E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

martedì 18 ottobre 2011

Pensieri sparsi sulla guerra sociale che ha luogo in Italia, 2011

Possiamo ora dirlo liberamente, poiché è finalmente venuta ad esaurimento la leggera sbornia unitarista, da festeggiarsi con bandierine tricolori e iniziative pseudoculturali maggioritariamente insulse: L'Italia è in guerra, una guerra sociale, e questo stato di guerra è sotto gli occhi di ognuno.

Per sapere che le classi sociali esistono non c'era bisogno di Marx (al limite bastava Hegel), così come oggi non c'è più alcun bisogno di riutilizzare il vecchio concetto di conflitto di classe: il proletariato industriale che Marx aveva idealizzato come "classe universale", non esiste più o forse non è mai esistito con quelle caratteristiche di omogeneità e universalità, come alcuni hanno sempre sospettato (per esempio Jacques Rancière). Ci sono classi, gruppi, settori, insiemi e soprattutto individui con proprietà sociali simili o diverse tra loro. Oggi, in Italia, gli individui e i gruppi sono attraversati tutti dallo stato di guerra sociale, che schiera due soli campi avversi.

In Occidente, la situazione di guerra sociale, che alcuni (Agamben) teorizzano ormai da anni come guerra civile planetaria, è data dalla pretesa totalitaria del capitale di sussumere tutto il sociale. I cittadini occidentali, e particolarmente quelli della repubblica italiana (in Occidente un paese-frontiera della guerra sociale planetaria) sono schierati su due virtuali campi avversi: chi detiene ricchezza, o è al suo servizio, e chi detiene scarsa o nulla ricchezza o si schiera al fianco dei nullatenenti (anche perché viene rapidamente trasformato in uno di essi).
All'interno di questi due campi le differenze sono molte e rilevanti. Ma i campi sono quelli, e in Italia l'esasperazione sociale, culturale e politica causata dal berlusconismo (più sintomo che causa della guerra sociale) li ha resi più compatti che in passato.

Non è necessario approfondire se chi detiene ricchezze sia "capitalista" in senso marxiano, ossia se detenga realmente i mezzi di produzione, o se faccia semplicemente parte di un gruppo sociale che detiene o controlla i mezzi di produzione e dunque la produzione. E' evidente il collante materiale (postideologico) dei due campi in guerra: la ricchezza e il suo immaginario. Ogni altra ideologia sembra oggi ridotta al lumicino, inclusa quella falsamente universalistica della chiesa cattolica.

Si è parlato molto di violenza e pacifismo, negli ultimi tempi, e molto a sproposito. Qualcuno (per esempio Belpoliti) ha teorizzato (per la verità debolmente) la fine delle rivoluzioni e l'inizio dell'epoca delle rivolte. Negli ultimi mesi in Italia ci sono in effetti stati alcuni episodi di scontri violenti tra poliziotti e gruppi di "antagonisti" bellicosi.
Nota: La stessa definizione giornalistica di "antagonista" tende a maschere l'esistenza della guerra sociale. Come se chi critica anche violentemente quest'ordine sociale facesse parte di un semplice "agonismo", una leale gara tra capitale e individui.
Ora, mi pare che non si sia ancora notato che in questi scontri la violenza è sempre stata in qualche modo irregimentata. L'obiettivo dei bellicosi è sempre il solito: la distruzione fisica di obiettivi simbolici come banche e gioiellerie (centrali di spaccio del capitale e del lusso), che non può non passare per il confronto fisico con le forze di polizia, anche nel corpo a corpo. Ogni scontro vede una parte di "vincitori" e una parte di "vinti". E' qui evidentemente in gioco una dimensione simbolica, sinteticamente analizzata da Toni Negri (Il lavoro di Dioniso): la posta consiste in una momentanea vittoria o sconfitta della forza antgonista o dello Stato, simboleggiato dalle forze di polizia. Quello che sembra essere veramente in gioco è il confronto con la forza dello Stato, all'interno di una logica di confronto violento ma non radicalmente distruttivo. Nessun bellicoso ripeterebbe oggi gli slogan degli anni settanta contro lo Stato. Il problema sembra non essere più lo Stato bensì direttamente il capitale.
Tra i  bellicosi vi sono anarchici e marxisti: i primi sanno di essere troppo deboli per pensare di attaccare lo stato, gli altri non vogliono distruggerlo in quanto tale ma vorrebbero uno stato privo di capitale (vogliono certamente combattere lo stato capitalista: la questione dell'abolizione dello stato è rinviata indefinitamente).


Un critico letterario neomarxista, commentando i fatti di Roma del 15 ottobre, si compiace di dichiarare "gente di merda" i bellicosi: di merda perché pensano di merda, anzi non pensano, perché non hanno una prospettiva politica.
Nella reazione del postmodernista di fronte a quella che lui chiama "estetizzazione della politica" à la Benjamin, affiora chiaramente l'esacerbato senso di impotenza personale, e di casta, che affligge l'intellettuale italiano progressista nel 2011: il sogno del comunismo si rovescia nell'incubo della violenza anarchica e ai militanti comunisti che scelgono gli scontri di piazza non viene nemmeno riservata l'ipocrisia dei "compagni che sbagliano": sono semplicemente dichiarati impolitici.
Così, l'intellettuale neomarxista prolunga la ridicola ma tragica abitudine delle scomuniche e degli anatemi comunisti: chi è nemico del Partito (oramai  virtuale e conseguentemente e per l'ennesima volta sostituito non senza ansia dal "movimento") lavora per i fascisti.

Sarebbe del resto troppo facile far notare la contraddizione: accusati di "estetizzazione della politica", i blackbloc in realtà né pensano né fanno politica. Si dovrebbe dunque chiedere al critico neomarxista: CHE COSA E' dunque ciò che viene "estetizzato" da questi animali impolitici?


Chi sono, in Italia, i cosiddetti indignati che il 15 ottobre 2011 hanno fatto la loro comparsa sulla pubblica scena italiana, subito intercettati dai bellicosi?
L'etichetta deriva dal libretto di Stéphan Hessel, Indignez-vous!, subito adottato e amplificato dai mass-media di tutto l'Occidente. (Ma a New York l'etichetta è più diretta e tatticamente simbolica: Occupy Wall Street).
Non è difficile vedere che si tratta di quello che Wittgenstein avrebbe chiamato un errore grammaticale. Il verbo "indignarsi", non tollera sensatamente l'imperativo. Dire a qualcuno "indìgnati" non ha più senso che dire a qualcuno "desidera!" oppure "devi volerlo!" o, in negativo: "non pensare a un elefante rosa". Non si può indurre qualcuno a indignarsi, come non lo si può indurre a non pensare a un elefante rosa dopo che lo si è evocato.
Il linguaggio in molti casi non aderisce alla realtà, e questo è uno di quei casi.

Da dove viene questa esigenza di autoetichettarsi di fronte all'opinione pubblica (a ciò che ne resta) e - soprattutto - di fronte ai mass-media? L'impressione è che un'etichetta confusa possa venire agitata con tanta ingenua convinzione quanto più è debole e confuso il movimento che si riconosce in esso.
Non stupisce che i bellicosi prendano facilmente il sopravvento su un gruppo di persone che si vogliono pacifiche, ma che non è detto abbiano un rapporto sostanzioso con la teoria e la prassi della nonviolenza (ben lontana dall'esaurirsi nel "non lanciare le pietre").

Potrebbe essere di qualche utilità la definizione che Spinoza dà dell'indignazione: "'indignazione è odio verso qualcuno che ha fatto del male a un altro" (Etica). Tre elementi sembrano qui essenziali: l'odio, il male commesso, l'altro che è vittima del male.
Alcuni indignati dicono di protestare per se stessi e il proprio futuro. Questa si chiamerebbe più correttamente rabbia o ira ("cupidità da cui per odio siamo incitati a far del male a chi odiamo", sempre Spinoza). Non riesco a immaginare nessun militante di sinistra del Novecento mentre esclama la propria "indignazione" contro il capitale.
La mia domanda è: perché si vuole mascherare la propria giusta rabbia sotto un'etichetta posticcia, amabigua e di provenienza spuria (editoriale e giornalistica)? La risposta che mi viene in mente è una sola, forse inattesa: perché SI HA PAURA DELLA VIOLENZA SENZA CONOSCERE LA NONVIOLENZA.


La lotta NoTav è diventata una causa trasversale per tutti coloro che la guerra sociale non vogliono subirla inermi, indignandosi a mesi alterni e limitandosi a qualche lamentela se il tecnocrate di turno somiglia un po' troppo all'anomalo capopolo precedentemente lasciato governare senza contrasti.
Coloro che lottano in Val di Susa contro un'opera pubblica pensata all'insegna di un'idea di progresso che solo politici ignoranti o in malafede possono proporre senza vergogna - in realtà è finalizzata unicamente al profitto privato, per di più in totale spregio alla crisi dell'economia capitalista che il paese, l'Europa e il mondo (occidentale?) stanno attraversando - non sono uniti dall'appartenenza di classe.
Se è vero che in Valle lottano molti proletari, anarchici o comunisti più o meno bellicosi e organizzati, è altrettanto vero che aderiscono alla causa NoTav molti appartenenti alla cosiddetta "classe media" (esempio esemplare di non-concetto).
La Valle è diventata un simbolo della lotta a un capitalismo feroce e demente, che non dà frutti se non agli affaristi bipartisan, spesso se non sempre collusi con le mafie, ed elargisce qualche sparuto posto di lavoro per operai temporaneamente prelevati dall'esercito di forza-lavoro disoccupata, riserva perenne e anzi crescente che, come vide Marx, il capitalismo si guarda bene dal tentare di riassorbire.
Che la variante keynesiana del capitalismo da ultimo si rovesci storicamente in war-fare non sembra irrilevante per la guerra sociale della Val di Susa: i partiti borghesi di destra e sinistra, dopo avere affossato lo Stato che in effetti non hanno mai tenuto in gran conto, se non nella sua modalità di "stato d'eccezione", pretendono ora di dispensare squallide elemosine in forma di posti di lavoro manuale per grandi opere inutili e insostenibili. Per perseguire i loro scopi di accumulazione di profitti sono prontissimi a invocare il war-fare per una valle la cui popolazione maggioritariamente combatte ormai da anni con tutte le armi a sua disposizione.
Tra queste armi, a differenza da quelle dei politici embedded, specialmente quelli del PD, non è affatto esclusa la nonviolenza. Il fatto che in questa fase i bellicosi abbiano preso il sopravvento dimostra soltanto che nessuna forza poltica ha realmente provato a inserirsi nel dissidio tra il movimento NoTav e l'affarismo bipartisan.
I mezzi dei bellicosi sono sbagliati, anche se forse finora non del tutto controproducenti (la causa non è affatto indebolita, al contrario); ma gli affaristi che usano delle forze dell'ordine non solo usano mezzi violenti, ma li usano per fini del tutto immorali.
[to be continued]

giovedì 29 settembre 2011

Adieu Monsieur Novecento (Vogue32)



La musica del Novecento ha 86 anni e attualmente il suo nome è Pierre Boulez. È lui l'ultimo grande della Nuova Musica (etichetta che designa la musica d’avanguardia del secondo dopoguerra), uno dei più straordinari musicisti viventi e l'ultimo della sua generazione. La stessa di Stockhausen, Berio, Nono, Maderna, Ligeti. Il celebrato compositore ed eccelso direttore d'orchestra sta portando in tournée in Europa (in Italia, a Torino e a Milano, per il Festival MITO) il suo Pli selon Pli, un astratto ritratto musicale del poeta Mallarmé, costruito su alcuni sonetti del poeta francese.
Boulez porta benissimo i suoi anni ed è molto emozionante vederlo dirigere con una precisione ineguagliabile e un’energia tutta intellettuale (siamo agli antipodi della figura del direttore romantico). La sua musica  è un misto di invenzione sublime e regole formali ferree (all’università Boulez studiò matematica). Comunica emozioni per la sua ostentata assenza di emozioni.
Ascoltare oggi queste potenti e gelide composizioni per soprano e orchestra non può non far riflettere sulla grande musica del Novecento, di cui Boulez è ormai il glorioso superstite. La musica di Boulez (il cui “serialismo integrale” è uno sviluppo estremo della dodecafonia di Schoenberg) ha ovviamente i suoi detrattori. Basterebbe ricordare un articolo sardonico di Glenn Gould: “Boulez non sarà magari un grande compositore, ma è certamente un artista interessante” (L’ala del turbine intelligente). O il giudizio tranchant del grande musicista ungherese Ligeti, secondo cui la musica seriale è il frutto di un metodo dovuto a una nevrosi compulsiva. D’altra parte un evento come la collaborazione di Boulez con Frank Zappa, il geniale e dirompente musicista rock (ma l’etichetta “rock” non è mai stata meno sufficiente) per il disco The Perfect Stranger, proietta un fascio di luminosa simpatia umana sul compositore francese, da molti considerato né più ne meno che un cervellotico dittatore (per anni ha diretto – verrebbe da dire con pugno di ferro – l’IRCAM di Parigi, uno dei più importanti centri di ricerca acustica e musicale al mondo).
Tornando al concerto, l'ultimo verso di Pli selon pli gela il sangue nelle vene: “un poco profondo ruscello calunniato la morte”, con la parola “morte” urlata sottovoce (non so come altro dire) dal soprano canadese Barbara Hannigan (http://www.barbarahannigan.com/). Un gesto musicale difficilmente dimenticabile e che basterebbe a smentire l’idea di una musica anaffettiva (quelle che scarseggiano, per non dire che sono del tutto assenti, sono le emozioni positive…). Se Boulez, dirigendo quest'opera grandiosa e gelida voleva farci pensare all’imminente fine, sua e del Novecento musicale con lui, ci è riuscito perfettamente. Per fortuna la bellezza quasi aggressiva della Hannigan, personaggio sempre più di spicco della musica contemporanea (ha esordito recentemente anche come direttrice d'orchestra), fa da perfetto contraltare alle emozioni cupe del concerto.
Nel suo seducente e geometrico perfezionismo, Boulez avrà certamente calcolato anche questo.

sabato 24 settembre 2011

Siamo tutti gay


È “giusto” che i nomi dei politici omofobi di cui si sospetta l’orientamento omosessuale vengano inseriti in una lista di nomi pubblicata su un blog e poi diffusa via web? Potrebbe mai essere giusto qualcosa del genere? La risposta è ovviamente no, non c’è nulla di “giusto” in tutto questo, come in nessuna lista di proscrizione, persecuzione politica, denigrazione pubblica di personaggi della politica o dello spettacolo. Come in qualsiasi violenza piccola o grande, insomma. (Ma attenzione all’argomento che in filosofia si chiama “china pericolosa”: ad un esame attento potrebbe anche risultare ingiusto imporre mai alcunché a chicchessia, e così si sconfinerebbe nel difficile campo morale e politico della nonviolenza e dell’anarchismo).
Tuttavia, nel riflettere sulla “giustezza” di una simile iniziativa non si può non tenere conto del generale e gravissimo livello di imbarbarimento in cui l’Italia è caduta, o meglio scivolata per una china pericolosa, non di colpo ma nel corso degli anni, a causa di alcune anomalie politiche e sociali che sono sotto gli occhi di chiunque le voglia vedere e abbia un minimo di strumenti culturali e morali per farlo.
Un imbarbarimento dovuto innanzitutto alla parte politica che ora viene colpita in questo modo (ma per davvero viene colpita? E quanto? I segreti di Pulcinella hanno qualche valore aggiunto se inseriti nel flusso della comunicazione mediatica?).
Non che il nostro livello di civiltà fosse esemplare, per la verità: anche limitandoci all’Italia unitaria di cui si sono stancamente celebrati quest’anno i 150 anni, è noto che il trasformismo politico (anticamera della corruzione) fece presto la sua comparsa nel Parlamento post-unitario, il che contribuì a far nascere la presunta esigenza del salvatore della Patria, notoriamente poi incarnato da un ex socialista rivoluzionario di nome Mussolini. E il dopoguerra vide subito la penetrazione della mafia nelle istituzioni, favorita fin dallo sbarco americano e cresciuta fino alle dimensioni della soffocante piovra di cui Saviano ha descritto solo l’ultima spettacolare versione, quella dell’affarismo camorristico.
Nel caso di questa lista di presunti omosessuali omofobi (di questo si tratterebbe), la stessa comunità omosessuale è ovviamente divisa: come può essere uno strumento di lotta per i propri diritti accusare gli omofobi di appartenere alla stessa comunità da essi disprezzata? Che senso politico e morale può avere questa spiata (anonima e dunque fortemente indebolita nella sue eventuali pretese morali)?
Sarebbe bello vivere in un paese normale, come quello evocato in un suo libro da D’Alema (uno dei politici unanimemente accusati di aver maggiormente contribuito all’allontanarsi della normalità): un paese cioè nel quale gli orientamenti sessuali di ciascuno non solo non facessero notizia ma nemmeno abbisognassero di impervi iter legislativi, regolarmente vanificati dagli “scrupoli di coscienza” di qualche benpensante.
Sarebbe bello, ma così non è: l’Italia non è (più e da tempo) un paese per anime pure. E come si dice in questi casi: à la guerre comme à la guerre.

mercoledì 21 settembre 2011

Bentornato, Houellebecq (vogue31)



Bentornato, Houellebecq

E' durata poco, per fortuna, l'ansia per la presunta scomparsa di Michel Houellebecq. Razionalista nichilista e maudit, scrittore tra i più philosophes tra quanti oggi abbiano un grande pubblico, Houellebecq, alias Michel Thomas, è noto per una certa misantropia: vive in solitudine e il suo editore è abituato a lunghi silenzi. Nei giorni scorsi tuttavia si era diffusa su internet la notizia che lo scrittore francese, atteso ad Amsterdam e Bruxelles per un ciclo di letture, non si era presentato e nessuno aveva sue notizie.
Così, le scene dei suoi libri iniziavano ad affacciarsi alla mente degli appassionati lettori (quelli che non sono appassionati lo odiano): “La testa della vittima era intatta, mozzata di netto, posata su una poltrona davanti al caminetto; una piccola pozza di sangue si era formata sul velluto verde scuro (…). Il resto era un massacro, una carneficina insensata, brandelli, strisce di carne sparpagliati sul pavimento”. Questa era la fine riservata al personaggio omonimo dello scrittore (simile ma non identico alla persona reale) in La carta e il territorio, un bel romanzo molto diverso dai precedenti, meno nichilista e disperato - nonostante vi si narri di solitudine, eutanasia e assassinio - con il quale Houellebecq ha finalmente vinto nel 2010 il premio Goncourt, uno dei più prestigiosi premi letterari francesi.
Nelle Particelle elementari¸ uno dei suoi capolavori centrati sull’infelicità della condizione umana e sulla possibilità di trionfare su di essa attraverso la tecnica (idea svolta in termini di clonazione nel romanzo La possibilità di un’isola, spietato visionario e lirico, forse il suo capolavoro), descriveva sobriamente il probabile suicidio del protagonista: “Al momento della sua scomparsa, Michel Djerzinski era unanimemente considerato un biologo di altissima levatura, e lo si riteneva un valido candidato al Nobel; ma l’effettiva portata della sua opera si sarebbe rivelata solo in seguito. (…) Secondo la testimonianza delle poche persone che frequentarono Djerzinski in Irlanda durante le sue ultime settimane, su di lui sembrava essere scesa una sorta di rassegnazione. Il suo volto ansioso e mobile sembrava essersi pacificato (…) Permanendo malgrado tutto il mistero intorno alla scomparsa di Djerzinski, il fatto che il suo corpo non sia mai stato ritrovato ha finito per alimentare una tenace leggenda secondo la quale sarebbe partito per l’Asia, segnatamente per il Tibet, al fine di confrontare i propri lavori con certi insegnamenti della tradizione buddista”.
Se non proprio di una fuga in Tibet, speravamo - noi ammiratori incondizionati dello scrittore - che si trattasse di un’assenza dovuta a ragioni futili e passeggere: la spiegazione ufficiale parla infatti di un misunderstanding. (Immaginiamo Houellebecq riferirisi in cuor suo all'accaduto in termini meno diplomatici).
Certo, è nota la sua tendenza depressiva, fulcro dell’ispirazione letteraria, e un po' di inquietudine ci turbava. Ma non escludevamo, non fosse per la fatica e il dubbio godimento che se ne potrebbe trarre, in una specie di capriccio d’artista, per il divertimento di vedere quali stupidaggini si possano ancora scrivere sul suo genio. Come quando da bambini, o per melanconia, immaginiamo il nostro funerale e il pianto dei nostri cari per la nostra scomparsa.
Se davvero Houellebcq non avesse mai più potuto scrivere il suo prossimo romanzo, avremmo almeno sperato che la sua scomparsa somigliasse a  quella del protagonista delle Particelle, descritta con tratti sublimi: “Svariate testimonianze attestano la sua fascinazione per quella punta estrema del mondo occidentale, costantemente bagnata da una luce mobile e dolce, dove amava spingersi durante le sue passeggiate; dove, come scrive in uno dei suoi ultimi appunti, ‘il cielo, la luce e l’acqua si confondono’. Oggi noi pensiamo che Michel Djerzinski sia entrato nel mare”.
No, Michel non è entrato nel mare, per fortuna, ma è sano e salvo a casa sua.
Prendere nota per la prossima volta: ricordarsi di imparare a non prestare orecchio alle chiacchiere della società dello spettacolo.

martedì 20 settembre 2011

Tutti sono stati bambini. Conversazione di Enrico Manera con Giuseppe Caliceti

Pubblicato su Doppiozero: Lavagna

Enrico Manera
 

Tutti sono stati bambini. Conversazione con Giuseppe Caliceti

Da quando sono un insegnante ho notato che tutti gli adulti, indipendentemente dalla loro professione, quando parlano di scuola rimuovono costantemente la loro esperienza di studenti, dando giudizi di taglio vagamente sociologico che magari si appoggiano sulla vicenda dei loro figli o di adolescenti che conoscono.
Chi non lavora nella scuola – e spesso anche chi ci lavora – ha a che fare con una rappresentazione ideologica della realtà costruita dai media. Una rappresentazione che dipinge la scuola come il teatro di una catastrofe e il luogo della barbarie, con il preciso compito di servire l’attacco contro la scuola pubblica in corso da tempo, di cui i Gelmini, Brunetta, Tremonti hanno scritto solo la pagina più recente, offensiva e brutale. I problemi reali vengono sistematicamente ignorati e l’invenzione di presunte emergenze serve per legittimare provvedimenti, in genere tagli di spesa o mostruosità burocratiche inconcludenti, che creeranno nuovi problemi: in questo modo in dieci anni la condizione della scuola italiana, e la qualità della vita al suo interno, è peggiorata davvero e sistematicamente.
Il sistema culturale che ha nei media il centro di irradiazione ha rimodellato definitivamente l’economia degli affetti e del desiderio di un paio di generazioni; la scuola è stata in parte in una prima fase luogo di resistenza alla reificazione dei rapporti sociali, contro la logica economicista e contro il nuovo classismo, poi, lasciata sola, è oggi implosa su se stessa per lo sforzo immane. I docenti, sotto un attacco politico incrociato sono più stanchi, invecchiati (si veda l’età media) e a volte logorati, mentre i più giovani sono sistematicamente precarizzati; per poi essere accusati di essere il problema, come se educare gruppi di adolescenti non fosse di per sé un lavoro arduo e soprattutto come se ogni altra agenzia di socializzazione non avesse sistematicamente lavorato contro il modello educativo che trova nel sapere umanistico e scientifico il proprio vettore principale.
La cultura e l’intelligenza non interessano minimamente alla classe dirigente italiana, che al limite se ne riempie la bocca per promuovere le immagini delle aziende, o in chiave paternalistica e di prestigio per accreditare gretti localismi e al massimo pubblicizzare il turismo, secondo i cliché di lungo periodo della cultura di destra, vecchia e nuova. Così la fatica di educare è sistematicamente delegata a una scuola impotente, impoverita e sempre più fragile.

Tra i tanti libri sul tema è particolarmente significativo Una scuola da rifare (Feltrinelli, 2011) di Giuseppe Caliceti, maestro di scuola e narratore. Un libro rivolto ai genitori, che pur essendo colpiti direttamente dai tagli all’educazione, non sempre hanno presente quanto è in gioco nel berlusconismo e nelle sue ‘politiche’ rivolte all’istruzione. Del resto la stessa famiglia è al centro di una grave crisi educativa che si avvita a sua volta con cambiamenti culturali più vasti e problemi di comunicazione tra generazioni.
Caliceti ci fa sedere tra i banchi delle scuole elementari e ci racconta in episodi diversi la scuola da un punto di vista microfisico; la sua è una fenomenologia della vita quotidiana per piccoli apologhi zen, incentrata sul mondo dei bambini e che individua nuclei didattici e politici, i quali, colti nel vissuto ‘segreto’ dei nostri figli, acquistano una potenza paradigmatica e oltremodo significativa. Il suo sguardo sul mondo dell’infanzia mostra in modo più chiaro e diretto di tanti discorsi teorici i nodi problematici della nostra scuola e le loro cause.
Il libro contiene anche un manifesto per una vera rinascita della scuola che affonda le sue radici nel meglio della tradizione pedagogica italiana. “La scuola che vogliamo è: laica, gratuita, libera, solidale; in cui si sta bene insieme; che aiuti i nostri figli a diventare adulti felici e responsabili; sulla quale lo Stato sappia investire come una risorsa; che valuti l’apprendimento, ma che tenga conto anche delle emozioni; in cui i nostri figli imparino a lavorare insieme; proiettata verso il futuro; basata sul metodo delle domande e della ricerca; in cui i docenti siano preparati e si ricordino di essere stati bambini. Vogliamo una scuola senza paura di sbagliare e senza fretta: neppure di diventare grandi”. Quanto segue è una conversazione a distanza con l’autore.

Nel tuo libro mostri quanto di falso, ideologico e propagandistico ci sia nel ritorno a una mitica scuola dei bei vecchi tempi, i cui simboli sono il maestro unico e il grembiulino. Viceversa spieghi in modo semplice le ragioni della qualità della scuola pubblica italiana, prima delle riforme che avrebbero dovuto migliorarla…

Esatto. Penso infatti ci sia stato in questi tre anni una narrazione bugiarda da parte del governo di quanto è successo a scuola; d’altra parte, affermare che con tagli a fondi e docenti, tagli epocali, la qualità della scuola potesse migliorare, era senza dubbio una cosa impossibile. L’ideologia del ritorno al passato come modello per il futuro della scuola ha avuto buon gioco sui genitori degli alunni di oggi perché fa leva sul loro ricordo dell’infanzia, che però è molto diversa dall’infanzia di oggi. È un modello vecchio, anacronistico, classista, poco solidale verso chi ha più difficoltà di apprendimento: e oggi, i bambini che hanno difficoltà di questo tipo sono tanti e spesso sono anche i nostri figli, non solo quelli degli altri. Una volta un mio alunno mi ha detto che l’infanzia è quando un adulto si ricorda di essere stato bambino; non credo ci sia una definizione più efficace per esprimere ciò che per noi adulti è effettivamente l’infanzia; per i bambini, per chi la sta vivendo, invece, è tutt’altro, di tutt’altra consistenza: l’esistenza qui e ora, non un ricordo.

Mi è piaciuta molto la parte sulla valutazione e il modo in cui dai i voti. È un tema delicato anche nella scuola superiore. Colpisce l’attenzione per il mondo dei bambini e la tua denuncia dell’adultizzazione precoce a cui sono sottoposti, che spesso sono i genitori per primi ad auspicare. A questa si collegano lo spirito competitivo e l’ossessione della misurabilità.

In Occidente ci diamo molte arie per come trattiamo i bambini, in famiglia e a scuola, ma penso che ci sia ancora molta strada da fare. Il fatto è che il minore è visto – e lo dice anche la parola ‘minore’ rispetto a un presunto maggiore – come un soggetto non ancora politico, come un progetto di adulto, un prototipo. E non come una persona in fase di crescita. Una persona a tutti gli effetti. Questo comporta tutta una serie di miserie. Io invece, come del resto l’inventore degli asili più belli del mondo, Loris Malaguzzi, credo che i bambini siano portatori di una cultura altra, autonoma, completa, che sarebbe utile, in termini evolutivi e politici, anche per i genitori, per gli adulti.
A proposito di voti e di valutazione: credo ci si debba andare piano, con delicatezza, quando si valuta chi è ancora all’inizio o, comunque, all’interno di un processo educativo e di apprendimento, perché il giudizio dell’adulto, specie se negativo, incide pesantemente sul processo stesso e può creare danni enormi nei bambini e nei ragazzi.

Affronti un discorso molto interessante sulla gestione del tempo, ormai congestionato e pieno di impegni anche per i più piccoli, laddove invece tempi apparentemente morti e poco produttivi sono momenti preziosi per la vita di un gruppo; allo stesso modo una certa solitudine interiore, l’ozio ricreativo e la lentezza, importanti per la formazione dell’individuo sono scomparsi dalla vita dei ragazzi, che è ormai un flusso ininterrotto di informazioni e immagini. Penso a quando racconti del giorno in cui avete guardato la neve cadere…

Il gruppo per me è il luogo principe dell’educazione partecipata: piccolo o grande gruppo che sia. Parlare in gruppo, per esempio, non è facile per i bambini: in una classe di 25 alunni, parli una o due volte ogni 25 volte che ascolti gli altri; generalmente, è qualcosa che per un bambino – ma anche per tanti giovani adulti o adulti – è assai difficile, quasi impossibile, se non sei stato educato a farlo. Tra gruppo e momento individuale non c’è contraddizione, proprio perché parlare in gruppo significa essenzialmente ascoltare. E l’ascolto è degli altri ma anche di se stessi. Poi c’è l’altro problema del tempo libero dei bambini, e qui intendo tempo libero come tempo senza adulti, che ormai pare scomparso dall’infanzia e invece deve essere recuperato perché è fondamentale per promuovere l’autonomia di chi sta crescendo. Invece si tende a riempire di impegni continui i bambini, anche se sono impegni privi di senso e divertimento. Ricordiamoci le parole di Rodari: per sviluppare la creatività occorre anche che un bambino ogni tanto sia solo e si annoi.

Educazione al consumo e alla televisione sono obiettivi prioritari di una didattica che non sia aliena dal mondo reale. È importante che questo avvenga alle elementari, e lo dico da insegnante di liceo che si rapporta con ragazzi e ragazze il cui immaginario è quasi completamente colonizzato e sovradeterminato in senso consumistico, edonista e individualista.

L’immaginario dei bambini fino agli anni ‘70 era in mano alla Chiesa, almeno in Italia. Poi è stato lentamente colonizzato dalla televisione. Penso sia necessario e urgente, come scrivo anche nel libro, introdurre come materia di scuola la lettura e lo studio dei media. E questo ancor prima di tante altre materie che oggi sono alla moda e sembra siano più importanti: informatica o religione, inglese o altro.
Occorre tornare a spiegare bene agli studenti, ma anche ai loro genitori, che tra apprendere e informare e/o convincere a fare qualcosa, per esempio comprare un prodotto o pensarla in un certo modo, c’è una grande differenza. Mi colpisce sempre pensare alla grande quantità di soldi che il mercato spende per convincere e alle somme sempre più esigue e esangui destinate a educare e istruire: non credo sia un caso.

Un’altra cosa che sottolinei è l’attenzione rivolta all’imparare a imparare, al lavoro di gruppo e alle relazioni affettive, come precondizione per ogni compito cognitivo anche elementare. Si tratta di un’esigenza sempre più attuale, al di là delle retoriche globalizzanti legate al discorso sulla formazione permanente.

Certo. E, sottolineo, non solo quando gli studenti sono bambini, sono piccoli. Perché c’è questa leggenda: che l’importanza dell’affettività e delle relazioni affettive siano fondamentali solo nella scuola primaria; in realtà sono sempre fondamentali. E hanno a che fare col rapporto docente-studente e studente-docente: è quello il punto centrale di ogni rapporto educativo. Penso che a questo proposito siano molte le lacune dei docenti. Anche se non è tutta colpa loro. Il nostro sistema formativo è vecchio: prevede che basti conoscere e magari amare una materia, per saperla insegnare, come dicono Mastrocola e Gelmini. In realtà occorre sempre partire dalla didattica e della pedagogia. Se non si parte di lì, non si sta parlando di educazione, di scuola, ma di altre cose.

Nei tuoi allievi vedo un’anticipazione della società italiana del futuro; e anche dell’istruzione superiore alla quale sempre più figli di migranti accedono, con conseguenze rilevanti, ma sostanzialmente ignorate, su programmi e canoni culturali. Dici chiaramente che i bambini non sono razzisti e che la scuola pubblica è il vero centro della multiculturalità.

Ringrazio molto Girolamo De Michele, autore di La scuola è di tutti, per la bella recensione su “Carmilla” al mio Una scuola da rifare perché credo sia stato fino ad ora l’unico ad aver colto un aspetto per me decisivo di questo mio ultimo libro: il fatto che parlando della scuola parlassi anche della società italiana. Anche se penso che nella scuola primaria, si rispecchi ancora la parte migliore della nostra società. Spesso noi docenti, in questi anni, ci siamo trovati ad insegnare valori e contenuti esattamente opposti a quelli dei politici e dei rappresentati del governo: pensiamo alla questione immigrazione. Il fatto è che i valori costituzionali sono stati messi in discussione da questo governo in più casi. Molti docenti si sono trovati spiazzati. Non sanno più a chi dar retta. Ma la cosa più grave è stato l’attacco frontale e violento nei confronti della scuola pubblica, che è il cuore di qualsiasi democrazia. Al ministero dell’Istruzione, a parte il burattino Gelmini, abbiamo avuto “saggi” come Vittadini, gran capo dì Comunione e Liberazione e fondatore della Compagnia delle Opere: gente che è contro la scuola pubblica e a favore delle private, che vive proprio come una roba privata. Gelmini ha gridato mille volte “viva il merito”, “premiamo il merito”, ma ha fatto esattamente l’opposto con la sua controriforma: ha tolto alle scuole pubbliche italiane che i dati Ocse-Pisa del 2007 reputavano migliori delle private; e la scuola primaria italiana dal 2008 a oggi è scesa dal primo al tredicesimo posto in Europa. Di che merito parla? Tutte falsità.

Un tema sottotraccia nelle storie che racconti è la gestione del potere e il rapporto con l’autorità che tu stesso incarni agli occhi dei bambini e con il quale sembri avere un rapporto ambivalente. È qualcosa che riguarda il ruolo di ogni docente – mi ci riconosco – l’inevitabile ‘politicità’ della scuola e più in genere di ogni relazione sociale.

Il ruolo di un docente all’interno della scuola è da sempre delicato. Io credo che debba essere fondamentalmente di mediatore e ascoltatore dei bambini, di gestore il più possibile dei gruppi, di osservatore. É una sorta di antropologo che fa la spola mille volte ogni giorno tra il mondo degli adulti e il suo, tra la sua infanzia e adolescenza di un tempo e l’oggi. Non si tratta di ambivalenza, ma di equilibrio.

Infine, nel tuo discorso c’è il richiamo a non dimenticare lo ‘sguardo bambino’, dei bambini di oggi ma innanzitutto dei bambini che tutti siamo stati. Uno sguardo che potrebbe essere un buon antidoto al peggio portato dalla trasformazione antropologica che ha investito il contemporaneo.

Sì, credo che oggi si tenda a negare il bambino che siamo stati. Il bambino è visto solo come tappa, tutto è proiettato, come d’altra parte sempre accaduto, sull’adulto. Invece è fondamentale, per un docente ma anche per un semplice genitore, per qualsiasi adulto, insomma, mantenere un rapporto aperto con il proprio passato, la propria storia, il proprio essere stato bambino. Perché cambia lo stesso modo di essere adulti. In meglio.

Sillogismo triste

Da giovane avevo tanta - se non di più - voglia di scrivere quanta voglia di leggere.
Ora che ho quasi quarant'anni la voglia di scrivere mi è passata.
Mi aspetto che in vecchiaia mi passi anche la voglia di leggere.

domenica 18 settembre 2011

La mia memoria non è come la valanga bergsoniana


Ho una finestra mnemonica di circa 6 anni, forse perché a 6 anni ebbi il primo grosso trauma della mia vita.
Così, finché ero giovane dimenticavo di volta in volta i periodi precedenti agli ultimi 6 anni.
Ma non era grave perché ero giovane e vivevo nel presente e avevo molta vita presunta davanti a me.
Ora che invecchio, invece, è come se ricordassi con continuità soltanto gli ultimi 6 anni e il futuro non è più così promettente.
Spero che inventeranno un potente farmaco per recuperare la memoria rimossa, o me la vedo grigia.

giovedì 15 settembre 2011

Commoventi vecchi status di Facebook, 2


Oggi, nel 2010



Edoardo Acottodatemi una babysitter e mi solleverò dal mondo


Edoardo AcottoIl protagonista di La carte et le territoire è un pittore. L'inizio del romanzo è stranamente tranquillo...

COME INSEGNARE AI BAMBINI CHE COS'E' IL CAPITALISMO NELLA PRATICA


Ingredienti: 1) minuscoli "giardini pubblici" già privi di erba e attrezzi, in una metropoli scarsa di aree urbane verdi e attrezzate per i bambini; 2) utenza eterogenea e multiculturale, a tendenza sociale medio-bassa; 3) una ditta privata che esercita la nobile arte del profitto con i "gonfiabili" per bambini.
Preparazione: da un giorno all'altro piazzare i gonfiabili della ditta privata nei giardini pubblici, esigendo un obolo monetario per ogni bambino (teoricamente senza limite di tempo ma se c'è ressa si è tenuti a garantire l'avvicendamento).
Risultato: alcuni bambini si inebetiranno nei gonfiabili rinunciando definitivamente agli scarni giochi comunali e accanendosi a zompare ripetutamente su e giù, su e giù, su e giù, fino a che non si confonda cielo e terra, pubblico e privato, bene e male.
Esercizio: provare a frequentare per puntiglio i giardini col proprio figlio, evitando di far entrare il bimbo nei giochi privati, e spiegandogli le virtù del gioco pubblico (al limite insinuare nella mente del proprio figlio che i bimbi entrati nei gonfiabili appartengono alla classe dominante).

martedì 13 settembre 2011

Istanti di lucidità, 1

In certi momenti di opacità dell'intelletto, ci si può convincere che la persona amata ci salvi dall'angoscia per la morte, sia essa figlio o amante.
Ma basta un istante di lucidità per dissipare l'illusione e per capire che qualora si stesse per morire, l'angoscia maggiore verrebbe probabilmente dalla coscienza di dover perdere proprio la creatura amata, alla quale avevamo confidato il senso e il valore della nostra propria vita.
Buddha e Heidegger hanno ragione: non vi è autenticità o salvezza che nel Sein-zum-tode.

martedì 6 settembre 2011

Commoventi vecchi status di Facebook, 1

Oggi, nel 2010


Edoardo Acotto A Rimini, c'è il mare

Oggi, nel 2009


Edoardo Acotto da quasi un anno so che mi basta leggere DFW, e nient'altro

Persone che amiamo ma che ci hanno fatto del male, 1


Franco Battiato è uno che ci ha colonizzato il cuore. Ma dove ci ha portato quell'estetica pop, quel suo pathos essoterico? Alle collaborazioni con i Subsonica? Alle sue pontificazioni sull'arte e la civiltà orientale? Che cosa ci ha insegnato, Battiato, col suo gusto (siciliano-orientale) per i fenomeni culturali più elitari e retrivi (Gurdjeff, Guénon & co.) e il suo snobismo verso la politica e le masse? Ci ha forse indicato una via per la saggezza, per la pace interiore, per la chiarezza mentale?

Mi pare che la sua vecchiaia ci consegni soltanto la figura di un bravo e simpatico cantautore che ha saputo costruirsi un meritato successo, ma nessun antidoto reale alla violenza strutturale della società dello spettacolo. Di cui lui è spudoratamente parte integrante.

***

Aggiornamento 1 novembre 2013, pensando a Halloween di Carpenter: la sua pontificazione che ho odiato di più è sempre stata "ci mancavno gli idioti dell'orrore". Le sue critiche alla società contemporanea in generale sono divertenti, ma questa mi ha sempre punto sul vivo perché penso che i film horror  abbiano un senso profondo (su cui non ho mai riflettuto, ma se potessi inizierei a farlo a partire dal libro di Noel Carrol, The philosophy of horror).

PS: anche l'affaire Battiato-Crocetta riposiziona Battiato in una luce favorevole, ai miei occhi. Non pensavo che riuscisse ancora ad essere così spontaneo di fronte al potere. Buono.

lunedì 29 agosto 2011

Sergio Liberovici, o la musica “per bambini dagli 0 ai 13 anni”

Quando si parla di musica e bambini non si può non rievocare la complessa e straordinaria figura del grande Sergio Liberovici (1930-1991), col quale Giulio Castagnoli ha avuto un lungo e fruttuoso sodalizio. Liberovici, che amava definirsi “irregolare”, era un musicista poliedrico, allo stesso tempo d'avanguardia e attento alla dimensione popolare e politica della musica: la sua attività forse più nota al grande pubblico è legata alla costituzione del Cantacronache, “per promuovere la canzone d’autore, in contrasto col dilagare della musica leggera” (sue sono le due famose canzoni su testo di Italo Calvino, Oltre il ponte e Dove vola l’avvoltoio?).
Liberovici fu direttore del Teatro Ragazzi dello Stabile torinese da lui fondato nel 1975; sostenuto dalla Città di Torino fondò poi nei primi anni ’80 un Laboratorio di Didattica Musicale per l’Infanzia, tuttora in attività. Giulio Castagnoli iniziò la sua collaborazione con Liberovici quando il maestro più anziano scrisse un libretto per il più giovane, che divenne poi Le ore e le lune, operina per le scuole medie. A partire dalla metà degli anni Settanta, insieme ad altri giovani compositori, Castagnoli lavorò con Liberovici a una serie di “operine da camera e da scuola”: alcune erano scritte direttamente dai bambini, altre erano scritte dagli adulti ma eseguite dai bambini, in un lavoro comune che era il frutto di una perfetta sinergia tra infanzia e autorialità.
Per Liberovici i bambini erano il punto di arrivo della sua esperienza musicale: aveva infatti sviluppato una metodologia didattica “per bambini dagli 0 ai 13 anni”. Proprio perché pensava che “la musica è da sempre dentro tutti noi, sin da quando siamo bambini, addirittura in fasce” (Castagnoli). Oggi gli studi neuroscientifici sui bambini danno pienamente ragione a questa intuizione, peraltro comune a musicisti di tutte le epoche. Questa metodologia dava centralità alla scrittura, collegava direttamente l’invenzione alla scrittura (“sai, era un metodo un po’ da compositori, quali eravamo tutti…”, scherza Castagnoli), il che fa una gran differenza rispetto ai metodi didattici per bambini oggi più diffusi (Suzuki, Yamaha), che non ricorrono all’intermediazione della scrittura e quindi della logica: i bambini manipolavano per esempio carte da gioco associate ad elementi musicali, e l’operina si componeva attraverso l’azione segnica dei bambini che poi si trasformava in opera secondo una logica ferrea; il risultato univa la combinatorialità in auge in quegli anni con la creatività ludica tipica dell'età infantile (i materiali scenici, le scenografie e i costumi erano opera di importanti artisti come Ugo Nespolo, Francesco Casorati, Mauro Chessa).
Dell’esperienza liberoviciana Castagnoli è oggi un ideale continuatore insieme alla moglie Erika Patrucco: insieme hanno fondato il gruppo casalese L’Opera dei Ragazzi: “le operine scolastiche che il gruppo esegue oggi (insieme ad alcune canzoni del Cantacronache) sono tratte dai numerosi fascicoli della “Verità da due soldi” pubblicati dal maestro nei primi anni Ottanta per la nostra città”.
Nel corso del prossimo Settembre Musica, l'11 settembre, Giulio Castagnoli sarà al centro di una giornata di rievocazione della figura e dell’opera di Sergio Liberovici, Intorno a / insieme a / con Sergio Liberovici, vent’anni dopo (Musica, dialoghi, racconti e interventi sul compositore, etnomusicologo e didatta torinese) che si terrà al al Teatro Vittoria (ex cinema Vittoria, via Gramsci angolo via Roma) dalle 15.30 alle 19.30 (http://www.mitosettembremusica.it/mitosearch/router?cerca1=liberovici&cerca2=1&x=0&y=0). Verranno eseguite l'operina didattica Il cavallo arcobaleno e Bandiere, relazione da concerto per soprano, coro, due attori, pianoforte, tromba e percussioni. Speriamo con tutto il cuore che il pubblico accorrerà numeroso: non sarebbe forse ora di tornare agli ideali concreti di persone come Sergio Liberovici, per lasciarci alle spalle gli anni bui di X Factor?

sabato 27 agosto 2011

Diario online, 2

Da oggi Agostino usa spontaneamente e appropriatamente il pronome "io". Lo usa ripetutamente, ostentatamente, come per rimarcare l'appropriazione della parola la cui regola d'uso finora gli sfuggiva. Dice "faccio io", "mangio io", "bevo io" ecc. con un'enfasi voluta ma diversa da quella sintatticamente normale: non sottolinea che E' LUI a fare x, bensì che SA come dire che LUI fa x.

Lo scrivo quassù perché non so più dove scrivere cose così.
Un giorno Agostino leggerà il mio blog e ritroverà le tracce del suo ignoto e remoto passato.

Caro Agostino, quando leggerai questi post... chissà come sarà il mondo e chissà dove sarò io, e chissà come sarai tu. Sarebbe bello un giorno poter ragionare insieme di quello che allora sarà il passato e il presente. Ma nulla è scontato, e la possibilità che tutto diventi impossibile è sempre in agguato.

giovedì 25 agosto 2011

Ritratto di Sergio Liberovici, di Giulio Castagnoli (Magister meus). Note di sala per il concerto dell'11 settembre, a Torino (Settembremusica)


C'è un aggettivo con cui Sergio Liberovici amava definirsi: irregolare. Tali furono, infatti, i suoi studi musicali nei tragici anni a cavallo della seconda guerra mondiale in cui ben poche erano le certezze. Nato nel 1930 a Torino, dove il padre era giunto dalla Moldavia, prende giovanissimo lezioni di violino e pianoforte alla scuola ebraica: suoi insegnanti sono a partire dal ’38 alcuni dei migliori strumentisti italiani espulsi da Conservatori ed orchestre a causa delle leggi razziali. A soli quattordici anni impugna il fucile nella lotta partigiana tra le colline e le risaie attorno a Casale Monferrato, dove si rifugia per scappare alla deportazione e alla cui comunità israelitica è legata la madre Cecilia Treves. Nel dopoguerra torna a Torino come pianista della scuola di danza di Susanna Egri, mentre Iginio Fuga gli impartisce lezioni d'armonia, e Sandro Fuga di pianoforte. Gli studi durano poco per vari motivi, non ultimo il frenetico ritmo di lavoro di Sergio, che preferisce ai libri la frequentazione diretta della musica: per la Egri compone nel 1954 il balletto Chagalliana, portato in tournée in tutt’Europa. Due anni dopo, con Italo Calvino che gli scrive il suo primo libretto d’opera ispirato ad un episodio di Marcovaldo, compone l’atto unico La panchina per il Teatro delle Novità di Bergamo di Bindo Missiroli. Nello stesso 1956, e sempre con Calvino, scrive il balletto Lo spaventapasseri, mentre Massimo Mila gli chiede di fargli da vice sulle pagine dell’Unità. Come capita a tutti i giovani del mestiere, gli vengono affidati i concerti minori, con pubblico rado e mediocri esecuzioni, per cui gli sorge spontanea la domanda per chi e per che cosa comporre.

Liberovici vi trova risposta ancora una volta nel fare, e muta leggermente rotta. Seguendo il suo istinto, che da sempre lo porta verso il palcoscenico (Sergio non capiva come la gente potesse amare il cinema, che per lui significava stare fermi davanti ad un muro bianco!), con altri intellettuali e uomini di teatro posa la prima pietra del Teatro Stabile di Torino. Inizia subito a comporre per la scena: sono oltre cento le sue pièces scritte per i principali registi in più di trent’anni. Nel 1957 fonda con lo stesso gruppo di amici (fra gli altri, oltre a Calvino, Franco Antonicelli, Emilio Jona, Michele Straniero) il Cantacronache per promuovere la canzone d’autore, in contrasto col dilagare della musica leggera: tra le 105 canzoni che Liberovici compose nel decennio successivo, forse le più celebri restano quelle su testo di Calvino: Oltre il ponte, Dove vola l’avvoltoio?, Canzone triste e Il padrone del mondo.

Negli stessi anni Liberovici documenta con registrazioni il canto popolare, di protesta, contadino e operaio, in spedizioni sull’altopiano di Asiago, in Polesine, Monferrato, Val di Cogne, Spagna, nell’Algeria in guerra. Il frutto delle ricerche è pubblicato su dischi e libri, uno dei quali è tolto dal commercio a causa della censura. Spesso i materiali raccolti sono riutilizzati creativamente, a volte come semplici spunti per musiche di scena, altre volte come tessere di ampi mosaici che giungono a costituire veri e propri lavori di teatro musicale. È questo il caso, ad esempio, dell’Ingiustizia assoluta, cantata drammatica per attori, gruppo folk e banda musicale scritto nel ’73 per il Teatro Regionale Toscano, oppure, nel 1982, di Bandiere che si presenta oggi a conclusione della giornata dedicatagli a vent’anni dalla scomparsa.

In questi grandi affreschi si trova la cifra più significativa della lezione artistica di Sergio Liberovici: la musica è un fatto collettivo. Si fa, cioè, sempre musica insieme: tale è il nome scelto per la cooperativa fondata da Liberovici nel 1983 con molti giovani (allora) musicisti torinesi, ma tale è anche il titolo del suo libro di Educazione Musicale per la scuola media pubblicato per la Nuova Italia nel ’77, ricchissimo di spunti ma ben poco preso in considerazione da una scuola refrattaria alla ricerca in campo didattico.

Tutti, quando sono insieme, fanno - anche inconsapevolmente - musica. Outis Topos - un lavoro per la radio fatto con Andrea Camilleri e premiato al XXV Prix Italia del 1973 (Liberovici scrisse la musica di molte produzioni RAI, fra cui la celebre serie televisiva del Marcovaldo) – è la dimostrazione che questo modo di vedere le cose può portare a vere e proprie creazioni artistiche. Per la realizzazione di questa radio-opera sono utilizzate, infatti, solo registrazioni di episodi di vita cittadina, slogan di cortei e manifestazioni, canti popolari di protesta e di svago. Il risultato è un lavoro di musica concreta (a mo’ di collage) sul quale il compositore è intervenuto riorganizzando il materiale documentario, integrandolo e rielaborandolo in vario modo.

L’altro punto di partenza del comporre di Liberovici è che la musica è da sempre dentro tutti noi, sin da quando siamo bambini, addirittura in fasce. La ricerca di una musicalità primigenia è la molla che spinge Liberovici a occuparsi di infanzia, non senza una punta di ironia nei confronti di chi, in seguito al suo primo grave malore sul finire degli anni ’70 (che lo costringe ad un lungo periodo di degenza ospedaliera), lo allontana dall’incarico di direttore del Teatro Ragazzi dello Stabile torinese da lui fondato nel 1975. In poco più di un decennio di intensa attività a diretto contatto con i bambini della scuola materna ed elementare egli sviluppa così un proprio metodo di lavoro “per bambini dagli 0 ai 13 anni” che trova fondamento proprio nel teatro musicale, inteso come un’estensione del gioco. Negli stessi anni il mondo scolastico nazionale si trova d’accordo nell’esigenza di rinnovamento dei programmi scolastici (pubblicati poi nel 1985), e non può rimanere indifferente al lavoro di Liberovici. Sostenuto dalla Città di Torino, egli fonda così nei primi anni ’80 un Laboratorio di Didattica Musicale per l’Infanzia, tuttora in attività. Subito dopo, a metà degli anni '80, si fa promotore dell’Opera dei bambini, insieme a un gruppo di giovani compositori che dal suo fare traggono idee e suggestioni. Nascono così molti spettacoli ed operine da camera e da scuola (fra tutte: Il grande chiasso del 1982-83) anche in collaborazione con importanti pittori (Francesco Casorati, Mauro Chessa, Ugo Nespolo) che ne curano materiali scenici e costumi, e si apre una scuola di musica, che diventa subito un laboratorio di nuove metodologie didattiche. Il gruppo casalese L’Opera dei Ragazzi vuole esserne un’ideale prosecuzione: le operine scolastiche che il gruppo esegue oggi (insieme ad alcune canzoni del Cantacronache) sono tratte dai numerosi fascicoli della “Verità da due soldi” pubblicati dal maestro nei primi anni Ottanta per la nostra città.

Se la musica è già presente nel bambino, se chiunque può far musica, allora studio e dedizione sono inutili? La risposta è del tutto negativa: non ci fu attimo della sua esistenza in cui Sergio non pensò alla vita che in termini musicali. Anche se la sua Weltanschaung fu tutt’altro che di tipo tradizionalmente religioso, si può dire senza forzatura che egli fece propria la visione del mondo illustrata dai Salmi davidici: tutta la vita è un canto, dal sorgere del sole sino al tramonto. Per dirla in modo forse a lui più consono, l’uomo ha il dono di un’intelligenza musicale che gli dà gioia e nello stesso tempo gli consente di sviluppare al meglio l’innata attitudine di animale politico. La musica, cioè, costituisce il più formidabile modo di espressione della natura umana e il vero legante naturale del vivere sociale.

Sorge spontanea, a questo punto, la domanda su quanto nella società italiana d’oggi si stia facendo per fare della musica un elemento portante in campo educativo e sociale. Si lascia qui al lettore la risposta.

Bandiere fu scritto espressamente per le celebrazioni del centenario della fondazione del Partito Operaio Italiano, tra il 27 e il 30 maggio 1982. I temi di dibattito possono essere facilmente immaginati a partire dal titolo stesso del convegno: “La cultura operaia nella società industrializzata”. A tavole rotonde su “Classe operaia: utilità e limiti di un concetto”, oppure “La cultura del lavoro”, si succedono relazioni di ricercatori e professori universitari. Il lavoro di Liberovici chiude la giornata del 29 maggio, eseguito dall’allora Coro della RAI di Torino nell’aula del parlamento di Palazzo Carignano alle ore 18. Per questo l’autore vi aggiunge il sottotitolo “relazione da concerto su frammenti di canti, documenti, testimonianze popolari”.

Nel corso del brano si presenta la storia di una bandiera attraverso documenti registrati. Essa è confezionata ed arricchita di simboli a “punto erba”, e viene poi inaugurata con una cerimonia; in seguito la si porta in battaglia e nella successiva riscossa. Se ne piange infine la distruzione, prima di levare un canto per una nuova bandiera, ancora da tessere.

Attraverso questo semplice filo narrativo si dipanano canti e testimonianze in vari dialetti riprodotti nel corso dell’esecuzione su nastro magnetico. Su questo primo livello di tipo documentaristico si libera l’invenzione del compositore, che riverbera il canto popolare nelle voci della solista e del coro, oltre che nell’insieme strumentale (tromba, timpani e pianoforte). Inoltre i due attori leggono tradotti in lingua i testi registrati, spesso scandendoli con ritmo musicale. Il gioco compositivo fra questi strati genera - con raffinata sapienza nell’uso di mezzi tanto semplici - echi e risonanze che elevano musica e testo in una zona aurorale dell’espressività e regalano all’intero lavoro un’aura epica. La bandiera così da puro elemento simbolico - come siamo abituati a considerarla - si muta in personaggio mitico: così, grazie alla musica, la sua storia perde quei connotati contingenti che potrebbero far storcere il naso a qualche ascoltatore contemporaneo, e si trasferisce in una dimensione atemporale che appartiene a tutti.

Gli anni ’80 impegnano Liberovici anche nella realizzazione del suo ultimo lavoro, l’opera Maelzel, o delle macchinazioni. Il compositore va alla ricerca di fonti sull’inventore del metronomo in musei e biblioteche europee, e fornisce all'amico librettista Emilio Jona molto materiale. Nasce così un’opera in tre atti per soli, coro, orchestra e strumenti elettronici, pubblicata da Casa Ricordi, la cui orchestrazione è stata completata da Luciano Berio in collaborazione con chi scrive queste note e Giuseppe Gavazza. L’opera, commissionata dal Teatro Regio di Torino, a causa di strane alchimie di cui è ricca la storia della musica non è stata poi messa in scena. L’ultimo lavoro che l’autore ebbe il piacere di veder rappresentato è De origine musices sul famoso passo lucreziano, in una nuova versione italiana curata per l'occasione da Edoardo Sanguineti. La cantata fu eseguita dal Coro e dall’Orchestra della Scuola di Musica di Fiesole nel Settembre Musica torinese del 1990.

Riferimento costante della vita artistica di Sergio Liberovici sono stati compositori come Hans Eisler, Kurt Weil, e Paul Dessau, che amavano il teatro e non disdegnavano di lavorare con i ragazzi, Béla Bártok, i classici teatrali (Shakespeare e Brecht), il canto popolare (“dietro il quale si intravede sempre l'uomo”). Forse Chagall, il cui mondo d’ebreo russo Sergio portava nell'anima e negli occhi chiari.

Diario online, 1

25 agosto

Questa mattina, appena sveglio ma ancora nel letto, ho immaginato di parlare col mio vecchio psicoanalista. La prima volta che l'ho fatto in vita mia andavo ancora da lui, ed era il giorno della scelta della cattedra di ruolo: erano le otto del mattino e all'ultimo momento si erano liberati alcuni licei del centro città che fino al giorno prima risultavano indisponibili. Ma io avevo già fatto le mie indagini e le mie riflessioni e avevo scelto un liceo internazionale che sembrava molto bello, mentre scegliere all'ultimo momento un'altra scuola solo per la sua renommée non mi pareva una bella idea. Nessuno rispondeva al telefono, né mia madre, né il mio fidato collega Enrico, né la mia fidanzata, perciò mi immaginai che cosa avrebbe detto il Borgogno: “se ha preso informazioni su quella scuola e le sembra buona, perché adesso all'ultimo vuole cambiare idea?”. Così feci una scelta di cui non mi pentii mai.
Anche questa mattina mi ha fatto bene immaginare di parlare col mio ex-psicoanalista. Mi sono fatto fare le domande che io stesso non mi facevo più da molto tempo: che cosa c'è che non va, di che cosa hai paura, che cosa speri e via dicendo.
È strano che uno non si fermi mai a farsi queste domande se non in momenti particolari della sua esistenza: se l'esistenza è piena di cose da fare (“cose da fare” per Heidegger vuol dire avere un'esistenza inautentica...) uno pensa sempre di sapere esattamente che cosa vuole e che cosa non vuole, e quando glielo si chiede risponde senza esitare. È il meccanismo psicologico che agli occhi di buona parte degli esseri umani rende inutile la filosofia o la psicologia, quella self-assurance che ci manda avanti anche se in maniera stupida e talvolta autodistruttiva.

Questo ringrazio dell'avere fatto una psicoterapia psicoanalitica per alcuni anni: ho interiorizzato la saggezza (o il semplice buon senso) del mio analista (che sostituiva semplicemente quella di un bravo genitore), e all'occorrenza posso immaginarmi come andrebbe un dialogo con lui e che cosa mi direbbe o mi indurrebbe a dover ammettere, facendomi rinunciare alle mie resistenze narcisistiche.

domenica 21 agosto 2011

Prossimo talk, EMPG, Parigi, 31 agosto 2011


Mental and mathematical representations of music
M. Andreatta1, E. Acotto2

1. IRCAM, 1, place I. Stravinsky 75004 Paris
2. University of Turin, Corso Svizzera 185 10149 Turin
Moreno.Andreatta@ircam.fr, acotto@di.unito.it
Keywords: mental representations, mathematical models of music, musical cognition.

In musicological literature the concept of representation is quite widespread, even if in few cases it is completely analysed from a philosophical and psychological point of view [1]. We analyse here two different possible senses of the concept of musical representations: we distinguish between mental and mathematical representations of music [2]. Mental representations of music are the objects of the musical mind, the material of the musical cognition: they are private representations and they can be (meta)represented by public representations which are similar to the private mental representations [3]. On the other hand, mathematical representations of music are public representations which could be cognitively correlated with mental representations of music.
In many popular cognitive theories of music the mental representations of music are considered to be construed by the mind according with the musical flow [4], but in other models, like Generative Theory of Tonal Music [5] the mental representations of music are considered in the framework of a final-state theory. The computational approach to the musicology grounded on formal mathematical models uses written representations of music with a precise analytical function.
If mental representations of music are by definition a matter of cognitive psychology and philosophy, it can be argued that also mathematical representations of music have some cognitive correlates enabling the understanding of non-tonal music. Amongst the many typologies of mathematical representations of music we will analyse in details some examples about the so-called transformational analysis, which is a formalised subfield of computational musicology coming from the American Tradition [6]. The transformational paradigm in music also opens new questions about the cognitive and philosophical ramifications of algebraic approaches in music theory, analysis and composition, as we will discuss at the end of our talk by presenting some relationships between this approach in musicology and a category-oriented version of Piaget’s genetic epistemology [7].

[1] C. Nussbaum, The musical representation, The Mit Press, Cambridge, Massachusetts, 2007.
[2] M. Chemillier, “Représentations musicales et représentations mathématiques”, Musique et Schème. Entre percept et concept, Béatrice Ramaut-Chevassus ed., Publications de l’université de Saint-Etienne, 2007.
[3] D. Sperber, Metarepresentations in an evolutionary perspective, in Dan Sperber ed. Metarepresentations: A Multidisciplinary Perspective Oxford University Press, 2000, 117-137.
[4] E. Margulis, A Model of Melodic Expectation, Music Perception, 22, 4, Summer 2005, 663–714.
[5] R. Lerdahl, R. Jackendoff, A Generative Theory of Tonal Music, MIT press, 1983.
[6] M. Andreatta (dir.), Around Set Theory, Collection “Musique/Sciences”, Ircam, 2008.
[7] M. Andreatta, « Calcul algébrique et calcul catégoriel en musique : aspects théoriques et informatiques », Le calcul de la musique, L. Pottier (éd.), Publications de l'université de Saint-Etienne, 2008, p. 429-477

mercoledì 10 agosto 2011

Guy Debord sulla rivolta di Los Angeles del 1965 (Estratto da Il Pianeta malato, Edizioni Nottetempo, mia traduzione)

Il declino e la caduta dell’economia spettacolare-mercantile1.



Fra il 13 e il 16 agosto 1965, la popolazione nera di Los Angeles si è sollevata. Un incidente che ha opposto polizia stradale e passanti si è sviluppato in due giornate di tumulti spontanei. I crescenti rinforzi delle forze dell’ordine non sono stati in grado di riprendere il controllo della strada. Verso il terzo giorno i Neri hanno preso le armi, saccheggiando le armerie accessibili, e così hanno potuto sparare anche sugli elicotteri della polizia. Si sono dovuti lanciare nella lotta per circoscrivere la rivolta nel quartiere di Watts migliaia di soldati e poliziotti – il peso militare di una divisione di fanteria, appoggiata dai carri armati ; poi, per riconquistarlo a prezzo di numerosi combattimenti di strada durati diversi giorni, gli insorti hanno proceduto al saccheggio generale dei magazzini, appiccandovi il fuoco. Secondo le cifre ufficiali vi sarebbero stati 32 morti, tra cui 27 Neri, più di 800 feriti, 3000 incarcerati.


Le reazioni, da tutte le parti, hanno avuto quella chiarezza che l’evento rivoluzionario, per il fatto di essere esso stesso una chiarificazione, nei fatti, dei problemi esistenti, ha sempre il privilegio di conferire alle diverse sfumature di pensiero dei propri avversari. Il capo della polizia, William Parker, ha rifiutato ogni mediazione proposta dalle grandi organizzazioni di Neri, affermando giustamente che «questi rivoltosi non hanno capi». E certamente, poiché i Neri non avevano più capi era giunto il momento della verità in ognuno dei due campi. D’altronde, che cosa si attendeva nello stesso momento uno di quei capi disoccupati, Roy Wilkins, segretario generale della National Association for the Advancement of Colored People? Egli dichiarava che i tumulti «dovevano essere repressi facendo uso di tutta la forza necessaria». E il cardinale di Los Angeles, McIntyre, che protestava a voce alta, non protestava contro la violenza della repressione, come si potrebbe credere abile fare nel momento dell’aggiornamento [in italiano nel testo] dell’influenza romana; protestava con la massima urgenza davanti a «una rivolta premeditata contro i diritti del vicino, contro il rispetto della legge e il mantenimento dell’ordine», chiamava i cattolici a opporsi al saccheggio, a «queste violenze senza giustificazione apparente». E tutti coloro che arrivavano fino al punto di vedere le «giustificazioni apparenti» della collera dei Neri di Los Angeles, ma certo non la giustificazione reale, tutti i pensatori e i «responsabili» della sinistra mondiale, del suo nulla, hanno deplorato l’irresponsabilità e il disordine, il saccheggio, e soprattutto il fatto che il suo primo momento sia stato il saccheggio dei negozi contenti l’alcool e le armi, e i 2000 focolai d’incendio contati, con i quali gli incendiari di Watts hanno rischiarato la loro battaglia e la loro festa. Chi dunque ha preso la difesa degli insorti di Los Angeles, nei termini che essi meritano? Lo faremo noi. Lasciamo che gli economisti piangano sui 27 milioni di dollari perduti, e gli urbanisti su uno dei loro supermarket più belli, volato in fumo, e McIntyre sul suo sceriffo abbattuto; lasciamo che i sociologi si lamentino dell’assurdità e dell’ubriachezza di questa rivolta. Il ruolo di una pubblicazione rivoluzionaria, non è soltanto quello di dare ragione agli insorti di Los Angeles, ma di contribuire a dar loro le loro ragioni, di spiegare teoricamente la verità di cui l’azione pratica esprime la ricerca.

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1 Le déclin et la chute de l’économie spectaculaire-marchande è stato pubblicato per la prima volta nel marzo 1966, nel numero 10 della rivista Internationale situationniste.

sabato 23 luglio 2011

Ragionare con la mente estesa. Facebook, il pensiero e l’argomentazione. (Un articolo per Alfabeta2 online)

[Aggiornamento 2012: qui trovate le slides di una mia conferenza alla biblioteca di Corbetta su Facebook e la popfilosofia]

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[Pubblicato su Alfabeta2 online]

Esteriorizzazione
Per chi può permettersi un computer e un abbonamento a internet – e non sono ancora tutti, nemmeno nei paesi più ricchi – l’esistenza odierna è parzialmente online. Sembra allora un compito arduo provare a indicare un senso globale delle interazioni tra i soggetti che popolano i social network, per la pervasività delle pratiche di vita online e per il continuo intreccio di attuale e virtuale.
Considero i social network in generale come una "tecnologia dell'intelletto" (Jack Goody a proposito della scrittura) e in particolare come un’esteriorizzazione della facoltà di ragionare: non solo luoghi virtuali ma veri e propri dispositivi cognitivi allargati, una protesi delle facoltà mentali innate e culturalmente implementate. La nascita della scrittura, per esempio, ha rappresentato per la specie umana la possibilità di ricorrere a una memoria esterna, a un ampliamento della capacità di memorizzazione di informazioni manipolabili in tempo differito, in maniera complessa e stratificata, permettendo così il sorgere di una memoria culturale più astratta rispetto ai modi della trasmissione orale. Come la scrittura ha testualizzato la differenza temporale, così i social network virtualizzano la differenza spaziale.
Alle frequenti critiche secondo cui le nuove tecnologie di informazione e comunicazione impoverirebbero le facoltà cognitive e comunicative si può facilmente obiettare che i social network, entro i limiti formali, contenutistici e stilistici loro propri, sono naturali catalizzatori di letto-scrittura. In particolare Facebook, il re di tutti i social network, risulta simile a una lenta multi-chat, un dialogo scritto, virtualmente aperto a tutti: la necessaria differenza temporale che intercorre tra una produzione segnica e le risposte da essa occasionate, rappresenta un modo per custodire il logos, o quel che ne resta. In seno alla società dello spettacolo generalizzato, Facebook ha definitivamente inaugurato l’epoca dei nuovi soggetti (online) che leggono e scrivono, svincolati dalla necessità di offrire la loro immagine corporea in tempo reale (non è più così frequente sentirsi invitare a continuare la conversazione sulla video-chat di skype).
Anche se le ricadute emotive della frequentazione di Facebook sono molte e interessanti, mi concentrerò su ciò che Facebook fa o sembra fare al pensiero e alla comunicazione.

Mente estesa
Estremizzando la natura di dispositivo cognitivo esteriorizzato, o tecnologia dell’intelletto, si può cogliere un’analogia tra i social network e ciò che i filosofi chiamano “mente estesa”, ossia la sfera psichica considerata come esorbitante dai confini del cranio.
Il concetto di mente estesa è stato ufficialmente lanciato nella noosfera nel 1998 dai filosofi Andy Clark e  David Chalmers, che ripresero lo slogan di Hilary Putnam: “il significato non risiede nella testa”. Ma prima di Putnam, Clark e Chalmers, già Wittgenstein (“il secondo Wittgenstein”) aveva formulato una varietà di esternalismo oggi molto influente. Tornando alla filosofia dopo la pausa post-Tractatus, Wittgenstein scriveva che “una delle idee più pericolose è, stranamente, che noi pensiamo con la testa o nella testa” (Big Typescript, §52). Le scienze cognitive erano di là da venire e pareva sensato sostenere che i processi mentali non fossero oggettivabili né studiabili scientificamente. Su questa idea si costruiva l’immagine wittgensteiniana del pensiero extra-cranico. All’“idea pericolosa” di un pensiero privato, Wittgenstein opponeva innanzitutto l’idea che l’individuazione del processo del pensiero non possa essere confinata all’attività mentale ma trovi articolazione ed espressione fuori dalla testa: “il pensiero: un processo nel cervello, nel sistema nervoso; nella mente; nella bocca e nella laringe; sulla carta” (Big Typescript, §52). In secondo luogo, poiché pensare è un’attività esteriore e non solo interiore, esso dipenderà in larga misura dall’ambiente in cui si forma e manifesta. Il relativismo wittgensteiniano, padre putativo di alcuni culturalismi contemporanei, consiste nel vedere il pensiero come incarnato ed espresso in una determinata comunità o “forma di vita”, nella quale si praticano certi “giochi linguistici” e non altri: il pensiero dipende integralmente dal linguaggio – credeva Wittgenstein, erroneamente – e il linguaggio non è mai privato ma sempre socialmente condiviso.
La prospettiva wittgensteiniana permette di interpretare i social network come luoghi di pensiero collettivo. Parafrasando un altro aforisma del Big Typescript si potrebbe dire: penso con le dita sulla tastiera e gli occhi sullo schermo.

Spunti conversazionali
In un denso saggio su “Che cosa spiega una teoria dell’arte?”, Roberto Casati ha proposto una “teoria metacognitiva dello spunto per la conversazione”. Gli artefatti artistici sarebbero prodotti “con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una qualche conversazione sulla loro produzione” (Casati, 2002).
Facendo astrazione dalla questione delle opere d’arte e ricontestualizzando la teoria dello spunto conversazionale potremmo dire che i diversi tipi di segni che popolano le bacheche di Facebook sono prodotti proprio per essere interpretati come intenzionalmente prodotti per indurre conversazioni e ragionamenti (non necessariamente vertenti sulla produzione del segno-spunto, e qui sta la differenza rispetto agli artefatti artistici nella teoria di Casati): la loro comparsa ha o può avere l’effetto di indurre un lavoro cognitivo di massimizzazione della rilevanza (“perché l’ha postato?”).
Come osserva Casati a sostegno della sua teoria dell’opera d’arte fondata sulla metacognizione, c’è una differenza tra il produrre un segno con l’intenzione di innescare una conversazione e il produrlo con l’intenzione che esso sia riconosciuto come prodotto in quanto tale da suscitare una conversazione. Su Facebook – anche perché l’uditorio non è predeterminato e non si può sapere a priori chi tra i propri contatti vedrà il nostro post – i diversi tipi di segni (testi, foto, video, link, ecc.) sembrano poter veicolare gradi diversi del continuum che va dall’intenzione alla meta-intenzione: in certi casi il segno sarà l’equivalente di un vero e proprio messaggio passibile di parafrasi proposizionale, eventualmente rivolto a un uditorio ben identificato; in altri casi si riconoscerà piuttosto una vaga intenzione di innescare una conversazione; in altri casi ancora si riconoscerà la meta-intenzione, ossia il fatto che il segno sarà stato prodotto affinché ne venisse colta la natura intenzionale di spunto conversazionale.
(Poiché per Casati le opere d’arte sono “oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati”, si potrebbe forse persino ipotizzare un diverso grado di qualità artistica dei post su Facebook, correlata alla chiarezza con cui sia trasmessa l’intenzione comunicativa. Ma questo è un compito per un futuro web-estetologo).


Ragionamenti e argomenti
La mente online è dunque estesa e conversazionale. Fin qui però non si sottrarrebbe acqua al mulino di chi sostiene che i social network intorpidiscano e imbarbariscano le facoltà cognitive.
Per criticare i neo-apocalittici si potrà fare ricorso a una bella teoria pragmatica e cognitiva del ragionamento, formulata da Dan Sperber e Hugo Mercier. Secondo questa teoria, la funzione evoluzionistica del ragionare è trovare e valutare argomenti in contesti dialogici. La teoria argomentativa del ragionamento spiega le note cattive performance nei test di ragionamento (il test di Wason è uno dei più celebri) proprio con l’assenza di un contesto argomentativo; spiega inoltre perché il ragionamento di gruppo sortisca esiti migliori del ragionamento individuale: il gruppo costituisce un contesto in cui si è motivati all’argomentazione, diversamente che nell’isolamento del pensiero individuale.
È noto che su Facebook e altri social network le discussioni che lì hanno luogo sembrano raramente guidate dall’amore per la verità: questa evidenza ha attirato molte critiche anche da parte di autorevoli padri della realtà virtuale come Jaron Lanier (Tu non sei un gadget). Spesso si stigmatizza l’estremizzarsi delle opinioni sui social network, come se si trattasse di luoghi essenzialmente votati all’esasperazione e all’espressione di pensieri aggressivi. Ma se la teoria di Sperber e Mercier è verosimile (e le conferme sperimentali su soggetti adulti e bambini sono promettenti) anche sui social network si riscontrerà da parte degli utenti attenzione alla validità degli argomenti prodotti nelle discussioni online. La teoria postula anche l’esistenza di euristiche mentali per vagliare la bontà dell’informazione (valutazione dell’affidabilità del comunicatore sulla base delle precedenti argomentazioni, valutazione della coerenza dei contenuti): la “vigilanza epistemica” non viene insomma in alcun modo disattivata dal social network, che è anzi un’ottima palestra per il ragionamento e l’argomentazione.
Checché ne dicano i critici, coloro che partecipano a una discussione su Facebook dovranno sforzarsi di argomentare. È quindi giustificato domandare: prima che Facebook irrompesse nelle nostre vite, quanti erano abituate ad argomentare e veder argomentare quotidianamente? In Italia i programmi scolastici non prevedono corsi di argomentazione (e nemmeno di logica formale) e ovviamente è falso che studiare la storia delle filosofia, leggere i classici e tradurre dal latino “insegni a pensare”: possono essere esercizi del tutto sterili, come sa ogni liceale un po’ creativo. Riguardo alle nuove tecniche di informazione e comunicazione, prima dei social network c’era la televisione: ma lì nel migliore dei casi si poteva vedere argomentare, non certo argomentare in prima persona: e “parlare non è vedere” come diceva Blanchot ripetuto da Foucault e poi Deleuze.
Se è verosimile che il ragionare degli esseri umani abbia per funzione evoluzionistica la valutazione degli argomenti, è pertinente concludere che grazie alla frequentazione dei social network i soggetti online riattivino ed esercitino una facoltà mentale che in precedenza non trovava grande spazio nella società occidentale (eccezion fatta per fenomeni come lo speakers’ corner di Hide Park).
La mobilitazione della facoltà del ragionamento non fa probabilmente parte degli scopi originari di chi, come Mark Zuckerberg, ha messo le mani sul capitale economico della comunicazione online. Ma se davvero i social network incentivano a ragionare, facendo vagliare la validità degli argomenti prodotti nelle conversazioni online, non è saggio disprezzare questa promettente eterogenesi dei fini.

sabato 2 luglio 2011

Verso Val di Susa, 2

Cari amici,
ho deciso che domenica 3 luglio parteciperò anch’io alla grande manifestazione NoTav che si terrà a Chiomonte.
Ho deciso di partecipare perché ritengo la protesta più che giusta, a prescindere dalle ragioni tecniche pro o contro la costruzione di questa "grande opera" (anche se tutto ciò che ho letto mi ha convinto che l’opera sia mal concepita, dispendiosa e inutile): non è con la polizia che si può gestire un’opera della durata di almeno 15 anni e del costo di svariati miliardi di euro (si calcola fino a 22) che verranno prelevati dalle tasche degli italiani (i 600 milioni europei in confronto sono bruscolini).
Non è caricando, manganellando e gasando i valligiani e chi manifesta al loro fianco che si imporrà democraticamente una decisione non condivisa dalla popolazione locale e probabilmente nemmeno dalla maggioranza degli italiani.
So benissimo che tra i manifestanti ci sono stati e ci saranno persone che non hanno la cultura della nonviolenza, bensì quella dell’antagonismo radicale da esibirsi con lo scontro fisico con le forze di polizia (una pratica del tutto inutile, oltre che moralmente criticabile per l’uso dimostrativo della violenza).
Ed è per questo che ho riflettuto un bel po’ prima di decidere se partecipare alla manifestazione. Le parole di Nanni Salio nonviolento e peace researcher di chiara fama nonché "direttore" del centro studi Sereno Regis, mi hanno confortato nella mia decisione.
Spero che domenica a Chiomonte saranno in tanti a pensarla come me.

Per domani, augurate dunque buona fortuna alla Val di Susa, alla nonviolenza e alla democrazia (e anche a me).

Edoardo