E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

giovedì 7 aprile 2011

Paradossi paralizzanti, 1

Quando invii un articolo a un convegno, finché non l'hai inviato sei libero di scrivere come meglio credi.
In quella situazione non provo ansia o tensione spiacevole perché mi piace solcare lo spazio delle possibilità, anche se la posta in gioco è essere accettati o rifiutati al convegno.
Quando invece il mio testo è già stato accettato e devo solo fare alcune revisioni per migliorarlo, ecco che mi prende l'ansia: non rischio più nulla, e la posta in gioco è già stata vinta, così fare il miglior lavoro possibile è una questione di deontologia, e di amor proprio.
A quel punto però subisco una strana paralisi: temporeggio, rallento la mia rilettura, mi distraggo, faccio altre cose, guardo i call for papers di convegni futuri, e man mano che il tempo passa mi cresce l'ansia.
Il mio modulo mentale della pianificazione dev'essere malamente programmato, e forse ho un cattivo rapporto emotivo con le situazioni reali a cui più tengo.

mercoledì 6 aprile 2011

L'ITALIE EXPLIQUÉE AUX FRANÇAIS PAR QUELQU'UN QUI N'EST PLUS ITALIEN.

"Ma dovrete correggere tutto ciò che dirò, perché ho poca memoria ed è come se vi raccontassi una specie di sogno, in cui tutto è molto sfocato." (Gilles Deleuze)


Le jour que l'ai arrêté d'être italien j'ai eu cette bonne idée d'écrire en français mes tentatives littéraires. Ça fait longtemps que je suis un petit intellectuel italien 'écrivant', mais ce que j'ai écrit ou essayé d'écrire et publier en italien ne réfléchit pas vraiment ce que j'avait à dire, depuis que j'ai commencé à vouloir créer des textes narratifs à partir de mon expérience psychique. Mon français est suffisemment discret, je crois, pour que je puisse confier - avec l'aides de bons éditeurs - de me faire lire directement en français. Les italiens, s'ils le voudront, pourrons toujours me traduire, ou me demander gentiment de bien vouloir traduire mes pages pour eux, mes pauvres concitoyens...
J'ai commencé à apprendre le français il y à bien 15 ans, à Strasbourg, où j'allai un ans pour mon Erasmus en Philosophie. J'étais encore derridien, et mon université me permettait uniquement de me rendre dans une ville périphérique de l'empire philosophique français. Pourtant c'était pas mal parce que dans cette ville, qui me paraissait plutôt allemande que française, enseignaient deux grands philosophes déconstructionnistes, Nancy et Lacoue-Labarthe, amis et élèves de Jacques Derrida.
Mon français s'est formé dans mon âge déjà adulte, il doit donc nécessairement ressentir de tout genre de difficultés psycholinguistique dans l'apprendiment tardif. Mon cas n'est pas trop ressemblant à celui de Beckett, qui, lui, étudia la littérature française à l'université pour ensuite écrire ses romans exceptionnels dans un français impeccable prêté à des personnages complètement fous et adorables. Moi, pour ce qui concerne le lycée, je n'ai étudié le français qu'à l'âge de 11-15 ans, jamais avec des enseignants de langue-mère. J'ai eu par contre des enseignants qui venaient du sud et qui ne maîtrisaient pas trop bien le franais. À ce propos, la première chose qu'il faut expliquer à vous les français, est cette énorme différence entre le nord et le sud de l'Italie, une différence qui rend un turinois comme mois beaucoup plus semblable à un parisien qu'à un bourgeois de Palerme, pour faire un exemple significatif.

lunedì 4 aprile 2011

Esercizi per verificare se i soldi spesi con l'analista sono stati spesi bene, 2

Quando litigate con la fidanzata che vi tormenta e accusa ingiustamente, mettetevi a urlare come un ossesso minacciando l'abbandono e la fine di ogni relazione, poi uscite di casa sbattendo la porta e andate a fare una passeggiata di un paio d'ore, ignorando i messaggi telefonici della fidanzata.
Se, diversamente che in passato, non vi sentite in colpa nemmeno un istante durante l'intero rito, avete speso bene i soldi che avete dato al vostro analista.

Frammenti del romanzo, 1


Per scrivere, bisognerebbe saper scrivere. Lui scrive senza uno stile decentemente costruito, e soprattutto senza una cultura sufficiente a soddisfare il suo  desiderio di cultura. Il resoconto che scrive è un’attività senza pregio, come dormire. È una materia della specie più fetente, come lo sporco, il fango o i capelli. È un flusso merdoso riterritorializzante (e mentre scrive beve come Deleuze). Questo flusso non lo abolirà cancellando i files in cui scrive, non lo farà perché gli tiene compagnia nel suo lutto. Forse ne ha bisogno, visto che lo attrae senza che nemmeno se ne accorga. Sta per andare a dormire e si mette a scrivere. Così gode almeno un po’, si illude di avere la potenza di scrivere un libro, lui. Scrivere un libro: lo vogliono molti piccoloborghesi, persino suo padre l’aveva voluto scrivere da giovane, Agostino lo sapeva per certo, suo padre gliel’aveva detto.
Insomma non riesce a smettere di scrivere, e gli viene da pensare che se continua così il libro si scriverà da sé, senza fatica mortale.
Lui vuole raccontare. Però, se non lo facesse le immagini non lo ossessionerebbero affatto: ha già rimosso tutto, come se suo padre fosse morto da tempo, da sempre. Come se suo padre addirittura non fosse mai stato altro che una figura di sogno. Ora è passato tanto tempo che non lo conta più. Ha lasciato che le cose si muovessero liberamente nella sua psiche, senza forzarle. E sta anche bene, o così gli pare, o almeno non sta molto male. Adesso soffre, sta bene e contemporaneamente si fa schifo.
Lui non vuole scrivere, questo è chiaro. Che gliene sbatte di scrivere ora che suo padre è morto? Non ha niente da dire e niente da fare. Deve solo starsene lì, vivo davanti a un padre morto, un cadavere immobile privo di sensibilità, a guardarlo si direbbe che da un momento all’altro debba rianimarsi, risvegliarsi, alzarsi dal letto di morte, tanto sembra assurdo che lui stia lì fermo per sempre, che abbia perduto quella semplice proprietà che prima lo rendeva diverso, vivo. Un insieme di proprietà, a pensarci bene, è ciò che lo rendeva vivo, non si tratta di una cosa sola, eppure sembra proprio che la differenza tra il vivente e il morto sia una questione puntuale, che basterebbe un atomo di apparenza per riportare in vita l’uomo non più vivo. Suo padre.

Un ente è pura molteplicità senz’Uno, molteplicità di molteplicità, generate dall’insieme vuoto. Due molteplicità possono differire per un solo elemento ed essere identiche per tutto il resto. Basta quell’elemento per renderle integralmente differenti. Un uomo morto è del tutto identico all’uomo vivo, tranne che per quella cosa in meno che era la vita e gli è stata sottratta. A suo padre quel punto di vita è stato sottratto.


***

Agostino non vuole solo smettere di bere e diventare un igienista. Si sente debole e stupido, come si è sempre sentito anche prima di iniziare a bere tanto (almeno un litro di birra al giorno). Poi in Collegio ha preso a bere e tutto è diventato migliore. Tutti i piccoloborghesi bevono.
Certo, sarebbe meglio che anziché bere Agostino continuasse le sue ricerche sullo spaziotempo in Deleuze. Limitando il campo a Deleuze, si avanza di dover studiare tutto quello che ci sarebbe da studiare sul tempo e lo spazio.
Lui è dottore in filosofia! È incredibile, com’è stato possibile? Sembra irreale, la sua ignoranza è grandissima, catastrofica. Eppure i professori universitari gli hanno permesso di arrivare al titolo, probabilmente pensano che sia un allievo abbastanza bravo. Probabilmente pensano che sia un allievo mediocre.
Anche Alain Badiou deve pensare che lui sia un bell’ignorante; ma sarebbe come dire che un genio pensa che lui non sia un genio: che c’è di strano...
Pur essendosi laureato con 110 e lode in filosofia, Agostino si sente ignorante, privo di una cultura generale che possa inquadrare i suoi pensieri e le sue ricerche. Agostino vede molti coetanei nelle sue condizioni. Perché allora è diventato Dottore? Dev’essere l’università di massa, che pure è certamente una conquista democratica. Seppure ignoranti, gli sembra che i ragazzi d’oggi siano più saggi dei loro genitori, che erano sicuramente dei pazzi o degli imbecilli. E che possono continuare a esserlo, se non sono morti come suo padre.
Del resto non bisogna lasciare la parola ai fascistoni, come avrebbe detto suo padre, i quali potrebbero solo deprecare che un ignorante possa diventare Dottore ecc. ecc. No, lui ha fatto una sua personale ricerca, che tra l’altro è stata un’alternativa al farsi curare da uno psicologo o psicanalista, mentre ne avrebbe avuto bisogno come pure tutti i suoi amici, che difatti se hanno i soldi si curano quasi tutti dallo psicanalista.
Ha un amico borderline, due amiche isteriche, una depressa, vari amici ingurgitano psicofarmaci antidepressivi e lui stesso è assai nevrotico: tutti insieme, pensa Agostino, fanno una bella banda di storpi interiori.

Inizia a essere stanco di scrivere. Tutto questo tempo sprecato, e per produrre una merce che non vale niente. Potrebbe studiare il soggetto della sua tesi: “La fine del tempo e l’inizio dello spazio nella filosofia di Gilles Deleuze”: rischia di perdere l’anno dopo che è  venuto in Italia a seppellire papà. Ma chi se ne frega del tempo e dello spazio nel pensiero di quel pazzo di Deleuze?
È attratto dallo scrivere, ma vorrebbe risparmiare tempo. Vorrebbe risparmiare tempo e quindi fare altro, non scrivere (vorrebbe studiare la temporalità) però non riesce a smettere di scrivere.
Forse l’illusione che lo fa continuare a scrivere lo danneggia. Perderà tempo inutilmente... Svuoterà i suoi forzieri di tempo conservato.
Ha iniziato a raccontare pensando a quale sarebbe stata la reazione di suo padre. Edoardo sarebbe contento se sapesse che Agostino ha scritto un romanzo, ci scherzerebbe su, direbbe poco, perché di appropriato sapeva dire poco.
Scherzava indifeso di fronte alla propria idiozia, si sentiva indifeso, non c’è nulla di peggio. Se lui si fosse sentito così povero e indifeso come suo padre doveva sentirsi, si sarebbe comportato esattamente come lui. Sentirsi indifesi e inetti è umiliante: suo padre si sentiva di certo continuamente umiliato.
Talvolta lui l’aveva deriso, lo umiliava non per cattiveria, ma perché suo padre gli faceva perdere le staffe, lo attaccava nel suo intimo essere, e più si ammalava e più cercava di distruggere moralmente suo figlio. Cercava di scuotere la forza minima di convinzione con cui talvolta Agostino poteva affermare tesi come la non necessità dello Stato e il comunismo come sola politica razionale per gli individui liberi (non era ancora diventato anarchico).
Suo padre lo aveva guardato un paio di volte con estrema aggressività dicendogli di smetterla e perché mai doveva ostinarsi a dire cose tanto assurde. Erano effettivamente cose assurde, specie dette in quel modo, a tavola e guardando la televisione; ma lui non gli lasciava scelta: o dirgliele sinceramente o tacere pensando alla sua mediocrità.
Forse suo padre ne aveva abbastanza di percepire che lui vedeva la sua mediocrità. Talvolta non lo guardava neppure negli occhi, per paura che si accorgesse del suo sentirsi superiore. Se ne accorgeva di rado, e suo padre era così depresso che non gliene fregava più niente nemmeno del disprezzo di suo figlio. Suo padre era depresso, ma in questo caso aveva ragione lui, non accettava la posizione della questione edipica in quei termini, se ne fregava e gli voleva bene comunque, pensava che fosse un po’ squinternato, troppo aggressivo rispetto alle sue reali possibilità.
Non gli piaceva parlare con Agostino, perché diceva sempre le stesse ovvietà politiche. Lo annoiava. Agostino diceva cose che non erano scientificamente rilevanti e che andavano contro la coscienza di suo padre: la sua coscienza filo-capitalista e liberale.
No, la sua normale coscienza naturale. Era Agostino ad essere ossessionato dalla politica come via di salvezza dalla pochezza sociale propria e di suo padre. Era Agostino che aveva una coscienza distorta, ma non lo capiva, e suo padre non riusciva a farglielo capire.

La mia traduzione di un racconto di Murakami: GLI OMINI DELLA TV (inedito in italiano)

Haruki Murakami


GLI OMINI DELLA TV






Era una domenica sera quando gli OMINI DELLA TV apparvero.
La stagione, primavera. Almeno credo che fosse primavera. In ogni caso non particolarmente calda come possono essere le stagioni, e neppure particolarmente fredda.
Ad essere onesti la stagione non è molto importante. Quel che importa è che sia una domenica sera.
Non mi piacciono le serate domenicali. Oppure, meglio, non mi piace tutto quello che vi si accompagna - quello stato di cose da domenica sera. Senza possibilità d’errore, quando arriva la domenica sera la testa inizia a farmi male. Ogni volta con intensità variabili. Forse per meno di un centimetro nelle mie tempie, la carne soffice palpita - come se ne uscissero fili invisibili e qualcuno da lontano li stesse tirando dall’altro capo. Non che faccia così male. Dovrebbe far male, ma stranamente non lo fa - è come dei lunghi aghi che sondino aree anestetizzate.
E sento cose. Non suoni, ma spesse lastre di silenzio che vengono strascinate attraverso il buio. KRZSHAAAL KKRZSHAAAAAL KKKKRMMMS. Questi sono i segni iniziali. Dapprima il mal di testa. Poi una leggera distorsione della visione. Si riversano flussi di confusione, premonizioni trascinano ricordi, ricordi trascinano premonizioni. Una mezzaluna accuratamente affilata fluttua bianca nel cielo, le radici del dubbio frugano nella terra. La gente cammina facendo gran rumore nell’ingresso, proprio per raggiungermi. KRRSPUMK DUWB KRRSPUMK DUWB KRRSPUMK DUWB.
Tutte ragioni in più perché gli OMINI DELLA TV scelgano la domenica sera come momento per passare di qui. Come degli stati d’animo melanconici, o come il segreto, quieto cadere della pioggia, loro sgattaiolano nella tetraggine di questo momento prefissato.

Permettetemi di spiegare che aspetto hanno gli OMINI DELLA TV.
Gli OMINI DELLA TV sono leggermente più piccoli di voi o di me. Non visibilmente più piccoli : leggermente più piccoli. Circa, diciamo, il venti o il trenta per cento. Ogni parte dei loro corpi è uniformemente più piccolo. Perciò piuttosto che “piccolo”, l’espressione terminologicamente corretta potrebbe essere “ridotto”.
In effetti, se vedi in giro gli OMINI DELLA TV, all’inizio puoi non accorgerti che sono piccoli. Ma anche in questo caso, probabilmente ti colpiranno come se avessero qualcosa di strano. Inquietanti, forse. Sei certo che qualcosa ti sembra strano, così dai un’altra occhiata. A prima vista non c’è nulla di innaturale in loro, ma è proprio questo che è così innaturale. La loro piccolezza è completamente differente da quella dei bambini e dei nani. Quando vediamo dei bambini percepiamo che sono piccoli, ma la coscienza di questa percezione deriva principalmente dalla sproporzionata goffaggine dei loro corpi. Sono piccoli, è certo, ma non in modo uniforme. Le mani son piccole, ma la testa è grande. È tipico, ecco. No, la piccolezza degli OMINI DELLA TV è qualcosa di completamente diverso. Gli OMINI DELLA TV sembrano esser stati ridotti in fotocopia, tutto meccanicamente calibrato. Diciamo che la loro altezza è stata ridotta con un fattore del 30%, e anche l’ampiezza delle spalle è ridotta del 30%; idem (riduzione 30%) per i piedi, la testa, le orecchie e le dita. Come delle copie di plastica. Solo un po’ più piccole dell’originale.
O come uno studio di prospettiva. Le figure che sembrano lontane anche se vicine. Qualcosa come un trompe-l’oeil la cui superficie si deforma e arriccia. Dove la mano non riesce a toccare gli oggetti vicini, ma accarezza quel che è fuori portata.

Ecco gli OMINI DELLA TV.
Ecco gli OMINI DELLA TV.
Ecco gli OMINI DELLA TV.


Complessivamente ce n’erano tre.
Non bussano né suonano il campanello. Non dicono buongiorno. Semplicemente entrano dentro di soppiatto. Non sento mai neppure un passo. Uno apre la porta, gli altri due portano dentro una TV. Non una TV molto grande. Il normale Sony a colori. La porta era chiusa a chiave, penso, ma non posso esserne sicuro. Forse ho dimenticato di chiuderla. Non era certo il primo dei miei pensieri in quel momento, perciò chi lo sa? Eppure, penso che la porta fosse chiusa a chiave.
Quando entrano, mi trovo sdraiato sul sofà, guardo fisso il soffitto. Nessuno a casa tranne me. Quel pomeriggio la moglie è uscita con le ragazze - alcune amiche intime dei suoi anni liceali - si incontrano per parlare, poi vanno a cena fuori. «Ce la fai ad arraffare la tua cena?» ha detto la moglie prima di andare. «Ci sono delle verdure nel frigo e tutti i tipi di surgelati. Proprio quello che riesci a farti da solo, giusto? E dopo il tramonto del sole ricordati di metter dentro il bucato, d’accordo?»
«Certamente,» ho detto io. Non mi turba per niente. Riso, giusto? Bucato, giusto? È facile. Mi occupo di questa bazzecola come se SLUPPP KRRRTZ!
«Hai detto qualcosa, caro?» ha domandato lei.
«No, niente,» ho detto.
Per l’intero pomeriggio me la prendo comoda e me ne sto in panciolle sul sofà. Non ho niente di meglio da fare. Leggo un pochino - quel nuovo romanzo di Garcìa Marquez - ed ascolto un po’ di musica. Mi bevo una birra. Però, non riesco a dare importanza a nulla di tutto questo. Rifletto se tornare a letto, ma non riesco nemmeno a tirarmi su abbastanza da riuscirci. Così finisco per rimanere sdraiato sul sofà, a fissare il soffitto.
È così che trascorrono le mie domeniche pomeriggio, finisco per fare un pochino di varie cose, nessuna proprio come si deve. È una lotta per concentrarmi su una cosa qualsiasi. In questo particolare giorno tutto sembra andare bene. Penso: oggi leggerò questo libro, ascolterò questi dischi, risponderò a queste lettere. Oggi di sicuro ripulirò i cassetti della mia scrivania, andrò a fare commissioni, per una volta pulirò l’auto. Ma si fanno all’improvviso le due, le tre, poco a poco giunge il crepuscolo, e tutti i miei piani vengono spazzati via. Non ho fatto una sola cosa ; sono rimasto tutto il giorno sdraiato sul sofà, come sempre. L’orologio ticchetta nelle mie orecchie. TRPP Q SCHAOUS TRPP Q SCHAOUS. Quel rumore erode ogni cosa intorno a me, un po’ per volta, come pioggia cadente. TRPP Q SCHAOUS TRPP Q SCHAOUS. A poco a poco la domenica pomeriggio si assottiglia, le sue dimensioni si restringono. Esattamente come gli OMINI DELLA TV.

Gli OMINI DELLA TV mi ignorano fin dal principio. Tutti e tre hanno uno sguardo che sembra significare: quelli come me non esistono. Aprono la porta e portano dentro la loro TV. Due di loro mettono l’apparecchio sulla credenza, l’altro lo collega alla presa. Sulla credenza ci sono un orologio da mensola e una pila di riviste. L’orologio era un regalo di nozze: grosso e pesante - grosso e pesante come il tempo stesso - anche il rumore è pesante. TRPP Q SCHAOUS TRPP Q SCHAOUS. Si sente per tutta la casa. Gli OMINI DELLA TV lo tolgono dalla credenza e lo posano sul pavimento. La moglie farà il diavolo a quattro, penso. Detesta quando le cose vengono continuamente spostate a casaccio. Se non è tutto al suo posto lei si secca per davvero. Il peggio, con l’orologio là sul pavimento, è che vi salterò sopra inciampandovi nel cuor della notte. Mi alzo sempre per andare in bagno alle due del mattino, con gli occhi annebbiati, e incespicando su qualcosa.
Successivamente, gli OMINI DELLA TV spostano le riviste sul tavolo. Tutte riviste femminili. (Io non leggo riviste quasi mai ; leggo libri - personalmente non mi importerebbe se l’ultimissima rivista al mondo chiudesse i battenti). Elle e Marie Claire e Home Ideas, quella specie di riviste. Accuratamente impilate sulla credenza. Alla moglie non piace che tocchi le sue riviste – se cambio l’ordine della pila mi devo sorbire una solfa senza fine - perciò non mi avvicino proprio. Non vi ho mai dato nemmeno una scorsa. Ma gli OMINI DELLA TV non potrebbero preoccuparsene di meno : le spostano direttamente fuori dai piedi, non mostrano alcuna preoccupazione, spazzano via l’intero mucchio dalla credenza, rimescolano l’ordine. Marie Claire è in cima a Croissant ; Home Ideas è sotto An-An. Imperdonabile. E peggio ancora, stanno spargendo i segnalibro sul pavimento. Hanno perso i segni della moglie, pagine con informazioni importanti. Non ho idea di quali informazioni o quanto importanti - forse di lavoro, forse personali - ma comunque sia, erano importanti per la moglie, e lei me lo farà notare. «Che significa questo ? Esco per passare un bel pomeriggio con le amiche e quando torno la casa è un macello!» Posso quasi sentirla, frase per frase. Oh, fantastico, penso, scuotendo la testa.

Tutto viene rimosso dalla credenza per fare spazio alla televisione. Gli OMINI DELLA TV la collegano a una presa a muro, poi la accendono. C’è un suono tintinnante e lo schermo si accende. Un attimo dopo l’immagine si mette a fuoco. Cambiano canale con il telecomando. Ma tutti i canali sono vuoti - probabilmente, penso io, perché non hanno collegato l’apparecchio a un’antenna.  Deve esserci una presa per l’antenna da qualche parte nell’appartamento. Mi sembra di ricordare l’amministratore che ci dice dov’era quando ci siamo trasferiti in questo condominio. Non avevi che da collegarla. Ma non riesco a ricordare dov’è. Non possediamo una televisione, perciò l’ho completamente scordato.
Però per qualche ragione non sembra che agli OMINI DELLA TV dia fastidio non captare nessun programma. Non mostrano in alcun modo di cercare la presa dell’antenna. Schermo vuoto, nessun’immagine - per loro non fa differenza alcuna. Dopo aver premuto il bottone e acceso l’apparecchio, hanno completato quello che sono venuti a fare.
La TV è nuova di zecca. Non è nella sua scatola, ma un’occhiata ti dice che è nuova. Il manuale di istruzioni e la garanzia sono in un sacchetto di plastica legato ai bordi con un nastro, il cavo di alimentazione risplende lucido come un pesce pescato di recente.
Tutti e tre gli OMINI DELLA TV guardano lo schermo vuoto da vari punti di vista della stanza. Uno di loro viene vicino a me e verifica che si possa vedere lo schermo TV da dove sono seduto. La TV è voltata proprio verso di me ad un’ottima distanza visiva. Sembrano soddisfatti. Operazione compiuta, dice la loro espressione da fine lavoro. Uno degli OMINI DELLA TV (quello che è venuto vicino a me) mette il telecomando sul tavolo.
Gli OMINI DELLA TV non dicono una parola. I loro movimenti si producono in perfetto ordine, pertanto non hanno bisogno di parlare. Ognuno dei tre esegue le sue funzioni prescritte con massima efficienza. Un lavoro da professionisti. Preciso e pulito. Il loro lavoro si è svolto in men che non si dica. Ripensandoci, uno degli OMINI DELLA TV tira su l’orologio dal pavimento e dà un’occhiata rapida in giro per la stanza per vedere se non vi sia un posto più appropriato per metterlo, ma non ne trova nessuno e lo rimette di nuovo giù. TRPP Q SCHAOUS TRPP Q SCHAOUS. Continua a ticchettare pesantemente sul pavimento. Il nostro appartamento è abbastanza piccolo e un sacco di spazio sul pavimento tende ad essere occupato dai miei libri e dai materiali di consultazione della moglie. Sono destinato a inciampare su quell’orologio. Tiro un sospiro. Senza errore alcuno, sicuramente vi sbatterò le dita dei piedi. C’è da scommetterci.
Tutti e tre gli OMINI DELLA TV indossano giacche blu scuro. Di un chissà-che-razza-di materiale, però liscio. Sotto indossano jeans e scarpe da tennis. Abiti e scarpe di taglia del tutto proporzionatamente ridotta. Guardo le loro attività per un tempo lunghissimo poi inizio a pensare che forse sono le mie proporzioni a essere sbagliate. Un po’ come se stessi viaggiando all’indietro sulle montagne russe, calzando occhiali medici dalle spesse lenti. Una vista da capogiro, le dimensioni andate a ramengo. Perdo l’equilibrio, il mio mondo abituale non è più assoluto. È questo il modo in cui ti fanno sentire gli OMINI DELLA TV.
Fino alla fine gli OMINI DELLA TV non dicono una parola. Tutti e tre controllano lo schermo ancora una volta, confermano l’assenza di problemi, poi lo spengono con il telecomando. Il bagliore si contrae in un punto e guizza via con un tintinnio. Lo schermo ritorna alla sua condizione naturale, inespressiva, grigia. Il mondo fuori sta diventando buio. Sento qualcuno chiamare qualcun altro. Si odono anonimi passi sotto nell’ingresso, intenzionalmente forti come sempre. KRRSPUMK DUWB KRRSPUMK DUWB. Una domenica sera.
Gli OMINI DELLA TV fanno un’altra impetuosa ispezione della stanza, aprono la porta e se ne vanno. Ancora una volta, non prestano assolutamente nessuna attenzione a me. Si comportano come se io non esistessi.

Dal momento in cui gli OMINI DELLA TV sono entrati nell’appartamento fino a quando se ne vanno, io non mi muovo. Non dico una parola. Rimango senza emozioni, disteso sul sofà, sorveglio l’intera operazione. So quello che state per dire : è innaturale. Perfetti sconosciuti - non uno ma tre - senza farsi annunciare entrano dritti nel tuo appartamento, mollano giù un apparecchio TV e tu te ne stai soltanto seduto lì a guardarli stordito. Un po’ strano, non trovi?
Lo so, lo so. Ma per qualche ragione non dico niente. Osservo soltanto le loro azioni. Probabilmente poiché mi ignorano così totalmente. E se vi trovaste nella mia posizione immagino che probabilmente fareste lo stesso. Non per giustificarmi, ma se voi vi trovaste davanti a delle persone che sconfessano così persino la vostra presenza, considerate se non dubitereste di esistere realmente. Mi guardo le mani quasi aspettandomi di trovarle trasparenti e vedere attraverso. Sono devastato, impotente, in trance. Il mio corpo, la mia mente stanno rapidamente svanendo. Non riesco a indurmi a muovermi. Tutto ciò che riesco a fare è guardare i tre OMINI DELLA TV depositare la loro televisione nel mio appartamento e andarsene. Non riesco ad aprire la mia bocca per paura di come potrebbe suonare la mia voce.
Gli OMINI DELLA TV escono e mi lasciano solo. Mi ritorna il senso di realtà. Queste mani sono di nuovo le mie mani. È solo allora che noto come la semioscurità sia stata inghiottita dal buio. Accendo la luce. Poi chiudo gli occhi. Già, c’è un apparecchio TV posato lì. Nel frattempo, l’orologio continua a ticchettare via i minuti. TRPP Q SCHAOUS TRPP Q SCHAOUS.

Curiosamente, la moglie non menziona l’apparizione dell’apparecchio televisivo nell’appartamento. Proprio nessuna reazione. Zero. È come se nemmeno lo vedesse. Di che rabbrividire. Perché, come ho detto prima, lei è estremamente irritabile riguardo all’ordine e alla sistemazione dei mobili e delle altre cose. Se qualcuno osa muovere una cosa qualsiasi nell’appartamento, anche solo di un millimetro, lei vi piomberà su in un istante. È la sua autorità. Aggrotta le ciglia, poi rimette le cose nel modo in cui si trovavano.
Io no. Se un numero di Home Ideas finisce sotto uno di An-An, o una penna a biro si trova nel posto delle matite, non mi vedrete andare in pezzi. Non me ne accorgo neppure. È un problema suo; io mi stuferei a vivere come lei. Talvolta va in bestia. Mi dice che non può soffrire la mia noncuranza. Sì, dico io, e qualche volta neanche io posso sopportare la noncuranza riguardo alla gravitazione universale e p e E=mc2. Seriamente. Ma quando dico così lei si zittisce prendendolo come un insulto personale. Non la intendo mai così; dico solo quello che sento.
Quella notte, quando viene a casa la prima cosa che fa è ispezionare l’appartamento. Ho approntato una spiegazione completa - come gli OMINI DELLA TV siano venuti e abbaiano messo tutto per aria. Sarà difficile convincerla, ma ho l’intenzione di dirle l’intera verità.
Non dice nulla, dà solo un’occhiatina.  C’è una TV sulla credenza, le riviste sono in disordine sul tavolo, l’orologio da mensola è sul pavimento e la moglie non fa neppure un commento. Non c’è nulla che io debba spiegare.
«La tua cena andava bene?» mi domanda, svestendosi.
«No, non ho mangiato,» le dico.
«Perché no ?»
«Non avevo fame,» dico.
La moglie fa una pausa, mezzo svestita, pensa di aver finito. Mi guarda lungamente. Deve insistere sull’argomento o no? L’orologio rompe il prolungato e pesante silenzio. TRPP Q SCHAOUS TRPP Q SCHAOUS. Faccio finta di non sentirlo ; non voglio lasciarlo entrare nelle mie orecchie. Ma il rumore è semplicemente troppo pesante, troppo forte per tenerlo lontano. Anche lei sembra ascoltarlo. Poi scuote la testa e dice : «Devo farti qualcosa di veloce?».
«Beh, magari,» dico. Non ho molta voglia di mangiare, ma non voglio lasciar cadere l’offerta.
La moglie si mette in abiti da casa e va in cucina a preparare un zosui e tamago-yaki mentre mi aggiorna sulle sue amiche. Chi ha fatto questo, chi ha detto quest’altro, chi ha cambiato il taglio di capelli e sembra molto più giovane, chi ha rotto col suo fidanzato. Conosco la maggior parte delle sue amiche, pertanto mi servo una birra e la seguo, inserendo degli attenti ah-ha! ad appropriati intervalli. Sebbene in realtà io non senta quasi nulla di quello che dice. Sto pensando agli OMINI DELLA TV. A quello e al perché lei non noti l’improvvisa apparizione della televisione. Non è possibile che non se ne sia accorta. Proprio strano. Addirittura enigmatico. Qui c’è qualcosa che non va. Ma che fare al riguardo?
Il cibo è pronto, così mi siedo al tavolo della sala da pranzo e mangio. Riso, uova, prugne salate. Quando ho finito, la moglie porta via i piatti. Mi prendo un’altra birra e anche le si prende una birra. Do un’occhiata alla credenza e c’è la TV, spenta, l’apparecchio del telecomando sta sul tavolo. Mi alzo e vado al tavolo, raggiungo il telecomando, accendo il televisore. Lo schermo si illumina e lo sento tintinnare. Ancora nessun’immagine. Sempre lo stesso televisore dallo schermo vuoto. Schiaccio il bottone per alzare il volume, ma tutto ciò che ottengo è di incrementare il ruggito da rumore bianco. Guardo la tempesta di neve per venti, trenta secondi, poi spengo. Luce e suono svaniscono in un istante. Nel frattempo, la moglie si è seduta sul tappeto e sta sfogliando Elle dimentica del fatto che la TV è appena stata accesa e spenta.
Rimetto il telecomando sul tavolo e mi siedo di nuovo sul sofà, pensando che continuerò a leggere quel lungo romanzo di Garcìa Marquez. Leggo sempre dopo cena. Posso mettere giù il libro dopo trenta minuti, o posso leggere per due ore, ma l’importante è leggere ogni giorno. Oggi, tuttavia, non posso indurmi a leggere più di una pagina e mezza. Non riesco a concentrarmi; i miei pensieri ritornano continuamente all’apparecchio TV. Guardo in su e lo vedo, proprio davanti a me.

Mi sveglio alle due e mezza del mattino per scoprire se la TV sia ancora lì. Esco dal letto sperando a metà che la cosa sia scomparsa. No, purtroppo. Vado in bagno, poi mi lascio cadere sul sofà e metto i piedi sopra il tavolo. Prendo in mano il telecomando e tento di accendere la TV. Nessun nuovo sviluppo neppure in quel campo; solo un riaccendersi dello stesso bagliore e rumore. Nient’altro. Per un momento lo guardo, poi spengo.
Torno a letto e tento di dormire. Sono stanco morto, ma il sonno non arriva. Spalanco gli occhi e li vedo. Gli OMINI DELLA TV che portano l’apparecchio TV, gli OMINI DELLA TV che tolgono di mezzo l’orologio, gli OMINI DELLA TV che trasferiscono le riviste sul tavolo, gli OMINI DELLA TV che inseriscono il cavo di alimentazione nella presa a muro,  gli OMINI DELLA TV che controllano lo schermo, gli OMINI DELLA TV che aprono la porta ed escono silenziosamente. Si sono insediati nella mia mente. Stanno lì e se ne vanno in giro. Esco di nuovo dal letto, vado in cucina, e verso un doppio brandy in una tazza da caffè. Poso il brandy e mi dirigo sul sofà per un’altra sessione con Marquez. Apro le pagine, ma in qualche modo le parole non penetrano. La scrittura è opaca.
Benissimo, allora metto via Garcìa Marquez e piglio Elle. Leggere Elle di tanto in tanto non può far male a nessuno. Ma non c’è nulla in Elle che catturi la mia immaginazione. Nuove acconciature ed eleganti camicette bianche di seta e ristoranti che servono un buon manzo stufato e che cosa indossare per andare all’opera, articoli così. Che me ne importa? Metto via Elle. Il che mi riporta a guardare la televisione sulla credenza.
Finisco per stare sveglio fino all’alba, senza far niente. Alle sei mi preparo del caffè. Non ho nient’altro da fare, perciò vado avanti a preparare panini al prosciutto prima che si alzi la moglie.
«Ti sei svegliato terribilmente presto,» dice con aria sonnolenta.
«Mmm...,» bofonchio io.
Dopo una colazione quasi muta, usciamo di casa insieme e prendiamo le rispettive strade per i nostri rispettivi uffici. La moglie lavora in una piccola casa editrice. È redattrice di una rivista di cibo naturale e stili di vita. Avete presente quel genere di rivista: I funghi shiitake prevengono la gotta; Il futuro dell’agricoltura biologica... Mai grandi vendite, ma non costa quasi nulla produrla : la tengono a galla una manciata di fanatici. Io lavoro nel reparto pubblicità di una ditta di elettrodomestici. Invento réclame per tostapane e lavatrici e forni a microonde.

Nel palazzo del mio ufficio incrocio uno degli OMINI DELLA TV sulle scale. Se non erro è uno dei tre che hanno portato la TV il giorno precedente - probabilmente quello che per primo ha aperto la porta, che in effetti non trasportava l’apparecchio. La loro singolare mancanza di caratteristiche distintive rende quasi impossibile riconoscerli uno dall’altro, sicché non potrei giurarci, ma al novanta percento direi che ci azzecco. Indossa la stessa giacca blu del giorno precedente, e non ha nulla in mano. Sta semplicemente scendendo le scale. Io sto salendo. Non mi piacciono gli ascensori, perciò di solito faccio le scale. Il mio ufficio è al nono piano, perciò non è una cosa da nulla. Quando sono di fretta divento tutto sudato prima di arrivare in cima. Anche così, sudare riesce a esser meglio che prendere l’ascensore, almeno per quanto mi riguarda. Tutti scherzano su questa cosa : non possiede una TV o un videoregistratore, non prende l’ascensore, deve essere un moderno luddista. È probabile che un trauma infantile conduca ad uno sviluppo incompleto. Lasciateli pensare quello che vogliono. Sono loro a essere schiodati, se volete il mio parere.
In ogni caso, eccomi lì che mi inerpico sulle scale come sempre ; sono l’unico sulle scale - quasi nessun altro le usa - quando tra il quarto e quinto piano incrocio uno degli OMINI DELLA TV  che scende. Accade così all’improvviso che non so cosa fare. Magari dovrei dire qualcosa?
Ma non dico nulla. Non so cosa dire, e quello è inavvicinabile. Non lascia vie d’uscita ; scende le scale in maniera così funzionale, con un ritmo preciso, con precisione tanto regolare. In più, ignora sovranamente la mia presenza, proprio come il giorno prima. Non entro nemmeno nel suo campo visivo. Mi passa accanto senza far rumore prima che io possa pensare a cosa fare. In quell’istante il campo di gravità si curva.
Al lavoro la giornata è uniforme con riunioni dal mattino in poi. Riunioni importanti per campagne di vendita di una nuova linea di prodotti. Diversi impiegati leggono rapporti. Lavagne riempite con figure, grafici a barre proliferano sugli schermi dei computer. Discussioni animate. Io partecipo, sebbene la mia posizione nella riunione non sia così critica poiché non sono direttamente coinvolto nel progetto. Così nel mezzo delle riunioni continuo a scervellarmi. Soltanto una volta esprimo un’opinione. Non è neppure un granché come opinione - qualcosa di perfettamente ovvio per qualsiasi osservatore - ma dopo tutto non posso continuare tranquillamente a non dire nulla. Posso non essere terribilmente ambizioso quando si tratta di lavoro, ma finché ricevo uno stipendio devo dimostrare responsabilità. Riassumo le diverse opinioni fino a quel punto e faccio persino uno scherzo per accendere l’atmosfera. Quasi rimpiazzando le mie fantasticherie sugli OMINI DELLA TV. Diverse persone ridono. Dopo quest’unico pronunciamento, comunque, fingo soltanto di rivedere gli appunti ; sto pensando agli OMINI DELLA TV. Se lanciano un nome per il nuovo forno a microonde, di sicuro io non me ne accorgo. La mia mente è tutta OMINI DELLA TV. Che diavolo significava quell’apparecchio TV? E, in primo luogo, perché trascinare la TV fino al mio appartamento? Perché la moglie non ha notato la sua apparizione? Perché gli OMINI DELLA TV hanno fatto un’incursione nella mia azienda?
Le riunioni sono infinite. A mezzogiorno c’è una breve pausa per il pranzo. Troppo corta per uscire e andare a mangiare. Invece tutti hanno dei panini e caffè. La sala conferenze è una nebbia di fumo di sigaretta, perciò mangio alla mia scrivania. Mentre sto mangiando il Capo Sezione se ne va in giro. Ad essere del tutto sincero, quel tipo non mi piace. In nessun caso gli si può trovare un difetto: non c’è nulla che gli si possa rimproverare, nessun singolo punto su cui attaccarlo. Ha l’aria beneducata. Ancor più, non è stupido. Ha buon gusto per le cravatte, non è autocelebrativo, non tiranneggia i suoi sottoposti. Addirittura mi cerca, mi invita fuori per pranzi occasionali. Ma c’è proprio qualcosa in quel tipo che non è compatibile con me. Forse è la sua abitudine di venire a contatto fisico con quelli con cui sta parlando. Uomini o donne, a un certo punto nel corso della conversazione sporge una mano e tocca. Attenzione, non in modo volgare. No, i suoi modi sono vivaci, il suo comportamento perfettamente casuale. Non sarei nemmeno sorpreso se qualcuno non se ne accorgesse nemmeno, è così naturale. Eppure - non so perché - mi dà fastidio. Così ogni volta che lo vedo, quasi istintivamente mi faccio forza. Chiamatelo meschino, mi urta.
Si sporge, mettendo una mano sulla mia spalla. «Riguardo alla sua proposta alla conferenza di poco fa. Molto buona,» dice il Capo Sezione con calore. «Esposta in maniera molto semplice, davvero sostanziale. Mi ha colpito. Punti ben guadagnati. La sala intera bisbigliava a quelle sue frasi. Anche la tempistica era perfetta. Sissignore, in questo modo li tiene in pugno».
E scivola via. Probabilmente per pranzare. Lo ringrazio apertamente, ma la nuda verità è che sono colto alla sprovvista. Voglio dire, non mi ricordo una sola parola di quel che ho detto alla riunione. Perché il Capo Sezione deve venire dritto dritto alla mia scrivania per encomiarmi per quello? Devono esserci in circolazione degli homo loquens più brillanti di me. Strano. Continuo a mangiare il mio pranzo, senza comprendere. Allora penso alla moglie. Mi domando che cosa combina in questo istante. Uscita a pranzo? Magari dovrei darle un colpo di telefono, scambiare poche parole, qualcosa. Compongo i primi tre numeri, ci ripenso, riaggancio. Non ho motivo per chiamarla. Il mio mondo può anche essere in via di disgregarsi, squilibrato, ma forse questa è una buona ragione per chiamarla in ufficio? In ogni modo che cosa posso dirle di tutto questo? Inoltre detesto chiamarla al lavoro. Metto giù la cornetta, emetto un sospiro e finisco il mio caffè. Poi getto la tazza di polistirolo nel cestino dell’immondizia.

All’una del pomeriggio vedo di nuovo gli OMINI DELLA TV. Questa volta il loro numero è cresciuto di due. Proprio come il giorno precedente, arrivano scarpinando attraverso la sala conferenze, trasportano un TV color Sony. Un modello di dimensioni più grandi. Oh oh. Sony è la squadra rivale. Se, per qualsiasi ragione qualche prodotto della concorrenza dovesse venir portato nei nostri uffici, scoppierebbe un casino, eccetto, naturalmente, quando i prodotti di altre fabbriche vengono introdotti per dei test comparativi. Ma allora ci prendiamo la briga di rimuovere il marchio della società - solo per esser sicuri che occhi estranei non vi cadano sopra. Poco se ne preoccupano gli OMINI DELLA TV : il marchio Sony è decorato in modo che tutti lo possono vedere. Aprono la porta e marciano dritti dentro la sala conferenze facendolo balenare verso di noi. Poi fanno sfilare l’aggeggio in giro per la stanza perlustrandola per cercare il luogo dove posarlo, finché alla fine, non trovando nessuna sistemazione, lo trasportano di nuovo fuori dalla porta. Gli altri nella stanza non mostrano alcuna reazione agli OMINI DELLA TV. E non possono non averli visti. No, li hanno certamente visti. E la prova è che si sono addirittura scansati aprendo un passaggio perché gli OMINI DELLA TV potessero trasportare la loro TV. Ma nulla più di questo: una reazione non più allarmata di quando al vicino ristorante fanno le consegne. Si sono dati come regola fondamentale di non manifestare di accorgersi della presenza degli OMINI DELLA TV. Tutti quanti sapevano che loro erano lì; semplicemente si sono comportati come se non ci fossero.
Nulla di tutto ciò ha senso. Tutti sanno degli OMINI DELLA TV? Sono io l’unico all’oscuro? Forse anche la moglie ha sempre saputo degli OMINI DELLA TV. Probabile. Scommetto che è per questo che non era sorpresa del televisore e non lo ha menzionato. È l’unica spiegazione possibile. Certo, questo mi confonde ancor di più. Chi, o cosa sono, allora, gli OMINI DELLA TV? E perché trasportano sempre in giro apparecchi TV?
Un collega si alza dal posto per andare alla toilette, e mi alzo per seguirlo. È uno che è entrato nella società più o meno quando sono entrato io. Siamo in buoni rapporti. Talvolta usciamo insieme a berci un aperitivo dopo il lavoro. Non lo faccio con molte persone. Mi trovo accanto a lui nell’orinatoio. È lui il primo a uscirsene con una lagnanza.
«Santo cielo! Sembra che duri più del solito, senza sosta fino a sera. Ci scommetto! Riunioni, riunioni, riunioni, hanno l’intenzione di andare avanti all’infinito.»
«Puoi dirlo forte,» faccio io. Ci laviamo le mani. Si complimenta con me per la mia proposta alla riunione del mattino. Lo ringrazio.
«Ah, tra l’altro, quei tipi che sono entrati con la TV un attimo fa...» butto lì, poi taccio.
Non dice nulla. Chiude il rubinetto, estrae due asciugamani di carta dal distributore e si asciuga le mani. Non getta nemmeno uno sguardo nella mia direzione. Per quanto può continuare ad asciugarsi le mani? Alla fine, appallottola gli asciugamani e li getta via. Forse non mi ha sentito. O forse fa finta di non sentire. Non so dire. Ma dall’improvvisa tensione nell’atmosfera ne so abbastanza per non domandare più. Taccio, mi asciugo le mani, e percorro il corridoio verso la sala conferenze. Per tutto il resto delle riunioni pomeridiane lui evita il mio sguardo.

Quando torno a casa dal lavoro l’appartamento è al buio. Fuori si sono ammassate nuvole nere. Sta cominciando a piovere. L’appartamento odora di pioggia. Sta arrivando la notte. Nessun segno della moglie. Mi slaccio la cravatta, liscio le pieghe e la appendo. Spazzolo l’abito. Getto in lavatrice la maglietta della salute. I miei capelli odorano di fumo di sigaretta, perciò mi faccio una doccia e mi rado. La storia della mia vita : vado a riunioni infinite, vengo affumicato a morte, poi la moglie mi fa il processo per questo. La primissima cosa che ha fatto quando ci siamo sposati è stato farmi smettere di fumare. Questo quattro anni fa.
Dopo la doccia mi siedo sul sofà con una birra, mi asciugo i capelli con un asciugamano. La televisione degli OMINI DELLA TV si trova ancora sulla credenza. Prendo dal tavolo il telecomando e schiaccio il pulsante di accensione. Schiaccio più volte ma non succede niente. Lo schermo rimane nero. Controllo la spina ; è al suo posto nella presa. La stacco, poi la riattacco. Non va ancora. Non importa quanto spesso io schiacci il pulsante di accensione, lo schermo non si illumina. Solo per essere sicuro, apro il coperchio posteriore del telecomando, rimuovo le batterie, e le testo col mio tester manuale a contatto elettrico. Le pile vanno bene. A questo punto ci rinuncio, getto via il telecomando e mi verso dell’altra birra.
Perché dovrebbe darmi fastidio? Supponendo che la televisione si fosse accesa, e allora? Si illuminerebbe e crepiterebbe di rumor bianco. Chi se ne importa, se questo è tutto quello che avrebbe fatto?
Mi importa. La scorsa notte funzionava. Ed io non l’ho toccata con un dito da allora. Non ha senso.
Provo col telecomando ancora una volta. Schiaccio lentamente col dito. Ma il risultato è lo stesso. Assolutamente nessuna risposta. Lo schermo è morto. Freddo.
Freddo da morire.
Estraggo un’altra birra dal frigo e mangio dell’insalata di patate in una vaschetta di plastica. Sono le sei passate. Leggo tutto quanto il giornale della sera. Se possibile è più noioso del solito. Quasi nessun articolo è degno di lettura, nient’altro che elenchi sconnessi di notizie. Ma continuo a leggere, per mancanza di una qualsiasi cosa migliore da fare. Finché non ho finito il giornale. E dopo? Per impedirmi di inseguire ulteriormente quel pensiero mi trastullo col giornale. Mmm, rispondessi alle lettere? Una nostra cugina ci ha spedito un invito di matrimonio che devo declinare. Il giorno del matrimonio la moglie ed io saremo in viaggio. A Okinawa. L’abbiamo deciso da tempo; entrambi ci prendiamo una vacanza dal lavoro. Adesso non possiamo cambiare agevolmente i nostri piani. Dio solo sa quando avremo di nuovo la possibilità di passare una lunga vacanza insieme. E per dirla tutta non sono nemmeno così affezionato a mio cugina; non l’ho vista per quasi dieci anni. Però, non posso aspettare l’ultimo minuto per rispondere. Lei deve sapere quante persone verranno, quanti posti prevedere per il pranzo. Ah, lasciamo perdere. Non posso mettermi a scrivere proprio ora. Non ho la testa per questo.
Prendo di nuovo il giornale e leggo ancora gli stessi articoli. Forse dovrei iniziare a preparare la cena. Ma la moglie potrebbe lavorare fino a tardi e tornare a casa dopo aver cenato. Il che significherebbe sprecare una porzione. E se mangio da solo posso farlo con gli avanzi ; non c’è ragione di preparare qualcosa di speciale. Se non ha mangiato, allora possiamo uscire e mangiare insieme.
Strano però. Ogni volta che l’uno o l’altra sa che tarderà dopo le sei, ci telefoniamo sempre. È la regola. Se necessario lasciamo un messaggio sulla segreteria. In questo modo l’altro può organizzarsi: mangiare da solo come se niente fosse, o preparare qualcosa per chi arriva dopo, o andare a letto. La natura del mio lavoro talvolta mi tiene fuori fino a tardi, e lei spesso ha delle riunioni, o bozze da terminare, prima di tornare a casa. Nessuno dei due ha un regolare lavoro dalle-nove-alle-cinque. Quando entrambi siamo impegnati, possiamo andare avanti per dieci giorni senza dirci una parola. Quelle sono le soste - una di quelle cose che nessuno ha deciso. Perciò rispettiamo certe regole in modo da non appesantirci l’un con l’altra di aspettative inverosimili. Se si capisce che si farà tardi si chiama e lo si dice all’altro. Qualche volta io me ne dimentico, ma lei mai una volta.
Eppure, non c’è nessun messaggio in segreteria.
Getto via il giornale, mi stendo sul sofà e chiudo gli occhi.

Sogno una conferenza. Sto in piedi, esponendo una proposta che io stesso non capisco. Apro la bocca e parlo. Se non lo faccio sono un uomo morto. Devo continuare a parlare. Devo continuare a venirmene fuori con dei bla bla bla senza fine. Tutti intorno a me sono morti. Morti e trasformati in pietra. Una stanza piena di statue di pietra. Soffia il vento. Le finestre sono tutte rotte; entrano folate d’aria. E gli OMINI DELLA TV sono qui. Tre di loro. Come la prima volta. Portano un TV color Sony. E sullo schermo ci sono gli OMINI DELLA TV. Sto esaurendo le parole ; a poco a poco sento la punta delle mie dita farsi rigide. Si trasformano gradualmente in pietra.
Apro gli occhi e trovo la stanza irradiata. Il colore dei corridoi in un acquario. La televisione è accesa. Fuori tutto è scuro. Lo schermo TV tremola nell’oscurità, crepitando scariche. Mi raddrizzo sul sofà e mi premo le tempie con la punta delle dita. La carne delle dita è ancora soffice; la mia bocca sa di birra. Deglutisco. Sono disidratato ; la saliva mi si nasconde in gola. Come sempre il mondo della veglia impallidisce dopo un sogno fin troppo reale. Ma no, questo è reale. Nessuno è stato trasformato in pietra. Che  ora si sta facendo? Cerco l’orologio sul pavimento. TRPP Q SCHAOUS TRPP Q SCHAOUS. Manca poco alle otto.
Eppure, proprio come nel sogno, uno degli OMINI DELLA TV è sullo schermo televisivo. Lo stesso tipo che ho incrociato sulle scale in ufficio. Nessuna possibilità d’errore. Il tipo che per primo ha aperto la porta dell’appartamento. Sono sicuro al cento per cento. Se ne sta là - contro uno sfondo chiaro, bianco fluorescente, lo strascico di un sogno che si infiltra nella mia realtà cosciente - e mi fissa. Urlo, poi riapro gli occhi sperando che sia ritornato nell’inesistenza. Ma non scompare. Tutt’altro. Diventa più grande. Il suo volto riempie l’intero schermo, si fa sempre più vicina.
La cosa successiva che capisco è che sta fuoriuscendo dallo schermo. Le mani afferrano il bordo, si solleva fuori, un piede dopo l’altro, come se si arrampicasse fuori da una finestra, lasciando dietro di sé uno schermo TV bianco e scintillante.
Si stropiccia la mano sinistra nel palmo della destra, ambientandosi lentamente nel mondo fuori dal televisore. In continuazione, le dita ridotte della mano destra stropicciano le dita ridotte della mano sinistra, senza fretta. Ha quella noncuranza da ho-tutto-il tempo-del-mondo. Come un ospite veterano degli show TV. Poi mi guarda in volto.
«Stiamo facendo un aeroplano,» mi dice il mio visitatore OMINO DELLA TV. La sua voce non ha partecipazione alla cosa. Una voce bizzarra, sottile come un foglio.
Lui parla, e lo schermo è tutto un macchinario. Un’apertura in dissolvenza davvero professionale. Proprio come al telegiornale. Dapprima c’è uno spazio aperto di un vasto interno-fabbrica, poi taglia su un primo piano dell’area di lavoro, telecamera al centro. Due OMINI DELLA TV lavorano sodo ad una macchina, stingendo bulloni con tenaglie, adattando misuratori. Il ritratto stesso della concentrazione. Quella macchina in ogni caso è diversa da qualsiasi cosa abbia mai visto: un cilindro verticale, solo che si restringe verso la cima, con aerodinamiche protrusioni su tutta la superficie. Sembra più un qualche tipo di spremiagrumi gigante piuttosto che un aeroplano. Niente ali, niente sedili.
«Non sembra un aeroplano,» dico io. Non sembra neppure la mia voce. Stranamente fragile, come se colasse alimenti attraverso uno spesso filtro. Sono diventato così vecchio tutto d’un colpo?
«Probabilmente è perché non lo abbiamo ancora dipinto,» dice. «Domani lo faremo del colore giusto. Poi vedrai che è un aeroplano».
«Il colore non è il problema. È la forma. Non è un aeroplano.»
«Beh, se non è un aeroplano, che cos’è ?» mi chiede. Se non lo sa lui, e io non lo so, allora che cosa è?
«Ecco perché deve esserci il colore», formula gentilmente il rappresentante degli OMINI DELLA TV. «Dipingilo del colore giusto e sarà un aeroplano.»
Non mi sento di argomentare. Che differenza fa? Spremiagrumi o aeroplano - aerospremiagrumi? - che cosa me ne importa ? E poi, dov’è la moglie mentre sta succedendo tutto questo ? perché non torna a casa ? mi massaggio di nuovo le tempie. L’orologio ticchetta. TRPP Q SCHAOUS TRPP Q SCHAOUS. Il telecomando giace sul tavolo, lì vicino c’è la pila di riviste  femminili. Il telefono è silenzioso, la stanza illuminata dal fioco bagliore del televisore.
I due OMINI DELLA TV sullo schermo continuano a darci dentro. L’immagine è molto più chiara di prima. Si riescono a leggere i numeri sui quadranti, si sente il fievole rombo dei macchinari. TAABZH-RAYBGG TAABZH-RAYBGG ARP ARRP TAABZH-RAYBGG. Questa linea di basso continuo è periodicamente contrappuntata da un acuto gracchiare metallico. AREEEENBT AREEEENBT. E vari altri rumori si diffondono nello spazio sonoro; non riesco a sentire tutto chiaramente sopra di essi. Però i due OMINI DELLA TV lavorano duro quanto più possono. Apparentemente è il tema di questo programma. Continuo a guardarli entrambi mentre vanno avanti a lavorare. Anche il loro collega fuori dall’apparecchio TV continua a guardare in silenzio. Li guarda. Guarda quella cosa - sul mio onore : non sembra un aeroplano - quella macchina folle tutta nera e sudicia, fluttuante in un campo di luce bianca.
Il rappresentante degli OMINI DELLA TV si mette a parlare. «Vergogna su tua moglie.»
Lo guardo in volto forse non l’ho sentito bene. Fissarlo è come scrutare il tubo catodico in persona.
«Vergogna su tua moglie,» ripete il rappresentante degli OMINI DELLA TV con lo stesso tono assente.
«Come sarebbe?» domando.
«Come sarebbe? La cosa è andata troppo in là,» dice il rappresentante degli OMINI DELLA TV con una voce simile a una chiave elettronica d’hotel. Piatta, priva di inflessioni, si incide in me come attraverso una sottile fenditura. «La cosa è andata troppo in là. Lei è via.»
«La cosa è andata troppo in là. Lei è via,» mi ripeto mentalmente. Molto facile, e senza realtà. Non posso afferrare il contesto. Perché ha effetto sul contesto attraverso lo strascico del sogno e lo sta completamente inghiottendo. Mi alzo e vado in cucina. Apro il frigorifero, tiro un profondo respiro, raggiungo una lattina di birra, e torno sul sofà. Il rappresentante degli OMINI DELLA TV sta fermo davanti alla televisione, il gomito destro posato sull’apparecchio, e mi guarda mentre tiro l’anello della lattina. Non ho davvero voglia di bere birra in questo momento ; ho solo bisogno di fare qualcosa. Bevo un sorsetto, ma la birra non ha un buon sapore. Tengo ottusamente la lattina in mano finché diventa così pesante che devo posarla sul tavolo.
Allora penso alla rivelazione del rappresentante degli OMINI DELLA TV, riguardo alla mancata materializzazione della moglie. Ha detto che è andata via. Che non sta venendo a casa. Non riesco a credere che sia finita. Certo, non siamo la coppia perfetta. Abbiamo avuto i nostri battibecchi in quattro anni. ; abbiamo i nostri piccoli problemi. Ma li svisceriamo sempre. Ci sono cose che abbiamo risolto e cose che non abbiamo risolto. La maggior parte di ciò che non riusciamo a risolvere lo lasciamo perdere. Va bene, abbiamo i nostri alti e bassi di una coppia. Lo ammetto. Ma questo è un buon motivo per scomparire ? Suvvia, mostratemi una coppia che non ha problemi. Inoltre, sono soltanto passate da poco le otto. Dev’esserci una ragione per la quale non può raggiungere un telefono.  Un sacco di possibili ragioni. Per esempio... non riesco a pensarne nemmeno una. Sono confuso oltre ogni speranza.
Sprofondo di nuovo nel sofà.
Come diavolo dovrebbe volare quell’aeroplano - se è un aeroplano? Che cosa lo spinge ? Dove sono i finestrini ? Qual è il davanti, quale il dietro ?
Sono stanco morto. Esausto. Devo ancora scrivere quella lettera però, per declinare l’invito di mia cugina. I miei impegni di lavoro non mi permettono il piacere di presenziare. Spiacevole. Congratulazioni, fa lo stesso.
I due OMINI DELLA TV in televisione continuano a costruire il loro aeroplano, dimentichi di me. Ci danno dentro; non si fermano per nessun motivo. Hanno una quantità infinita di lavoro da terminare prima che la macchina sia completa. Non appena hanno finito un’operazione sono già impegnati in un’altra. Non hanno istruzioni di montaggio, progetti, ma sanno precisamente cosa fare e che cosa viene dopo. La telecamera segue abilmente i loro gesti svelti. Un lavoro di telecamera nitido, facile da seguire. Immagini altamente credibili, convincenti. Senza dubbio altri OMINI DELLA TV (n°4 e 5 ?) azionano la telecamera e il pannello di controllo.
Per quanto possa sembrare strano,  quanto più guardo la forma impeccabile degli OMINI DELLA TV mano a mano che continuano il loro lavoro, tanto più la cosa inizia a sembrare un aeroplano. Per lo meno non mi sorprenderebbe più se volasse veramente. Che cosa importa qual è il davanti e quale il dietro? Con tutto l’impegnativo lavoro di precisione che stanno facendo, deve essere un aeroplano. Sebbene non appaia così - per loro è un aeroplano. Proprio come ha detto il tipetto: «Se non è un aeroplano, allora cos’è?»
Il rappresentante degli OMINI DELLA TV non ha fatto una piega in tutto questo tempo. Il gomito destro ancora appoggiato sull’apparecchio TV, mi sta guardando. Sono guardato. L’équipe di OMINI DELLA TV della fabbrica continua a lavorare. Indaffarati, indaffarati, indaffarati. L’orologio ticchetta. TRPP Q SCHAOUS TRPP Q SCHAOUS. La stanza è diventata buia, opprimente. L’eco dei passi di qualcuno lungo l’ingresso.
Bene, mi viene in mente all’improvviso, forse è così. Forse la moglie è via. È andata via, da qualche parte, lontano. Con qualsiasi mezzo di trasporto, è andata da qualche parte lontano, fuori dalla mia portata. Forse la nostra relazione ha subito un danno irreversibile. Forse è una sconfitta totale. Solo che io non me ne sono accorto. Ogni genere di pensieri si dipana dentro di me, poi le logore conclusioni tornano di nuovo insieme. «Forse è così», dico ad alta voce. La mia voce riecheggia, sorda.
«Domani, quando lo dipingeremo, lo vedrai meglio,» riassume lui. «Tutto quello che ci vuole è un tocco di colore per farne un aeroplano.»
Mi guardo i palmi delle mani. Si sono rimpiccioliti leggermente. Leggerissimamente. Potenza della suggestione ? forse il gioco delle luci mi inganna. Forse il mio senso della prospettiva è stato sopraffatto. Però, i miei palmi sembrano realmente avvizziti. Ehi, adesso, aspetta un momento! Lasciami parlare. Dovrei dire qualcosa. Devo dirlo. Mi secco e tramuto in pietra se non lo dico. Come gli altri.
«Il telefono suonerà presto,» dice il rappresentante degli OMINI DELLA TV. Allora, dopo una pausa misurata, aggiunge: «Entro cinque minuti.»
Guardo il telefono ; penso al filo del telefono. Lunghezze senza fine del cavo telefonico collegano un telefono all’altro. Forse da qualche parte, in qualche terminale di questo maestoso megacircuito, c’è mia moglie. Lontano, lontano, fuori dalla mia portata. Posso sentire la sua pulsazione. Ancora cinque minuti, mi dico. Qual è il davanti, qual è il dietro? Mi alzo e tento di dire qualcosa, ma appena sono in piedi le parole scivolano via.


Pubblicato per la prima volta sulla rivista Par Avion, giugno 1989. Testo incluso in Monkey brain sushi, escluso dalla traduzione italiana, a cura di Edoardo Acotto e Francesca Tondi.

Haruki Murakami (n. 1949) autore di A Wild Sheep Chase (1982) e Hard-Boiled Wonderland and The End of the World (1985), è lo scrittore più popolare della sua generazione. Egli stesso traduttore di numerosi autori da F. Scott Fitzgerald a Truman Capote da John Irving a Raymond Carver, Murakami fu forse il primo a rompere con la “vecchia scuola”. Il suo stile narrativo vivace e casuale e il suo umorismo estemporaneo portarono una ventata di aria fresca nello stile introspettivo cupo e meditativo e nella pesantezza dolorosa del romanzo tradizionale giapponese. Tra le altre opere: il romanzo Dance Dance Dance (1989), la raccolta di racconti brevi A Slow Boat to China (1983), Dead Heat on the Merry-Go-round (1985), Firefly, Burn the Barn, and other Stories (1984), Another Attack on a Bakery (1986) e scritti di viaggi A Distant Drum (1990).

domenica 3 aprile 2011

Esclamazioni corrive che piacciono a un bambino di due anni

A mio figlio piace quando esclamo: "ossignore" "ussignur" "ommioddio" "mon dieu" "cavolo" "cazzo".
Dominanti, la dimensione religiosa e quella fallocentrica.
Siccome le ripete anche lui con entusiasmo, piccoloborghesemente eliminare "cazzo" dal mio eloquio, o almeno ridurne la frequenza di apparizione.

NB: l'apprendimento del lessico ha un'evidente base statistica.


Aggiornamento 4 luglio 2013

Non mi sono dominato molto, a dire il vero. Ma per qualche strana ragione Agostino non ha mai ripetuto "cazzo", parola che pure talvolta esclamo.
Forse c'è qualcosa di vero nella storiella lacaniana del fallo come significante primario? Forse, semplicemente, Agostino non conosce il significato della parola "cazzo" e nemmeno se lo domanda (raramente chiede "che cosa vuol dire", forse risulta più economico per il cervello infantile aspettare che i significati si svelino da soli nel loro contesto).

Esercizi per verificare se i soldi spesi con l'analista sono stati spesi bene, 1

Mentre mezza cittadinana avanza nella stessa direzione per l'annuale passeggiata della solidarietà, voi correte in senso opposto, lungo il vostro consueto percorso di allenamento, fendendo la folla, anzi la cittadinanza.
Se non vi sentite osservati e non provate imbarazzo dopo il terzo buontempone che vi apostrofa dicendo che la direzione giusta è quella contraria, capirete che avete speso bene i soldi sborsati per anni al vostro psicoanalista.
Avendo perso il pudore paranoide che per anni vi ha attanagliato, potreste persino essere pronti per entrare in politica.

martedì 29 marzo 2011

Pasquale Barubiriza, un giovane musicista geniale

Pasquale è stato mio allievo al corso di psicologia del suono che ho fatto allo IED un paio di anni fa.
Se come esercizio c'era da scrivere una breve presentazione di tre pagine, lui mi spediva via mail interi e complessi saggi filosofico-musicologici di decine e decine di pagine, tutte interessantissime.
Dati i ristretti limiti del nostro corso (essenzialmente sulla Generative Theory of Tonal Music) ho dovuto pregarlo di contenere la sua potenza di fuoco (DFW).

Qui trovate un po' la sua musica:  http://soundcloud.com/barubirizapasquale

Ascoltatela, ne vale la pena, ena ena ena!

lunedì 28 marzo 2011

E' così, la vita

Un'anziana signora dall'aspetto brillante ma non borghese oggi mi ha fermato per parlare con Agostino: un po' mi inquietava, mi faceva pensare alla mia vecchiaia, ma un po' ero anche fiero che una vecchia volesse parlare al mio infante.
Lo guardava con un'intensità che mi pareva amore, ne ero rapito. Lui nicchiava e la ignorava, perciò ho cercato di sopperire io alla mancata soddisfazione della vecchia, rispondendo alle domande che rivolgeva ad Agostino.
E' così, la vita

Rizoma (bozza di un lemma per Doppiozero)

Presentato per la prima volta in un testo omonimo pubblicato dalle Éditions de Minuit nel 1976 e poi ripubblicato come primo capitolo (Introduzione) di Millepiani [cfr. scheda Millepiani[i]] quello di rizoma è un concetto cardinale della coppia filosofica formata dai francesi Gilles Deleuze (filosofo) e da Félix Guattari (antipsichiatra).
“Il rizoma (da rizo-, radice, con il suffisso -oma, rigonfiamento) è una modificazione del fusto con principale funzione di riserva. È ingrossato, sotterraneo con decorso generalmente orizzontale” (da Wikipedia). Tuttavia nel repertorio concettuale di Deleuze & Guattari il rizoma indica tutt’altro che radicamento, verticalità e gerarchia (si pensi alla metaforica heideggeriana legata al Grund): il rizoma cresce infatti orizzontalmente e ha struttura diffusiva, reticolare, anziché arborescente.
Il rizoma è un anti-albero, un’anti-radice, un’anti-struttura.
L’orizzontalità rizomatica è giocata simbolicamente contro l’immagine filosofica di una conoscenza “verticale” (l’albero della conoscenza, dalla Bibbia a Descartes a Varela e Maturana), e alla quale Deleuze & Guattari attribuiscono intrinseca valenza (bio)politica, ovviamente repressiva: “è curioso come l’albero abbia dominato la realtà occidentale e tutto il pensiero occidentale, dalla botanica alla biologia, l’anatomia, ma anche la gnoseologia, la teologia, l’ontologia, tutta la filosofia…: il fondamento-radice, Grund, roots e fundations” (Mille Plateaux, 27)[ii].

Il rizoma è il movimento stesso del desiderio, dall’Anti-Edipo in poi protagonista assoluto della metafisica deleuze-guattariana: “Quando un rizoma è tappato, arborificato, è finita, non passa più  nulla del desiderio; perché è sempre per rizoma che il desiderio si muove e produce” (Mille Plateaux, 22).


Principi di rizomaticità.
Pur annunciandoli come “caratteri approssimativi” del rizoma, Deleuze & Guattari formulano alcuni principi che definiscono il rizoma.
Connessione ed eterogeneità (1 e 2): “qualsiasi punto di un rizoma può essere connesso con qualsiasi altro punto, e deve esserlo”. Qui la linguistica generativa di Noam Chomsky viene esplicitamente tirata in ballo come esempio negativo, perché la struttura sintattica sottesa a una frase linguistica inizia da un vertice (detto “testa”) e procede per dicotomia.
Molteplicità (3): “le molteplicità sono rizomatiche e denunciano le psuedo-molteplicità arborescenti”. La nozione di molteplicità –già sviluppata nei testi del solo Deleuze – è un altro punto singolare del “sistema” di pensiero (rizomatico) di Deleuze e Guattari. Le molteplicità si oppongono all’unità e anche all’Uno dell’onto-teologia occidentale. Tuttavia per avere delle molteplicità non è sufficiente aggiungere delle dimensioni: occorre invece sottrarre l’uno che darebbe unità al molteplice. Un buon esempio di produzione di molteplice è dato dal pianismo iper-vuituosistico di Glenn Gould: l’accelerazione che egli impone alla musica fa proliferare l’insieme, trasforma i punti musicali in linee. E in un rizoma non ci sono punti o posizioni come “in una struttura, un albero, una radice. Non ci sono nient’altro che linee”.
Rottura asignificante (4): a differenza delle strutture, che si scompongono in segmenti dotati a loro volta di informazione strutturale, un rizoma “può essere rotto, spezzato in un punto qualsiasi, riprende a seguire l’una o l’altra delle sue linee e seguendo altre linee”. Qui l’esempio, o meglio l’ipotiposi, del rizoma è il formicaio e il suo apparentemente inarrestabile proliferare, per quante distruzioni parziali possa subire. Ogni rizoma subisce una segmentarizzazione e stratificazione che attribuiscono significato, ma ogni volta che questa “normalizzazione” viene interrotta da una “linea di fuga” (altro concetto maggiore di Deleuze & Guattari) le linee segmentali esplodono e il rizoma si rompe.
Cartografia e decalcomania (5 e 6): il rizoma è eterogeneo ai modelli strutturali e generativi che hanno sempre l’albero come modello di infinita riproducibilità: “la logica dell’albero è una logica del calco e della riproduzione”. Il rizoma è invece una carta, e la carta non riproduce ma crea, in connessione con ciò di cui è carta. È questo è il principio più sensibile per la destituzione di ogni dualismo, in quanto non si tratta di rovesciare il modello della carta a favore di quello del calco, ma di “tentare l’altra operazione, inversa ma non simmetrica”. Con tutto il principio di carità, qui purtroppo non sembra possibile una comprensione chiara di ciò che gli autori intendono. Grosso modo si intuisce che si vorrebbe poter opporre la carta al calco, in un universo logico non dualistico, ma rimane difficile l’intuizione di come sia possibile opporre un’istanza m a un’istanza M scardinando la logica binaria dell’opposizione tra M e m. (Deleuze tratta abbondantemente questo punto a proposito dell’immanenza spinoziana, con sostanza unica, duplicità di attribuiti e molteplicità di modi/emanazioni).


Antidualismo. Come tutti i concetti filosofici militanti di Deleuze & Guattari, e in uno spirito non lontano dalla coeva decostruzione derridiana[iii], il concetto di rizoma non ha il fine di rovesciare una gerarchia istituita per affermare la primazia di ciò che normalmente è considerato secondario (allo stesso modo, la decostruzione pone il secondario in primo piano per destituire ciò che è istituzionalmente primario, non per affermarne la primazia)[iv]. “Ci sono nodi arborescenti nei rizomi e crescite rizomatiche nelle radici” (Mille Plateaux, 30).
L’albero-radice e il rizoma NON si oppongono come due modelli, ma piuttosto il rizoma costituisce la possibilità (trascendentale) di tutte le vie di fuga possibili in una struttura arboriforme. L’obiettivo ultimo, dicono Deleuze & Guattari, è quello di attingere l’impossibile formula: PLURALISMO = MONISMO.
Se l’albero impone il verbo essere, ossia la metafisica (od ontologia) alla base delle categorie di pensiero occidentale, dai presocratici agli analitici, il rizoma ha per tessuto connettivo la congiunzione molteplice: “e… e… e…”.

Rizoma e cervello. L’interesse di Deleuze & Guattari per il cervello testimonia della persistenza di un desiderio di materialismo, contro ogni psicoanalisi e psicologia, umanista o strutturalista (e probabilmente anche contro le scienze cognitive, se i due autori avessero avuto l’occasione di recepirle). Il cervello è un rizoma, nonostante la presenza di strutture come i dendriti, che lascerebbero pensare ad una natura alberiforme. “Molte persone  hanno un albero piantato nella testa, ma il cervello stesso è più un erba che un albero”. L’immagine dell’erba è a sua volta ipotipotica, perché, ci fanno sapere Deleuze & Guattari, il filo d’erba non cresce dagli estremi ma nel mezzo. E il rizoma “non ha un principio né una fine, è sempre in mezzo, tra le cose, inter-essere, intermezzo” (Mille Plateaux, 36).

Non è una metafora. Un’ultima osservazione: nello spirito nietzscheano della filosofia di Capitalismo e schizofrenia, la metafora è assolutamente bandita, a vantaggio della natura macchinica (materialista) della realtà: “in nessun caso ci serviamo di metafore” (Deleuze e Parnet, p.25). Pertanto a rigore il concetto di rizoma non deve essere considerato una metafora. Contro le metafore, Deleuze & Guattari giocano fin dall’Anti-Edipo i concetti di “macchina desiderante”, “macchina di macchine”, e successivamente quello di “dispositivo” e di “macchina astratta”.
La pretesa di Deleuze & Guattari è assoluta: rivoluzionare il pensiero ed il linguaggio con una postura di innocenza e ingenuità.

Forse è vero, come disse un giovane studente criticando l’Anti-Edipo, che non basta vedere scritto in un libro “sii felice” per esserlo (e c’è pure il problema del double bind…): ma se il concetto di rizoma vi piace, lasciatevene trasportare a costo di spezzare qualche dura linea segmentale che compone la vostra apparente identità. Potreste scoprire più d’una linea di fuga.
E qualcosa di simile alla gioia.




Bibliografia minima

G. Deleuze, Logica del senso (1967), tr. it. Raffaello Cortina, 2005
G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione (1968), tr. it. Quodlibet, 1999.
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni (1996), tr. it. Ombrecorte, postfazione di Antonio Negri, 2005.
G. Deleuze, F. Guattari, L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), tr. it. Einaudi, 1975-2002.
G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani (1980), tr. it. Castelvecchi, 2003.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1995), tr. it. Einaudi, 2002.


[i] Data la complessità e la circolarità dei temi trattati in Millepiani, si rimanda alla scheda apposita per un’ulteriore proliferazione di senso e sottrazione di apparente unitarietà.
[ii] Nonostante l’iperbole tipicamente postmodernista, di D&G, si tenga presente, leggendo queste righe, che a tutt’oggi la maggior parte dei linguisti generativisti ritiene che l’albero binario sia struttura cognitiva universale, e che qualsiasi materiale cognitivo senza eccezioni possa ricondursi a tale struttura).
[iii] Seppure in uno stile apparentemente opposto, al punto che per l’impossibile coppia Derrida/Deleuze si potrebbe rievocare il concetto kantiano-deleuziano di “sintesi disgiuntiva”. I due filosofi si conoscevano benissimo e si stimavano, a giudicare dal necrologio per Deleuze di Derrida su Libération (nel quale si cita lo sbalorditivo progetto di scrivere insieme un libro su Marx). Tuttavia conosco solo due casi di citazione reciproca, uno a testa: in Platone e il simulacro, poi incluso in Logica del senso, Deleuze cita la prima edizione de La farmacia di Platone di Derrida (Tel Quel, n° 32 e n° 33); a sua volta, nella famigerata conferenza su La differenza (ora in La scrittura e la differenza) Derrida cita il deleuziano Nietzsche e la filosofia. In qualche modo, dopo di allora i due giganti del pensiero francese preferirono ignorarsi, almeno testualmente.
[iv] A rigore in Capitalismo e schizofrenia questo punto non è chiaro: tutte le istanze minoritarie, in effetti sono sempre dichiarate più intense delle istanze maggioritarie.

domenica 27 marzo 2011

L’impossibile teatrico. Carmelo Bene e la filosofia (appunti per una lezione alla Cattolica, 2005?)

Il teatro di Carmelo Bene è un teatro essenzialmente filosofico. Non nel senso che insceni situazioni filosoficamente pregnanti, come nel caso del teatro sartriano, o di quello, più recente, di Alain Badiou. Il teatro di Carmelo Bene è filosofico perché è un teatro di pensiero, un teatro intrinsecamente intellettualistico e metafisico: Theatrum mundi secondo la metafora barocca, vale a dire un teatro che non accetta di essere ridotto e contenuto entro i ristretti confini del genere artistico “teatro”. Il teatro di Carmelo Bene è filosofico perché sono filosofici il suo linguaggio, i suoi presupposti, i suoi riferimenti, i suoi esiti pratici e teorici.
(Su Carmelo Bene hanno scritto Deleuze e Klossowski, e Carmelo Bene stesso negli ultimi tempi citava Deleuze e Derrida come propri riferimenti filosofici).

Teatro totale.
Il teatro di Carmelo Bene è o vuole essere un teatro totale, oltre quello tentato da Wagner <>.
Quanto scrive Derrida (p.244) a proposito di Artaud è perfettamente estensibile al teatro di Carmelo Bene:

Il teatro non poteva dunque essere un genere tra gli altri, per Artaud, uomo del (c.m.) teatro prima di essere scrittore, poeta o anche uomo di teatro : (...) perché la teatralità esige la totalità dell’esistenza e non tollera più l’istanza interpretativa o la distinzione tra l’autore e l’attore.

[Nota sulla praxis teatrale revoluzionaria: Marx ha posto nelle Tesi su Feuerbach che i filosofi non devono più limitarsi a interpretare il mondo ma trasformarlo. Da Artaud a Carmelo Bene lo stesso può dirsi per il teatro <ossia: il teatro non deve più limitarsi a rappresentare il mondo ma deve trasformarlo>.]



Il testo minorato: il monologo. Phoné e “scrittura di scena”.
Un teatro filosofico e totale diventa possibile solo attraverso una ben precisa operazione che permette di ribellarsi al Reale, allo stato delle cose presente, alla struttura dominante, che è Potere.
Carmelo Bene amputa i dialoghi, perché i dialoghi veicolano gli elementi di potere, li fanno circolare : «tocca a te parlare» (per Deleuze il linguaggio non è essenzialmente comunicativo ma innanzitutto veicolo di ordine e comando: le “parole d’ordine” sono incorporate nel linguaggio). Le condizioni del dialogo sono rigidamente codificate (Deleuze osserva, criticamente, che i linguisti tentano di determinare gli “universali del dialogo”). La codificazione è data dalla struttura vigente della realtà, che è nello stesso tempo Potere concreto e astratto, politico & metafisico.

Nota : il teatro di Carmelo Bene dal punto di vista ontologico presuppone un continuum astratto concreto di tipo monistico...

Deleuze (p.105) spiega l’assenza di dialogo nel teatro di Carmelo Bene sulla base del proprio concetto di variazione continua : si tratta di un movimento ontologico attuale-virtuale, cioè concreto-astratto (né totalmente concreto né totalmente astratto), una variazione reale irrefrenabile che abolisce lo stato di cose presente, variazione più reale del sostrato variante.
Giustamente Deleuze richiama lo schönberghiano Sprechgesang, il canto-parlato del Pierrot lunaire : la voce monologante di Carmelo Bene va oltre, fa diventare il testo un semplice materiale per la variazione.

Nota : Il testo è la nozione che la filosofia francese detta poststrutturalista o postmoderna ha giocato contro la cosiddetta metafisica della presenza. Il testo, insieme di segni infinitamente interpretabili, dunque sempre differiti, mai completamente presenti, diviene metafora del mondo : il mondo  è testo. E al di fuori del testo, si dice, non vi sarebbe nulla : Il n’y a pas d’hors-texte.
Carmelo Bene ha sviluppato nel suo teatro una linea di fuga dalla metafisica presenzialista e dal testo, attraverso la phoné.

Per Carmelo Bene «il testo è l’attore, il testo è la voce» (Carmelo Bene, p.34), è «scrittura di scena, esaltante linguaggio teatrale nel suo farsi (avvicendarsi di suono-buio-luce-canto-silenzio-musica-voce-gesto-fonema-etc...)» (Carmelo Bene, p.25). Con questo bisogna intendere che l’azione scenica lascia/produce una traccia ontologica nell’essere, incarna l’evento nel corpo dell’attore che lo assume su di sé (lo controeffettua come dice Deleuze); si tratta di un divenire scenico che non ha altra consistenza temporale che quella della sua manifestazione attraverso l’attore-artefice, la macchina attoriale.
Deleuze (p.105-4) rileva l’importanza della scrittura di scena in Carmelo Bene¸ cioè di

indicazioni non testuali, e tuttavia interiori, che non sarebbero soltanto sceniche, le quali funzionerebbero come degli operatori, esprimendo ogni volta la gamma delle variabili attraverso le quali passa l’enunciato, esattamente come in una partitura musicale. Per parte sua è così che scrive Carmelo Bene, di una scrittura che non è solo letteraria né teatrale, ma realmente operatoria. (...) Tutto il teatro di Carmelo Bene deve essere visto, ma anche letto, benché il testo propriamente detto non sia l’essenziale. Non è contraddittorio. Piuttosto è come decifrare una partitura.

E qui si inserisce, secondo Deleuze, una prima critica di Carmelo Bene a Brecht, che avrebbe compiuto la più grande operazione critica ma soltanto nello scritto e non sulla scena. L’operazione critica completa consisterebbe invece nell’amputare gli elementi stabili, mettere tutto in variazione continua, trasporre tutto in modo minore attraverso gli operatori della scrittura scenica, che sono essenzialmente sottrattivi.
Per spiegare l’uso che Carmelo Bene fa della lingua secondo la variazione continua, Deleuze (p.106-7) riprende una frase di Proust da lui spesso citata per esprimere la propria idea di poetica: Les beaux livres sont écrits dans une sorte de langue étrangère... L’idea dell’essere stranieri nella propria lingua risuona con quella nietzscheana scelta da Carmelo Bene come paradigma di estraniazione e inquietudine della parola: parlare a se stessi, nel proprio orecchio, ma in pieno mercato, sulla piazza pubblica... (Carmelo Bene, p.25).
Lo stesso Carmelo Bene (p.22) dice del proprio teatro monologante :

Monologare è già concorso in rissa (e, comunque, rissa d’artefice, d’autore). Monologo interiore è parlare-cantare Dio, non le sue lodi, ma la Sua-Nostra mancanza.
Dialogo è l’osteria del dover-essere. Tra religiosi non si dà dialogo. Si ascolta. [Frasi come questa supportano l’interpretazione di quanti, come Walter Pedullà, sostengono che Carmelo Bene testimoni la sopravvivenza ai nostri tempi dello spirito autenticamente religioso]
(...)
E infine : il «monologo» non è un momento come un altro a teatro. È, al contrario, l’intero spettacolo.  Monologo è teatro.

Seguono alcune indicazioni su “come nobilitare il dialogo”: Carmelo Bene (p.22).
Anche il famoso uso del play-back fatto da Carmelo Bene ha la funzione di mettere in crisi la lingua producendo distorsioni temporali e visive (una frase di Blanchot sempre ripresa da Deleuze afferma che parlare non è vedere).
E Deleuze (p.110) nota come al lavoro di afasia linguistica corrisponda in Carmelo Bene un lavoro di impedimento sulle cose e sui gesti (vestiti che fanno inciampare, accessori che rendono difficoltoso il movimento, gesti troppo rigidi o eccessivamente molli, frutti mangiati e continuamente risputati, ecc): è in uno stesso movimento che la lingua sfugge al Potere e l’azione al Controllo che la organizza.


Presenza e assenza.

L’ossessione filosofica e artistica di Carmelo Bene è la metafisica della presenza/assenza, strettamente legata al pathos concettuale della dicotomia vita/morte.

Questa inquietudine dei non-morti.
Che mi dice di muovermi sonnambulo
dalla mia semichiusa bara-letto?
(...)
Perché non-morto? Perché non ancora?
Chi mi pensa? Che mai inquieta i non-morti?

E il non-morto è difatti prostrato ai piedi d’una immensa cornice vuota [il mondo-palcoscenico].

La mancanza di cui ragiona Carmelo Bene è l’inconsistenza ontologica dell’essere, cioè degli enti anche umani, i non-ancora-morti (Heidegger li chiamava i mortali in maniera pregnante, cioè in opposizione ai divini e in relazione tetradica con la Terra e il Cielo): tutto è simulacro, cose e persone, dell’unico Reale, l’Essere. In quanto inattingibile il Reale è impossibile, puntiforme e mai disponibile : sempre trascendente.
La trascendenza del reale è religiosa.
È stato Heidegger in SuZ a mettere in luce come la metafisica occidentale, quindi il pensiero tout court, si fondi sulla dimensione temporale e ontologica della presenza. L’Occidente pensa in termini di presenza (per una coscienza). Come diceva già Sant’Agostino: il tempo è (il) presente. Per noi Occidentali il presente appare aproblematico : è “il dato” su cui si orienta il senso comune non meno della scienza (Heidegger parla di “semplice-presenza”).
L’assenza viene pensata come derivata: è mancanza, sottrazione di presenza. L’origine è presenza : tra gli attributi canonici di Dio c’è innanzitutto l’ens, cioè l’esistenza realissima garanzia di ogni altra esistenza. Anche dopo la filosofica morte di Dio, proclamata da Hegel e Nietzsche, l’Occidente continua a pensare l’essere nei termini della presenza.
Ma se si riattualizza la questione del senso dell’essere, che non è l’essere degli enti, categoria più generale di tutte, ma qualcosa di arcioriginario di cui si è obliato il senso, la presenza risulta problematica e derivata.
Per Carmelo Bene, uomo del teatro dotato di straordinaria acudeza metafisica, è originaria l’Assenza, il disessere, e l’attore è il luogo metafisico nel quale l’assenza si manifesta in alcuni dei suoi molteplici (infiniti) aspetti.
Se Antonin Artaud ha teorizzato il superamento della metafisica occidentale fondata sul predominio della presenza attraverso il Teatro della crudeltà, Carmelo Bene ha praticato tale superamento. Lo ha incarnato nel suo corpo intenso-macchina attoriale.


Il teatro e la sua critica sottrattiva.
Il teatro metafisico di Carmelo Bene è un teatro critico. La “critica” di Carmelo Bene è di tipo immanente : Carmelo Bene ha in uggia ogni critica ‘esteriore’ al suo oggetto, dato che la mancanza di cui soffre l’essere (lacanianamente manque-à-être) e quindi anche il teatro, non permette certo di fingere che il teatro sia qualcosa di oggettivabile, magari un’istituzione o un genere artistico, qualcosa insomma di solamente empirico. Per criticare il teatro occorre fare teatro, essere nel teatro, e in un certo senso per Carmelo Bene tutto è già sempre nient’altro che teatro («E il non-morto è difatti prostrato ai piedi d’una immensa cornice vuota»).
Il teatro critico, di Carmelo Bene consiste in un rigoroso metodo sottrattivo (Carmelo Bene 39). Carmelo Bene amputa la pièce originaria di uno dei suoi elementi : un Amleto di meno è il titolo dato da Laforgue al suo Amleto e Carmelo Bene segue questa strada della variazione sottrattiva. Ex : in Romeo e Giulietta Carmelo Bene neutralizza Romeo, lo mette tra parentesi, il che produce lo sviluppo del personaggio di Mercuzio, che in Shakespeare era una mera virtualità.
Attraverso questo doppio fenomeno sottrattivo/attualizzante, si costituisce sulla scena un personaggio. Il teatro critico di Carmelo Bene è un teatro costituente, la Critica è una costituzione (D 88), cioè ha una potere di creare ontologicamente (l’idea della creazione ontologica molteplice schizoide e istantanea è tipicamente deleuziana e si ritrova esasperata nella metafisica politica di Toni Negri).
L’uomo del teatro (Derrida) non è più autore né attore o regista. È un operatore (in senso affine a quello matematico : simbolo, elemento che produce trasformazione su un insieme di simboli entro un dato sistema sintattico-semantico). Questa operazione è la sottrazione doppiata dal movimento d’insorgenza di un elemento nuovo (il costituirsi dei nuovi personaggi). Doppio movimento, divenire, variazione.
Per Deleuze dunque, il teatro di Carmelo Bene mette in scena istanze extra-teatrali, ontologiche.
Lo scopo di questa “opera di levare” è sottrarre letteratura, sottrarre testo.
Deleuze (p.103) Il testo va amputato perché è la dominazione della lingua sulla parola. La lettera morta del testo testimonia l’invarianza, l’omogeneità, cioè le caratteristiche della lingua “maggiore”, dominante, istituzionalizzata. (Già Artaud si ergeva contro il testo : cfr. Derrida p.246)
Ex : nel Riccardo III sono amputati il sistema reale e principesco. Sono conservati solo Riccardo III e le donne. Secondo Deleuze ciò produce l’apparizione in scena dell’uomo di guerra, istanza alternativa e opposta a quella dell’uomo di Stato o re. (Dumézil : Tullo Ostilio, Tarquinio il Superbo sono “cattivi re”, personaggi inquietanti, venuti “da fuori”).
La sottrazione riguarda dunque sempre e innanzitutto gli elementi del Potere, gli elementi che rappresentano un sistema di Potere. A teatro tali elementi assicurano la coerenza del soggetto trattato e la coerenza della rappresentazione sulla scena.



Il personaggio, l’attore il Soggetto.
Attore è il suo malessere (Carmelo Bene, p.21)
Nel teatro del non-rappresentabile, l’Attore è infinito. (...) È l’infinito della mancanza di sé.
Mancanza non è un temporaneo venir meno dell’essere. È l’esistenza tutta un venir meno.
Il soggetto-Attore è tale in quanto attore non è (Carmelo Bene, p.16)

Per Carmelo Bene l’attore non è un essere umano, un Dasein, una persona, una coscienza, un’esistenza : non corrisponde a nessuno dei concetti metafisici che i filosofi hanno sempre proiettato sull’individuo vivente, e che corrispondono alla metafisica della semplice-presenza.
Come il personaggio è un tutt’uno con l’insieme del dispositivo scenico, così l’attore (di) Carmelo Bene è una macchina astratta (termine deleuziano), Carmelo Bene parla di macchina attoriale, cioè il dispositivo (agencement) che fa funzionare tutte le istanze in gioco, il terreno di battaglia, il campo di immanenza, la porzione di spaziotempo attraverso cui lo spettacolo-evento può accadere "nel disgustato dolore estetico dell’artefice".
L’attore tradizionale ha un’antica complicità con i prìncipi e i re (Napoleone e Talma). Il potere del teatro non è separabile da una rappresentazione del potere nel teatro, anche se è una rappresentazione critica. Per Deleuze (D 93), Carmelo Bene cambia non solo la materia teatrale ma anche la sua forma : il teatro cessa di essere rappresentazione, e l’attore cessa di essere attore («Il non-attore è artefice per eccellenza» Carmelo Bene 51).
Altri hanno fatto un teatro non-rappresentazionale, non-spettacolare: Artaud, Bob Wilson, Grotowsky, Living Theatre... La specificità di Carmelo Bene secondo Deleuze è però la sottrazione  degli elementi stabili del Potere, la quale libera una nuova potenzialità di teatro, una forza non rappresentativa sempre in disequilibrio (D 94).
Il personaggio che, secondo Deleuze, si costituisce sulla scena di Carmelo Bene è privo di Io. La critica o decostruzione teatrale di Carmelo Bene si appunta anche sull’inconsistenza/inesistenza dell’Io, cui Carmelo Bene sostituisce il Soggetto-phoné. Un soggetto nietzscheanamente oltreumano ; lacanianamente impersonale, irreale ; deleuzianamente un divenire-soggetto, una soggettivazione, una singolarità assoluta cioè radicalmente irrappresentabile (echi francesi dell’antihegelismo di Kierkegaard).



L’ineffabile ontologico e l’esprimibile teatrale-musicistico.
Carmelo Bene 86 «esprimere e cantare quanto non si può dire»: di ciò di cui non si può parlare si deve tacere... La frase di Wittgenstein è stata spesso citata e trasformata (messa in variazione) : Derrida ha scritto che di ciò di cui non si può parlare si deve scrivere. Bencivenga : solo di ciò di cui non si può parlare non si deve tacere!
L’impresa di Carmelo Bene è dunque un’impresa oltreumana, epocale, qualcosa che richiede naturalmente un diverso paradigma di valutazione e giudizio. Il teatro di Carmelo Bene tocca la dimensione dell’indicibile, quella dimensione che non è necessariamente mistica, ma che, per esempio, la filosofia neo-positivista della prima metà del novecento ha indicato come la sfera delle proposizioni prive di senso, non-scientifiche, pertanto né vere ne false.
Tutta la ricerca di Carmelo Bene è il tentativo di esprimere l’inesprimibile. Possibile? Impossibile? Follia e delirio megalomane? Geniale impresa titanica?
I filosofi analitici direbbero naturalmente che è questione di come si utilizzano le parole. Senza dubbio in Carmelo Bene c’è l’idea che la macchina attoriale esprima realmente qualche genere di ineffabile (a leggere Wittgenstein si comprende che ve ne sono senza dubbio di più tipi, almeno due: un ineffabile ‘alto’, das Mystische, e uno ‘basso’ costituito dall’autoevidenza delle cosiddette relazioni interne logico-linguistiche, quelle che Wittgenstein chiama “grammaticali” : il fatto che non vi possano essere rosso e verde allo stesso tempo nello stesso luogo...).


Piccola bibliografia.
Antonin Artaud : Il teatro e il suo doppio, Einaudi
Carmelo Bene : La voce di Narciso ; Il Saggiatore
idem : Opere, Bompiani.
Gilles Deleuze : Sovrapposizioni, Quodlibet
idem : Mille piani, Castelvecchi-Cooper
idem : Critica e clinica, Raffaello Cortina
Jacques Derrida : La scrittura e la differenza, Einaudi
Maurizio Ferraris: Introduzione a Derrida, Laterza
Martin Heidegger : Essere e tempo, Longanesi
Slavoj Žižek : Il soggetto scabroso, Raffaello Cortina