'idea nasce dalla sua influenza, non dalla sua verità. Lo stesso valeva per Freud, Jung e Adler; così è stato per Klein, Binswanger, Lacan e molti altri.
L'inconscio, ha scritto Lacan, è strutturato come un linguaggio. Ed egli ha cominciato a interpretare questo linguaggio prendendo a prestito termini della linguistica saussuriana, insieme all'idea dell'Altro, come l'aveva trovata in Kojève. Ha anche disseminato i suoi scritti e le sue lezioni di gergo matematico, tratto da teorie che non si curava capire, ma cui si riferiva aleatoriamente come "matemi", per analogia con i fonemi e i morfemi in cui i linguisti dividono le parti funzionali linguaggio. (Con una mossa simile, Lévi-Strauss più o meno nello stesso tempo introdusse il 'mitema' e Derrida il 'filosofema', un uso che era stato anticipato da Schelling).
C'è, suggerisce Lacan, un grande Altro (A maiuscola per "Autre"), che è la sfida presentata al sé dal non-sé. Questo grande Altro insegue il mondo percepito con il pensiero di un potere dominante e di controllo - un potere che allo stesso tempo cerchiamo e fuggiamo. C'è anche il piccolo altro (a minuscola per "autre") che non è veramente distinto dal sé, ma è la cosa vista nello specchio durante quella fase di sviluppo che Lacan chiama lo "stadio dello specchio ", quando il bambino apparentemente si è riconosciuto nello specchio e dice 'ah-ha!'. Questo è il punto di riconoscimento, quando l'infante incontra prima l'oggetto = 'a', che in qualche modo - che ritengo impossibile decifrare - indica sia il desiderio che la sua assenza. (Si noti, però - anche se Lacan caratteristicamente non lo fa - che i bambini ciechi diventano abili nella pratica di distinguere sé dagli altri alla stessa età dei bambini vedenti).
La fase dello specchio fornisce all'infanzia un'idea illusoria (e breve) del Sé, come un onnipotente altro nel mondo degli altri. Ma questo sé è presto schiacciato dal grande Altro, un personaggio basato sullo scenario del seno buono/cattivo, poliziotto buono/poliziotto cattivo inventato da Melanie Klein. Nel corso dell'esposizione delle tragiche conseguenze di questo incontro, Lacan si presenta con intuizioni sorprendenti, spesso ripetute senza spiegazioni dai suoi discepoli, come se avessero cambiato il corso della storia intellettuale. Una in particolare viene continuamente ripetuta: «non c'è relazione sessuale», un'osservazione interessante proveniente da un seduttore seriale da cui nessuna donna, nemmeno le sue analizzanti, era sicura.
(traduzione in fieri, continua...)
martedì 5 settembre 2017
Pensare le migrazioni: la Conclusione Ripugnante di Derek Parfit (mia traduzione di The Repugnant Conclusion, Stanford Encyclopedia of Philosophy)
Nella formulazione originale di Derek Parfit, la conclusione ripugnante è espressa così: "Per qualsiasi popolazione di almeno dieci milioni di persone, tutte con una qualità di vita molto alta, deve essere immaginabile una popolazione molto più grande la cui esistenza, a parità di tutte le altre condizioni, sarebbe migliore anche se i suoi membri avessero vite che a malapena varrebbe la pena di vivere "(Parfit 1984). La conclusione ripugnante mette in evidenza un problema in un'area dell'etica che è diventata nota come etica della popolazione. Gli ultimi tre decenni sono stati testimoni di un crescente interesse filosofico su questioni come "è possibile rendere il mondo un luogo migliore creando ulteriori persone felici?" E "C'è un obbligo morale di avere figli?". Il problema principale è stato quello di trovare un'adeguata teoria sul valore morale degli stati in cui possono variare il numero di persone, la qualità della loro vita (o il loro benessere ...) e le loro identità. Dal momento che, si può argomentare, qualsiasi teoria morale ragionevole deve prendere in considerazione questi aspetti di possibili stati di cose per determinare lo status normativo delle azioni, lo studio dell'etica della popolazione è di importanza generale per la teoria morale. Come indica il nome, Parfit ritrova inaccettabile la Conclusione Ripugnante e molti filosofi sono d'accordo. Tuttavia, è stato sorprendentemente difficile trovare una teoria che eviti la conclusione ripugnante senza implicare altre conclusioni altrettanto controintuitive. Pertanto, la questione su come la Conclusione Riepugnante debba essere affrontata e, più in generale, ciò che essa dimostra circa la natura dell'etica ha trasformato la conclusione in una delle sfide cardinali dell'etica moderna.
(...continua...)
(...continua...)
https://plato.stanford.edu/entries/repugnant-conclusion/
mercoledì 26 luglio 2017
Non sapevo di non sapere (Roman nouveau, 32)
Arrivai all’ospedale di Torino verso le sette di sera. Prima di entrare da papà chiesi di poter parlare col medico, il quale mi disse che la situazione era gravissima: le condizioni generali erano molto peggiorate nelle ultime quarantotto ore. Appresi così della cirrosi epatica. Cirrosi epatica? Già, disse il medico: lei non sapeva che suo padre ha la cirrosi epatica?
La domanda mi lasciò oltremodo spiazzato. Ci fu un certo viavai al mio interno, i diversi strati della mia psiche svolsero un rapido dialogo cercando di darsi la colpa l'un l'altro dato che risultavo non sapere ciò che avrebbe dovuto essermi del tutto evidente. A pensarci bene sembra davvero impossibile: lui è tuo padre, tu sei suo figlio, anche se non vivi con lui dovresti avere un'idea del suo stato di salute. In effetti da tempo ero preoccupato, sapevo bene che beveva troppo, ma a Parigi non passavo certo il mio tempo a preoccuparmi per lui, essenzialmente perché era del tutto inutile.
Talvolta litigavamo di brutto, quando tentava di confidarmi le sue preoccupazioni per la sua salute. Mi diceva: “devo fare molto attenzione perché ho il diabete alto”, si punzecchiava il dito e si misurava la glicemia con l’apparecchietto. Poi però beveva lo stesso. Non voleva mai andare dal dottore, allora mi infuriavo come un pazzo e insistevo a dirgli di farsi visitare, perché certo non potevo saperlo, io, come mai gli tremavano le gambe. Era grasso e gli tremavano le gambe.
Un giorno, quando abitavo da lui prima di andare a Parigi, nell'anno in cui scrivevo la tesi di laurea a casa sua a Cherasco, mi prese una tale angoscia e gli urlai che doveva lasciarmi in pace e farsi visitare da un medico, che per quanto ne sapevo io lui poteva anche essere in procinto di morire, ma per piacere la smettesse di angosciarmi e andasse dal medico del cazzo che proprio non capivo perché non volesse andarci.
In seguito credo di averlo capito il perché: l’angoscia e la paura di morire lo paralizzavano in un comportamento suicida. L’ho imparato leggendo L’io e l’es di Freud. E a pensarci bene, un'angoscia simile doveva avere costretto anche me a rimuovere l'evidenza della malattia di mio padre. In effetti la domanda del medico avrebbe piuttosto dovuto essere formulata in questa maniera: lei non sapeva di sapere che suo padre ha la cirrosi epatica?*
Negli ultimi tempi c'era stata un'interruzione della comunicazione tra me e papà. Quando mi arrabbiai a morte e gli urlai contro, lui si offese e col suo tipico fare infantile disse che allora non mi avrebbe mai più disturbato. E se avesse aggiunto “in vita mia” avrebbe obiettivamente mantenuto la parola.
Un mese prima della sua morte mi aveva confessato di traballare sulle gambe. Una volta era caduto per terra in salotto, al buio, sul tappeto, sbattendo la testa contro lo spigolo di un tavolino. Neppure con questo racconto riuscì a spaventarmi abbastanza: cioè non mi preoccupò tanto da indurmi a tentare ogni sforzo per farlo curare. In ogni caso la faccenda era si può già dire tutta regolata: il suo fegato ingrossato sporgeva di 5 centimetri almeno.
Immagino papà rialzarsi dolorante dopo quella caduta, e chiedersi come sia potuto succedere: poi si asciuga il sangue dalla testa ferita e si dice di essere finito, sa che la morte si sta avvicinando. Lo immagino andare in cucina a cercare dentro al frigo per bere ancora un bicchiere di vino bianco, a consolazione della sua vita schifosa, vita per giunta finita.
A Natale l’avevo visto tutto imbacuccato con un berrettone, come se fosse ammalato. Mi veniva incontro per salutarmi, non vide un basso muretto che ci separava, inciampò e quasi cadde. Lo insultai, sgomento per tanta debole maldestrezza.
Ritornando alla domanda dell'odioso medico che mi chiedeva se non sapevo che mio padre avesse la cirrosi: non lo sapevo no, porcoddio, che mio padre aveva la cirrosi, signor medico di stocazzo, o mi sarei comportato un po’ diversamente, questo lo afferri o no, brutto stronzo detentore del biopotere che mi giudichi dall'alto?
*Per Lacan il “non saper di sapere” è una definizione dell'inconscio freudiano. Oltre al socratico “sapere di non sapere”, Zizek trova spesso dei casi di figura ai quali si applica il “sapere di sapere” e il “non sapere di non sapere”, come Rumsfeld a proposito della guerra in Iraq: “Nel febbraio 2002, Rumsfeld – al tempo segretario USA della difesa – si lanciò in un piccolo esperimento di filosofia amatoriale dedicato ai rapporti tra il noto e l’ignoto. «Ci sono conoscenze note [known knowns]: ossia, ci sono cose che sappiamo di sapere. Ci sono ignoranze note [known unknowns], vale a dire: cose che adesso sappiamo di non sapere. Ma ci sono anche ignoranze ignote [unknown unknowns]: ci sono cose che non sappiamo di non sapere». Il fine di questo esercizio era giustificare l’imminente attacco USA all’Iraq: ci sono cose che sappiamo di sapere (per esempio, che Saddam Hussein è il presidente dell’Iraq); cose che sappiamo di non sapere (quante armi di distruzione di massa possiede Saddam); ma ci sono anche cose che non sappiamo di non sapere; per esempio: e se Saddam possedesse qualche arma segreta ulteriore che neppure immaginiamo? Ma quello che Rumsfeld dimenticò di aggiungere era la quarta possibilità della casistica, una possibilità fondamentale: le “conoscenze ignote” [unknown knowns], ovvero le cose che non sappiamo di sapere – il che è precisamente l’inconscio freudiano, la “conoscenza che non conosce se stessa”, per dirla con lo psicoanalista francese Jacques Lacan (1901- 81), la cui opera è un riferimento fondamentale di questo libro.5 Per Lacan, l’inconscio non è uno spazio istintuale pre-logico (irrazionale) bensì una conoscenza articolata simbolicamente ignorata dal soggetto. Se Rumsfeld pensava che il pericolo principale nel conflitto con l’Iraq fosse l’”ignoranza ignota”, cioè le minacce di Saddam delle quali neppure sospettavamo, la giusta risposta da parte nostra avrebbe dovuto essere la seguente: che il pericolo principale erano, al contrario, le “conoscenze ignote”, le credenze rimosse e le presupposizioni a cui aderiamo senza neanche esserne consapevoli. Queste “conoscenze ignote” furono in effetti la causa principale dei problemi che gli USA incontrarono in Iraq, e l’omissione di Rumsfeld dimostra che non era un filosofo vero. Le “conoscenze ignote” sono poi il soggetto privilegiato della filosofia: formano l’orizzonte trascendentale, o frame (cornice), della nostra esperienza della realtà.” (S. Zizek, Evento, mia traduzione).
giovedì 20 luglio 2017
Zio Leone (Roman nouveau, 31)
Arrivato a Porta Susa c’era ad aspettarmi lo zio Leone, il fratello di mio padre. Avevo cinque zii paterni, ma i più famigliari erano quelli che mi accolsero al mio arrivo a Torino: la zia Pierina e lo zio Leone.
Credo di ricordare le prime volte che sentii il nome dello zio, da piccolo: zio-leone era un nome impressionante, ti aspettavi qualcosa di leonino, ma invece trovi un signore logorroico con la barba bianca alla Balbo. Non sta la rosa nel suo nome.
Credo di ricordare le prime volte che sentii il nome dello zio, da piccolo: zio-leone era un nome impressionante, ti aspettavi qualcosa di leonino, ma invece trovi un signore logorroico con la barba bianca alla Balbo. Non sta la rosa nel suo nome.
Dall'età della ragione in poi avevo sempre considerato lo zio Leone un deficiente. Frequentare per più di un’ora lo zio mi metteva agitazione, perché parlava senza sosta delle proprie opinioni, senza curarsi degli ascoltatori. Non era certo cattivo, anzi gli volevo bene. Era un insopportabile scapolo egocentrico, forse inconsapevolmente omosessuale, un personaggio di un film di Verdone.
Al mio arrivo a Torino, questo zio mi saluta e mi fa salire sulla sua macchina per condurmi dagli altri zii, poiché era ancora presto per le visite in ospedale. Ero tranquillo, quasi sprezzante del fastidio di dover essere venuto a Torino da Parigi. Lo zio Leone era indecifrabile come sempre, con la sua barba fascista.
Pensavo che fosse tutto un equivoco: dopo la guarigione di papà mi sarei sfogato con lui raccontandogli come avessero esagerato questi zii tanto affettuosi e premurosi ma senilmente rimbambiti.
Partenza (Roman nouveau, 30)
Di quel sabato mattina ricordo la visita al Beaubourg, la passeggiata nel Marais e un pranzo in un ristorantino libanese, durante il quale bevevo birra, per calmarmi. In effetti in quel ristorantino libanese bevevo birra perché a Parigi io ero solito bere parecchia birra.
Ricordo la tensione crescente fra me e mia madre: lei non voleva lasciarmi partire, consigliava di aspettare, di vedere se fosse davvero il caso. Se fosse davvero il caso! Voleva forse che arrivassi troppo tardi al capezzale di mio padre? Se fossi arrivato troppo tardi per vedere mio padre non l’avrei mai mai perdonata.
Il giorno prima della morte di mio padre viaggiai in TGV da Parigi a Torino, in prima classe trovata d’urgenza, perché la zia aveva detto al telefono che papà si aggravava. Riattaccato il ricevitore piansi abbondantemente, seduto sulla sponda del mio letto parigino poggiato su mattoni (l’avevo trovato così al mio arrivo).
Poiché ignoravo la causa della malattia di mio padre mi lasciai tranquillizzare da un amico medico. La zia Pierina aveva detto che papà aveva una polmonite da miceti. Appresi allora che i miceti sono dei microfunghi. Non avevo mai sentito parlare di miceti che provocano polmoniti, ma mi abituai presto all’idea che esistono. Però l'amico medico mi aveva detto di stare tranquillo, perché le polmoniti curate per tempo non sono praticamente mai mortali, miceti o non miceti.
Durante il viaggio in treno ho letto The last tycoon, l’ultimo libro di Fitzgerald, comprato d'occasione nel mio viaggio in UK. Poco prima di partire per la mia vacanza avevo visto in un cinema di Parigi il film di Kazan.
La protagonista femminile di The last tycoon di Elia Kazan è una figura poco definita, oggetto d'amore del protagonista maschile: appare e scompare, entra ed esce dalla psiche di Monroe Stahr – un Robert de Niro giovane e bello, nella parte del produttore cinematografico d’assalto (tycoon). Tale fort/da frantuma il cuore dell'eroe. Kathleen Moore vuole infatti una vita tranquilla, ma Stahr non saprebbe tranquillizzare la vita di nessuno, soprattutto non la propria: fattosi da sé, venuto dal nulla, come gli ricorda un amico attore (Tony Curtis), non può sottrarsi alla spinta univoca e ormai distruttiva che prima lo rendeva squalo tra gli squali. Era un uomo d’affari forse disgustoso, i suoi affari erano il cinema: passione che rende innocenti spremendo denaro dai sogni delle persone.
Sthar amava un tempo una donna poi deceduta: Kathleen ne è un'apparente reincarnazione. Per un istante lei pare decidere di restare con lui, se solo Sthar confessasse il suo amore, la sua singolarità affettiva: «sì?», domanda lei che ha percepito un'intenzione comunicativa di lui nell’incontro che sarà l’ultimo.
«Niente», risponde lui deludendo tutti. Subito dopo, Stahr fa il balzo decisivo e trova le parole après coup: scrive una lettera in cui immette il suo fortissimo ti-amo: lei acconsente telefonicamente, per un istante, al suo tardivo desiderio. Lui: «Dimmi sì, subito!», lei: «Sì». Ma l’esitazione di Stahr ha ormai prodotto una sincope non più appiattibile sul punto di unione dei disgiuntissimi amori. Sempre più veloce, con ritmo ulteriormente differenziante, lei gli dice addio per telegramma: si sposa con un altro uomo a noi ignoto, proprio come deciso fin dall’inizio. Adesso, Stahr si ubriaca nel mezzo di un incontro importante, picchia il sindacalista delegato alle trattative (Jack Nicholson), rovina l’affare e se stesso, viene allontanato dalla casa di produzione di cui era poco prima il potentissimo genio ispiratore. Crede ancora di essere essenziale ma forse si è sempre ingannato e la sua volontà non era che la pura maschera di un ritmo sotterraneo da lui non comandato.
Noi siamo agitati in molti modi dalle cause esterne, come onde del mare, agitate da venti contrari, fluttuiamo, ignari della nostra riuscita e del nostro fato.
È Stahr a essere ora decentrato, psichicamente solo, anche se la figlia del padrone della casa cinematografica lo ama fin dall’inizio. Ma non gli è mai stata così distante come nel momento in cui si avvicina all’uomo, annichilito, per confortarlo. Ora Stahr, divenuto tragicamente veggente può fantasticare su un’ispirazione improvvisa del passato: il nichelino è per il cinema, era la formula magica da lui creata per stregare un autore non in sintonia coi gusti del pubblico, un’improvvisazione che sembra una profezia del suo disastro. Il Terzo Uomo, lo Sposo di Kathleen, si vede di spalle, mentre nella prima occorrenza non si era ancora materializzato nella sua vittoriosa terzità, non rappresentava ancora la minaccia invisibile.
Alla fine Monroe scompare nel buio di un capannone cinematografico, dicendo – all’Amata, a noi pubblico – Non voglio perderti.
Cinema e amore svaniscono nello stesso sito.
Il libro di Fitzgerald non l'ho mai finito, anche perché faticavo a leggerlo in inglese.
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