E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

mercoledì 8 ottobre 2014

Sull'amore, 1

Il loro amore finì perché volevano entrambi vivere in pace. Ma avevano concetti diversi di pace.

domenica 14 settembre 2014

Letture obbligatorie della settimana, 2

Gian Luigi Vaccarino, Introduzione a Dalla scienza all'utopia, di Claudio Napoleoni.


D. Harvey, Afterthoughts on Piketty’s Capital

D. Fusaro, Il futuro è nostro


(Per scuola)

Carlo Rovelli, Anassimandro

Hobsbawm, Il secolo breve

Alain Badiou, La Repubblica di Platone

lunedì 8 settembre 2014

Diario della presenza mentale, 8

Sembra che il mio cervello sia diventato incapace di concentrazione. Sento già i corvi: "te lo avevamo detto, è tutta colpa di Facebook, passi troppo tempo a cazzeggiare e non fai quello che devi fare".
Non è così semplice, cari amici corvi. Non è che non faccio y perché faccio x. So che y sarebbe preferibile ma faccio comunque x. Si chiama akrasìa, o debolezza della volontà e Davidson la definisce così:

Un agente agisce in modo incontinente nel compiere x se e solo se:
(a) l’agente compie x intenzionalmente;
(b) l’agente crede che ci sia un’azione alternativa a lui aperta;
(c) l’agente giudica che, tutto considerato, sarebbe meglio fare y anziché x

Presenza mentale. Ho bisogno di presenza mentale. Dicevo: "ho capito che potevo ricominciare. E ho ricominciato. Con calma. Senza pretendere. Senza sperare. Senza volere". Errore: una volta che l'idea della presenza mentale è presente, bisogna usare la volontà per praticarla. La mia volontà deve anzi lottare duramente contro l'inerzia della mente per riuscire a concentrarsi nella propria autopresenza.
So che la mia coscienza può cambiare di qualità attraverso la presenza mentale, anche se non l'ho mai sperimentata per tempi lunghi. Ormai penso di dovermelo imporre volontariamente.

Intuizione, 31

Da quando non c'è più l'Ipad mio figlio gioca per ore le battaglie dei robot spaziali volanti, come me quand'ero lui.

domenica 7 settembre 2014

Letture obbligatorie della settimana, 1

D. Dennett, L'evoluzione della libertà

E. Margulis, On repeat


(Per scuola)

Hobsbawm, Il secolo breve

Aristotele, Metafisica

N. Vassallo, Teoria della conoscenza

lunedì 1 settembre 2014

Roman nouveau, 1.1.1

Mi recai alla Normale al mattino presto e mi feci dire a che ora ci sarebbe stata la proclamazione dei vincitori, poi andai ad aspettare in un caffé vicino. Prolungai la colazione fino al momento che mi parve opportuno per avvicinarmi a quel tempio del sapere scolastico, nel quale avrei trovato la mia divinità vivente: Alain Badiou, un allievo di Althusser, uno che da giovane contestava Deleuze e parlava con Lacan!

Entrai alla Normale d Rue d'Ulm, facendomi strada tra ragazzi e ragazze eccitatissimi, dato che essere ammessi là dentro significa vedere il proprio destino pesantemente mutato. Chiesi di Badiou, e qualcuno mi disse che lo avrei trovato nel cortile. Non sapevo che faccia avesse, non l'avevo mai visto prima (sui suoi libri non c'erano fotografie), ma vidi un uomo di mezza età attorniato da ragazzi e qualche adulto e capii che si trattava di lui. Mi avvicinai e aspettai che finisse di parlare con gli astanti adoranti.

- E' lei il signor Badiou?
- Assolutamente.
Questo "assolutamente" mi parve brillantissimo (e allora non sapevo ancora che per quel filosofo un oggetto qualsiasi può essere più o meno se stesso).
- Buongiorno, io sono lo studente italiano che l'ha cercata per l'iscrizione al D.E.A. Le ho telefonato molte volte ma non l'ho mai trovata...
- Ah sì.

- Ecco, mi scusi se la disturbo oggi, qui, ma siccome devo sapere con certezza se lei acconsente alla mia iscrizione o no, sono venuto a disturbarla qui, mi scusi ma non potevo fare diversamente.
- Ma non c'è nessun problema, lei può iscriversi al D.E.A.
- Ma... sotto la sua direzione?
- Sotto la mia direzione!
Gli feci firmare il foglio che mi avevano dato a Paris8, e per tenerglielo fermo lo appoggiai sul tetto di una macchina parcheggiata nel cortile: era rovente e mi bruciai la mano ma sopportai stoicamente il dolore per non mettere a rischio la preziosissima firma.
Poi me ne andai un po' stordito. Questo semplice incontro di origine burocratica mi sembrava allora un evento quasi impensabile, qualcosa infinitamente superiore alla mia identità. Mi pareva di subire una splendida metamorfosi, come se la mia penosa persona iniziasse un processo di accrescimento glorioso. Mi sentivo circonfuso dalla luce del destino. O come si potrebbe più appropriatamente dire: mi sentivo preso in una procedura di fedeltà a quell'Evento che per me Badiou rappresentava necessariamente.
 
Per andare a Parigi e incontrare Badiou avevo chiesto ospitalità a un'amica di mio padre. Era una psicoanalista che avevo conosciuto anni prima in Italia. Quella sera, dopo avere incontrato Badiou, ero elettrizzato e durante la cena non mi trattenni dal parlarne. Raccontai che Badiou era un seguace di Lacan ma diceva di non avere mai fatto un'analisi; anzi in un suo testo si definiva "inanalizzato". Il compagno di Margaret, anche lui psicoanalista, disse che questa era una fortuna: aveva ancora la possibilità di farlo. Umorismo da strizzacervelli. Il mio leggero risentimento per quell'affermazione - di presunta superiorità dell'analizzato sul non analizzato - trovò vendetta quando Margaret si dichiarò "abbastanza lacaniana".
- Tu lacaniana? - disse il suo compagno stupito - non me lo avevi mai detto!
- Be' dai, in Francia siamo un po' tutti lacaniani., disse lei in modo poco convincente.
Andai a dormire soddisfatto, avevo seminato la giusta zizzania. Lacaniani, tzé.

Roman nouveau, 3

Il risultato di questo processo, che si avvicina sempre più al completo fallimento della lotta difensiva iniziale, è un Io straordinariamente limitato, e costretto a cercare nei sintomi i propri soddisfacimenti. (Sigmund Freud)

Che senso ha la vita di una persona? È una domanda assurda, spesso non ce la poniamo che troppo tardi, quando questa persona non c’è più, o quando quasi già non la ricordiamo. Viviamo il flusso dell'esistenza e ci barcameniamo tra gli eventi e le cose che compongono la nostra quotidianità: rifacciamo il letto, cuciniamo la pappa per il bambino, suoniamo il piano, leggiamo qualche pagina di un libro noioso, eccetera. E poi, zac, a un certo punto quando meno ce l'aspettiamo succede qualcosa. Qualcosa di terribile che ci fa cambiare prospettiva su tutto. Qualcosa che ci lascia senza fiato, distrutti, schiacciati, esausti e sporchi, dimentichi di tutto quello che prima era l’orizzonte della nostra speranza. 
La morte giunge nelle nostre vite e è sempre un uragano contro il quale nessun allarme vale. Fluttuiamo ignari in una vastità terribile. Siamo fuscelli nell’oceano, strappati da un albero di cui non ricordiamo nulla. O come dice Freud: noi non siamo padroni a casa nostra. (D'accordo, ma vorremmo almeno capire perché l'affitto è tanto caro.)

Quando mio padre è morto ho subito sentito l'esigenza di trasformare la sua morte in narrazione. A quel tempo non sapevo che è un'esigenza del nostro cervello, la narrazione.

domenica 31 agosto 2014

Intuizione, 30

Tuo figlio di cinque anni si sveglia al mattino e ti passa davanti senza rispondere al tuo saluto, stropicciandosi gli occhi per raggiungere la mamma ancora nel lettone.
Pensi a quando lui sarà grande, e tu vecchio, e non succederà più nulla del genere: un attimo di eternità pura è passato davanti ai tuoi occhi.

mercoledì 20 agosto 2014

Due frammenti da un sogno su Alessandro

"Dove terminano i pensieri comincia il mare".

"Non sono pronto per portare a termine l'impresa, ma per iniziarla".

domenica 17 agosto 2014

giovedì 14 agosto 2014

Ci deve essere in me un alieno (racconto del 1998)

Ci deve essere in me un alieno, da qualche tempo, entrato in me chissà come e chissà perché. È questa l'unica spiegazione per le stranezze che da un po' rilevo nel mio comportamento. Per esempio chi ha estratto l'aspirapolvere dall'armadio per montarne il manico al contrario? Non mi riconosco più: quand'è iniziato tutto ciò? Ho perso il conto di me stesso, e sì che tengo un diario apposta per capire le mie evoluzioni spirituali. Invece ora rileggendo il diario non mi capisco, sembra che non mi riguardi, come fosse stato scritto da un altro anche se ricordo le frasi scritte e gli eventi riferiti.
Chissà come sarà questo alieno, come nei film, verdastro e tentacolare oppure piuttosto un gentile omino azzurrognolo? E come sarà entrato in me? Per quali vie fisiche o psichiche? Alla lunga mi farà del male oppure tutto è stato calcolato da un'equipe scientifica marziana affinché io viva bene per far da corpo a lui?
È vero che oggi ho pensato un'altra cosa, senza l'alieno, cioè ho pensato che forse sono vittima di un'illusione fin dalla nascita, per cui io non sono io ma tutto il resto. "Io" sarebbe l'unica cosa che non sono realmente: un incantesimo benefico (per non farmi impazzire) mi ha illuso fin dall'origine. Sarei il mondo, e ciò che mi sono abituato a chiamare "io" non sarebbe altro che il suo contrario, il punto di irrealtà, il non-io. Ma questa spiegazione mi convince di meno. L'ipotesi dell'alieno è più feconda. Tra l'altro spiegherebbe bene perché oggi io osservassi con stupore, come per la prima volta, il viso di mia madre in mezzo al mare, mentre le davo lezioni di nuoto. Quel viso non lo avevo mai visto così, e ciò sarebbe impossibile se io fossi ancora Edoardo e non il suo replicante ultracorpo.

martedì 12 agosto 2014

Roman nouveau, Paris 8

Strana sensazione

La prima volta che misi piede a Paris 8 ebbi una sensazione mai conosciuta prima. Io che ero vissuto sempre nella provincia italiana ebbi la percezione diretta di essere parte di una minoranza etnica: era luglio e non c'erano molti studenti, ma a una prima occhiata quelli che erano lì erano tutti arabi o africani. Non mi ero mai trovato in mezzo a tanta gente con la pelle di un colore così più scuro della mia e mi sentii immediatamente fuori posto.
Cercavo la segreteria del dipartimento di filosofia e trovai una stanzetta affollata di persone che con l'ufficio non c'entravano nulla. Ancora non sapevo che quella di filosofia a Paris 8 era una "segreteria collettiva", in cui tutti i presenti rispondevano alle domande di chiunque, se sapevano farlo. Nessuna autorità, nessuna gerarchia: si potrebbe dire che il segretario fosse solo una singolarità della moltitudine. In realtà era un tipo scazzatissimo, ma questo l'ho capito più tardi.
Chiesi del segretario e mi dissero che era via, nessuno sapeva se e quando sarebbe tornato. Dato che era la mia ultima occasione per farmi firmare da Badiou le carte vidimate dalla segreteria, necessarie per poter iniziare l'anno universitario a settembre, provai l'angoscia di vedermi a un passo dalla meta e poi fregato, come per l'Erasmus con Derrida.

Vagando a caso per i corridoi qualcuno mi additò per miracolo il segretario di filosofia, che passava di lì proprio in quel momento: era un signore coi capelli rossi e un nomignolo che mi sembrava arabo e invece era berbero. Aveva un aspetto hippy: barba lunga e incolta, berretto maghrebino, parecchi anelli vistosi e soprattutto un'aria di strafottente importanza che nel corso degli anni mi diede sempre più fastidio. Mi disse che ormai erano cominciate le vacanze e che Badiou potevo trovarlo soltanto alla proclamazione dei vincitori del concorso per l'ingresso all'Ecole Normale Supérieure, in Rue d'Ulm. Decisi pertanto di andare a cercarlo lì, all'Ecole Normale Supérieure, in Rue d'Ulm. Nonostante l'angoscia di rischiare il fallimento della mia impresa, ero anche invogliato dal desiderio di vedere la mitica grande école nella quale avevano prima studiato e poi insegnato i più importanti filosofi francesi del XX secolo.

venerdì 1 agosto 2014

Gandhi sulla questione Palestinese

(M. K. Gandhi, Harijan, 26 gennaio 1938)

"Ho ricevuto numerose lettere in cui mi si chiede di esprimere il mio parere sulla controversia tra arabi ed ebrei in Palestina e sulla persecuzione degli ebrei in Germania. Non e' senza esitazione che mi arrischio a dare un giudizio su problemi tanto spinosi." 

Le mie simpatie vanno tutte agli ebrei. In Sud Africa sono stato in stretti rapporti con molti ebrei. Alcuni di questi sono divenuti miei intimi amici. Attraverso questi amici ho appreso molte cose sulla multisecolare persecuzione di cui gli ebrei sono stati oggetto.[.......]. Ma la simpatia che nutro per gli ebrei non mi chiude gli occhi alla giustizia. La rivendicazione degli ebrei di un territorio nazionale non mi pare giusta. A sostegno di tale rivendicazione viene invocata la Bibbia e la tenacia con cui gli ebrei hanno sempre agognato il ritorno in Palestina. Perche', come gli altri popoli della terra, gli ebrei non dovrebbero fare la loro patria del Paese dove sono nati e dove si guadagnano da vivere?
La Palestina appartiene agli arabi come l'Inghilterra appartiene agli inglesi e la Francia appartiene ai francesi. È ingiusto e disumano imporre agli arabi la presenza degli ebrei. Cio' che sta avvenendo oggi in Palestina non puo' esser giustificato da nessun principio morale. I mandati non hanno alcun valore, tranne quello conferito loro dall'ultima guerra. Sarebbe chiaramente un crimine contro l'umanita' costringere gli orgogliosi arabi a restituire in parte o interamente la Palestina agli ebrei come loro territorio nazionale. La cosa corretta e' di pretendere un trattamento giusto per gli ebrei, dovunque siano nati o si trovino. Gli ebrei nati in Francia sono francesi esattamente come sono francesi i cristiani nati in Francia. Se gli ebrei sostengono di non avere altra patria che la Palestina, sono disposti ad essere cacciati dalle altre parti del mondo in cui risiedono? Oppure vogliono una doppia patria in cui stabilirsi a loro piacimento?
[...]
Sono convinto che gli ebrei stanno agendo ingiustamente. La Palestina biblica non e' un'entita' geografica. Essa deve trovarsi nei loro cuori. Ma messo anche che essi considerino la terra di Palestina come loro patria, e' ingiusto entrare in essa facendosi scudo dei fucili . Un'azione religiosa non puo' essere compiuta con l'aiuto delle baionette e delle bombe (oltre tutto altrui). Gli ebrei possono stabilirsi in Palestina soltanto col consenso degli arabi.
[...]
Non intendo difendere gli eccessi commessi dagli arabi. Vorrei che essi avessero scelto il metodo della nonviolenza per resistere contro quella che giustamente considerano un'aggressione del loro Paese. Ma in base ai canoni universalmente accettati del giusto e dell'ingiusto, non puo' essere detto niente contro la resistenza degli arabi di fronte alle preponderanti forze avversarie."


http://www.peacelink.it/editoriale/a/7690.html

lunedì 26 maggio 2014

Guarda che Renzi non è De Gasperi

Tutto sommato a qualcuno della mia famiglia queste elezioni avrebbero fatto piacere: mio nonno, maresciallo dei carabinieri, si è sempre detto "democristiano di sinistra". Moroteo, fece in tempo a votare Prodi.
Litigavamo sulla difesa del territorio nazionale minacciato da Tito, sui gas in Africa.
Non ho mai saputo che cosa abbia fatto durante la guerra di Etiopia, e dopo avere letto Point Lenana temo il peggio.
Durante la econda guerra guidava i sidecar effettuando le comunicazioni. Fu catturato, diceva lui, tre giorni prima di El Alamein. Ho sempre sospettato che si fosse consegnato al nemico.
Ecco, LUI, Antonio My, sarebbe contento del trionfo stratosferico di Matteo Renzi.
Cazzo, nonno, non andiamo mai d'accordo.

mercoledì 21 maggio 2014

La piega heideggeriana

Dice che ci sono due Heidegger. Vero: il primo H è il possente filosofo, il secondo è l'ominicchio che si crede grande aderendo al nazismo.
Tra SuZ e il "secondo H" c'è continuità perfetta: il nazismo è inscritto nella temporalità autentica del Dasein, che non ammette nessun divenire-rivoluzionario.
La svolta non è temporale: è una piega meta-fisica, la separazione o il chiasma tra il visibile e l'invisibile, il punto in cui si toccano la grande narrazione dell'oblio dell'(Essere) e la piccola narrazione del rettore nazista e antisemita, sposato con una donna cretina e ignorante.

Roman nouveau, Ω

Sono tornato in Italia perché c'era il concorso per l'insegnamento. L'ho vinto a settembre e a gennaio ho iniziato a insegnare. Dopo un anno in provincia di Cuneo ho scelto di venire a Torino, dove sono nato. Del resto la metà dei miei amici a Parigi era torinese. Parigi ospita una grande colonia italiana e un torinese benestante possiede almeno un appartamento a Parigi. Talvolta due.
A Parigi avevo conosciuto parecchi torinesi benestanti di sinistra. Erano benestanti perché abitavano a Parigi, ed erano di sinistra perché le mie frequentazioni mi portavano naturalmente lì. E poi la borghesia torinese è prevalentemente di sinistra, perché Torino era la città del PCI della FIAT. Di tutti i torinesi che ho conosciuto a Parigi, quelli che sono rimasti lì sono i più benestanti, come la mia amica Alfonsina. Mortacci, sono contento per loro. Io invece sono tornato in Italia.

Ho 42 anni, ma dal punto di vista della conoscenza filosofica gli anni sono circa 21. Nel senso: se a 21 anni avessi saputo ciò che so adesso, e avessi pensato come penso adesso, forse avrei potuto essere considerato "bravo".
Insegno al liceo, filosofia e storia. La storia la insegno solo perché sono obbligato, e la filosofia non riesco ancora a insegnarla come vorrei.

domenica 20 aprile 2014

Vecchia bozza incompleta di una risposta alle sciocchezze di Massimo Recalcati sulla scuola

L'assurdo articolo di MR è qui: quando una collega lo fece leggere a scuola, all'inizio del collegio docenti, provai sgomento e rabbia. Com'era possibile che i miei colleghi si lasciassero abbindolare da simili sciocchezze disinformate e confuse?
Iniziai a scrivere questa risposta, mai terminata. Anche perché a un certo punto pensai: ma perché diavolo devo spendere tempo prezioso per far notare che costui dice stupidaggini? Chi non lo capisce da sé non presterà evidentemente nessun ascolto alle critiche.



"Auguro loro di saper ritrovare passione nello spiegare una poesia di Ungaretti, le leggi della termodinamica, la deriva dei continenti, una lingua nuova, la bellezza formale di una operazione di matematica o di un teorema di geometria. Auguro che la loro parola riesca a tenere vivi gli oggetti del sapere generando quel trasporto amoroso ed erotico verso la cultura che costituisce il vero antidoto per non smarrirsi nella vita."

L'augurio di MR è sicuramente gradito ma, da insegnante, non riesco a non vederne la fortissima valenza ideologica che sarà il tema di tutto ciò che dirò qui.
Il mondo della scuola non vive di solo spirito e il suo esser-così dipende in toto da due fattori: 1) le decisioni ministeriali in materia di politiche scolastiche 2) le determinazioni reali dell'attuale società. Se sul secondo fattore non si può intervenire direttamente tramite la scuola (educando e formando bisogna come minimo attendere anni per influire su un nuovo stato di cose sociale), la responsabilità del primo fattore, quello di cui si può cogliere immediatamente il nesso di causa-effetto, è integralmente politica.
Senza voler spingere l'analisi all'epoca Berlinguer (Luigi), cosa che sarebbe comunque sensata, basta limitarsi alla (contro)riforma Gelmini per individuare una causa diretta di condizioni lavorative radicalmente contrarie alla "passione" augurata agli insegnanti da MR.
Come si può chiedere "passione" (ma si può davvero CHIEDERE passione? E si può chiedere A UN LAVORATORE?) a un insegnante che si ritrova a lavorare con classi di 35 ragazzi, tra cui inevitabilmente dislessici, disgrafici, discalculici, diversabili, stranieri di recente immigrazione, persone disagiate dal punto di vista socio-economico ecc. (tutte caratteristiche recepite nella recente normativa sui BES)?
La "passione", che laicamente tradurrei come "motivazione", c'è o non c'è, e si può lavorare su questo, magari non a livello di iniziativa personale; ma anche se c'è un contesto lavorativo disfunzionale e tutt'altro che casuale bensì causato da un potere apparentemente insensibile ai bisogni essenziali dei giovani cittadini (sempre che non si voglia leggere una vera e propria volontà di rendere meno competitivo il servizio pubblico per favorire il trasferimento di risorse verso il privato: un disegno che molti ritengono evidente ma che in ogni caso sembrerebbe fallito, almeno finora).

"Sempre più si sta imponendo una scuola che il “sogno” di un recente ministro della pubblica istruzione codificava con le tre “i” (impresa, inglese, informatica), cioè una scuola fondata sul principio di prestazione."

Lasciando da parte il fatto che insistere sullo studio dell'inglese e dell'informatica è come insistere sulla necessità di alfabetizzare un qualsiasi cittadino del  mondo globalizzato, e lasciando da parte il desiderio neoliberale di una scuola connessa col mondo delle imprese (ribadito recentemente dal ministro PD del governo Letta: "lavorare prima dei 25 anni"), il principio di prestazione si è imposto tramite decisioni ministeriali, e quindi politiche: test Invalsi ecc. La responsabilità, dunque, non è evidentemente degli insegnanti bensì dei politici, e delle scelte elettorali dei cittadini. Personalmente, pur non dovendo somministrare i test, sciopero ogni anno insieme a un 1,5 di colleghi in segno di disaccordo ideologico, ma in ultima istanza non si vede perché la massa dei lavoratori della scuola debba farsi carico di contrastare simbolicamente scelte che non sembrano infastidire affatto la politica e la società (ci sono anche genitori che boicottano gli Invalsi ma sono una minoranza paragonabile a quella dei docenti scioperanti).
E qui scatta la reazione emotiva all'analisi razionale del discorso di MR: perché chiedere a noi qualcosa che dovresti chiedere a ben altri soggetti? Non voglio parafrasare Don Abbondio dicendo che la passione uno non se la può dare, ma voglio sottolineare che finché il discorso pubblico non saprà vedere da una prospettiva realistica e sistematica i soggetti coinvolti nel mondo della scuola, si potranno scrivere molti altri articoli giornalistici e libri divulgativi senza che lo stato delle cose cambi di un'unghia. Anzi, peggiorando nel frattempo a causa della dinamica innescata dalla riforma Gelmini [Nota 31/03/2015: all'epoca non si parlava ancora di Buona Scuola, ma ora possiamo dire che in confronto la riforma Gelmini non faceva che iniziare un processo che adesso viene spinto molto più in profondità. Si tratta di spezzare la scuola come comunità educativa e renderla un mercato come un altro, soggetto alla competizione e all'antagonismo tra colleghi, rigorosamente valutabili da colleghi "esperti" (sarà interessante vedere con che logiche verrano scelto questi esperti)].

"Il conformismo attuale non è più morale ma cognitivo. Il nostro tempo non concepisce più l’allievo come una vite storta, ma come un computer vuoto."

Non è qui possibile non leggere in controluce la polemica della psicoanalisi contro le scienze cognitive, polemica più che legittima se si voglia fare un discorso filosofico sulle "immagini del mondo", ma abbastanza sterile se si vuole contrapporre il "sapere" psicoanalitico, più pratico che scientifico, alle acquisizioni delle scienze cognitive e delle neuroscienze. Ma senza entrare nella questione che ci porterebbe molto molto lontano, mi sento di poter dire che la maggioranza degli insegnanti della scuola pubblica italiana NON si ispira alla metafora cognitivista della mente come computer, semplicemente perché lo studio delle scienze cognitive NON fa parte del bagaglio formativo della maggioranza dei docenti attualmente in servizio (età media 50 anni). (Inoltre, alla metafora mente-computer non crede praticamente più nessuno).
Si potrebbe peraltro obiettare che è sicuramente più presente e attiva la metafora della mente come tabula rasa, che però non è di derivazione cognitivista bensì umanistica, al punto da essere uno degli obiettivi polemici del cognitivismo (si veda il best-seller di Steven Pinker, Tabula Rasa).
Se vogliamo parlare di conformismo, parlerei piuttosto di un conformismo della rassegnazione: gli insegnanti sono rassegnati ormai ad essere considerati lavoratori di serie B, in un paese in cui vige non tanto il principio di prestazione, che da un punto di vista cognitivo può avere una sua utilità, bensì il principio della prestazione MERCIFICATA, comandata dalle esigenze del capitalismo (per altro in grave crisi strutturale).

"La sua matrice si trova nel gesto di Socrate narrato nel Simposio di Platone. Agatone, l’allievo, si siede vicino al maestro coltivando l’illusione che il suo cervello sia un contenitore dentro il quale Socrate dovrebbe versare il liquido del suo divino sapere. È l’illusione che abita ogni scolastica dell’apprendimento. Essere un recipiente passivo che il sapere del maestro può riempire sino all’orlo. Ma Socrate si nega ad Agatone. Non accontenta la sua aspirazione ad essere “riempito”. Negandosi alla domanda ingenua di Agatone – “travasa in me il tuo sapere” – Socrate cerca di mettere in movimento il suo allievo (transfert significa “trasporto”, “sentirsi trasportati”) distogliendolo dall’illusione che conoscere significa riempirsi passivamente il cervello di nozioni già esistenti e possedute da qualcuno. Il gesto di Socrate è controcorrente rispetto ad ogni idea scolastica del sapere ed è il motore di ogni forma di apprendimento autentico. Svuota il maestro di sapere affinché l’allievo si metta in movimento – si senta trasportato – verso il sapere, affinché nasca nell’allievo un desiderio autentico di sapere.
Il gesto di Socrate è innanzitutto un gesto di sottrazione; anch’io non so quello che tu non sai, non perché sono ignorante, ma perché so che è impossibile possedere tutto il sapere, perché il sapere stesso non può mai costituire un tutto. Il compito di un insegnante è quello di generare amore, transfert erotico, sul sapere più che distribuire sapere (illusione cognitivista) o mettere tra parentesi il sapere occupandosi della vita privata degli allievi (illusione psicologista) perché l’alternativa tra la vita e il sapere è sempre sterile."

Questo è il passaggio teoreticamente più confuso del testo di MR. Riguardo al personaggio di Agatone, va notato innanzitutto che non si tratta di un ragazzo bensì di un giovane uomo di spettacolo, padrone della casa nella quale si svolge il Simposio, e secondariamente che non è il maestro, Socrate, a sedersi accanto a lui per trasmettergli meccanicamente informazioni bensì è lui che si siede vicino a Socrate. La scena è rovesciata rispetto a quella immaginata da MR. Agatone è un bel giovane, come tale seducente, ed è attratto dal sapere incarnato da Socrate. Difficilmente si potrebbe sostenere che Agatone voglia imparare questa o quella informazione: piuttosto, è proprio un esempio di quell'amor di sapere che MR indica come l'obiettivo da suscitare nei discenti.


sabato 5 aprile 2014

Roman nouveau, FILOSOFI1

Deleuze è un filosofo della Differenza. Il concetto di differenza è al centro del sistema del suo intricatissimo pensiero. Deleuze pensa che la differenza sia “intensiva”, qualitativa anziché quantitativa. La Differenza diventa un concetto metafisico che non ha nulla a che vedere con il concetto logico di differenza (ma com'è possibile?) e si collega alla nietzscheana “volontà di potenza”, consistente nella valutazione di ogni ente secondo la prospettiva della sua intrinseca quantità di energia. Il concetto di Differenza va analizzato insieme a quello di molteplicità. L’identità non è più il concetto privilegiato della metafisica, così come avviene nella tradizione filosofica da Platone fino a Hegel: nella prospettiva di Deleuze ogni ente è paragonabile a una monade leibniziana che anziché rapportarsi all’essere secondo le modalità della rappresentazione “sintetizza” una quota di intensità o energia (da intendersi metaforicamente, senza riferimento alla fisica) e questa energia è una molteplicità di possibilità. L’elemento qualitativo è particolarmente presente nell’opposizione, di provenienza nietzscheana, tra le “forze forti” e le “forze deboli”. Contro la lettura volgare del pensiero gerarchico di Nietzsche, Deleuze fa valere una ben diversa lettura: poiché il prospettivismo nietzscheano annulla il concetto di sostanza pensante, soggetto cartesiano, individuo, anche la realtà umana, come quella naturale, risulta leggibile come campo di forze metafisiche che si affrontano perennemente (visione tragica dell’essere, eraclitea). Una forza è “forte” quando esprime appieno la propria essenza, la propria potenzialità; è “debole” quando non giunge a realizzare appieno la propria natura potenziale.

domenica 23 marzo 2014

Roman nouveau, 2.1

Di fini d'agosto a Parigi ne ho viste tante perciò mi pare comprensibile che io le confonda le une con le altre. Quella del mio primo anno a Parigi però la ricordo piuttosto bene.
Appena arrivato nella metropoli iniziai a cercare casa insieme a  Yves, uno studente di filosofia con cui avevo fatto grande amicizia a Strasburgo durante l'Erasmus. C'erano le Giornate Mondiali della Gioventù, che erano un raduno giovanile di massa voluto dal papa polacco. Le strade di Parigi formicolavano di scout. Nella metropolitana non c'era spazio per procedere sulla banchina e spesso bisognava saltare sui rialzi per non essere urtati, ti aggrappavi per non cadere: c'erano giovani cattolici dappertutto con il loro strascico di immondizie. Sembrava un'invasione, era un'invasione, io la percepivo come tale. Yves era più contrariato di me: lui era cresciuto in una specie di comune hippy e odiava i cattolici (in effetti odiava anche gli hippy.
Il primo impatto con la città non era dunque quello che mi ero figurato. Mi sforzavo di visualizzare l'infinito che finalmente mi si apriva davanti. Scout a parte, ero arrivato nella città dei miei sogni.

La ricerca di appartamento a Parigi, per uno studente straniero non ricco è cosa difficile e disgustosa: il fatto che fossi in compagnia di un francese rendeva le cose un po' più più facili, ma subivamo il trattamento riservato a tutti gli studenti. Gli appuntamenti per la visita dell'appartamento erano organizzati tramite annunci su giornaletto settimanale. In base all'ordine di arrivo si formava una coda disciplinata, ma la maggior parte dei postulanti non riusciva nemmeno a vedere l'appartamento. Di solito veniva scelto uno studente tra i primi della coda, purché avesse le carte in regola. Se riuscivi a vederlo non potevi concederti il lusso di dire "ci penso un attimo": o firmavi o perdevi l'occasione. In questo modo, dopo parecchie tentate visite, uno si riduceva nello stato d'animo di prendere la prima cosa possibile.
Uno straniero da solo avrebbe trovato più penosa la selezione subita: l'anno successivo - abbandonai Yves perché la notte tornava spesso a casa ubriaco e poi diffondeva musica rap a tutto volume - visitai decine di appartamenti schifosi e costosissimi, stanzette della servitù (chambre de bonnes, le chiamano) ricavate tra un appartamento borghese e l'altro: nove metri quadrati con muri sottilissimi che ti fanno peneterare nell'intimità della famiglia accanto.
Ciononostante trovarne una in affitto era difficilissimo. Mentre mi rifiutava, un proprietario mi piagnucolò  che dovevo capire, non ce l'aveva con gli stranieri ma una volta un caraibico lo aveva fregato, era partito senza pagare e i tribunali non avevano fatto nulla per riparare al torto: non ce l'aveva con me ma non ero francese e non poteva rischiare di nuovo. "La capisco, mi dispiace", dissi consolandolo.
Ma il primo anno a Parigi avevo al mio fianco Yves. Era la persona meno accomodante del mondo. Gli facevano schifo i padroni e non gliene fregava un cazzo di trovare un appartamento decente: purché ci dessero qualcosa in fretta e ad un prezzo accettabile. Accettabile, a Parigi significa: carissimo.