E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

sabato 22 dicembre 2018

Nuovi incredibili progetti per il 2019

1) Terminare Filosofia del papà (e farlo leggere a Fofi)

2) Terminare Roman nouveau

3) La rilevanza poetica

4) Dottorato in filosofia della mente al San Raffaele

5) Libro misterioso con Alfonso Maria Petrosino e Andrea Bozzo

lunedì 26 novembre 2018

Ludwig van Beethoven, An die ferne Geliebte (All'amata lontana), op. 98

  1. Auf dem Hügel sitz' ich spähend (Siedo sul colle, scrutando) - Ziemlich langsam und mit Ausdruck (mi bemolle maggiore)

Auf dem Hügel sitz ich spähend
In das blaue Nebelland,
Nach den fernen Triften sehend,
Wo ich dich, Geliebte, fand.

Weit bin ich von dir geschieden,
Trennend liegen Berg und Tal
Zwischen uns und unserm Frieden,
Unserm Glück und unsrer Qual.

Ach, den Blick kannst du nicht sehen,
Der zu dir so glühend eilt,
Und die Seufzer, sie verwehen
In dem Räume, der uns teilt.

Will denn nichts mehr zu dir dringen,
Nichts der Liebe Bote sein?
Singen will ich, Lieder singen,
Die dir klagen meine Pein!

Denn vor Liebesklang entweichet
Jeder Raum und jede Zeit,
Und ein liebend Herz erreichet,
Was ein liebend Herz geweiht!



(https://www.flaminioonline.it/Guide/Beethoven/Beethoven-Geliebte.html)

Siedo sul colle, scrutando
l'azzurra distesa nebbiosa
per scorgere il lontano sentiero
dove, o mia diletta, t'incontrai.

Sono lontano da te,
monti e valli ci separano,
ergendosi fra noi e la nostra tranquillità,
tra la felicità e il nostro martirio.

Ah, non puoi raccogliere lo sguardo
che si spinge infuocato verso di te,
e il sospiro: essi si disperdono
nello spazio che ci divide.

Non giungerà più nulla fino a te,
più nulla che sia messaggero d'amore?
Voglio innalzare canti d'amore
che ti confidino la mia pena!

Poiché di fronte al canto d'amore
svaniscono lo spazio e il tempo
e ciò che un cuore amante consacra
raggiunge un altro cuore amante!

martedì 6 novembre 2018

They might be giants, I comunisti hanno la musica (TRADUZIONE AUTOMATICA)

Sono stato consegnato al sandwich di Ayn Rand
Direttamente dalla lattina, aveva un sapore così insipido
Ho molto da passare per un bicchiere
Delle condizioni della classe lavoratrice di Engels
Subito mi hanno trascinato al comitato
Per spiegare la mia attività non americana
Vedranno che hanno fatto un errore
Se mi lasciassero solo suonare il mio mixtape
Non sono parziale alla marziale
O i plutocrati, con i loro cappelli di castoro
E i fascisti hanno gli abiti
Ma non mi interessa per gli abiti
Ciò che mi interessa è la musica
E i comunisti hanno la musica
Sento una melodia
E altrettanto improvvisamente
So chi dovrei essere
Non ho bisogno di un razionale
Per cantare "The International"
Ho solo bisogno di collegare il jack per le cuffie
Quindi posso ascoltare la mia base musicale
Non sono geloso dello zelante
O anarchici con plettri per chitarra
E i fascisti hanno i loro abiti
Ma non mi interessa per gli abiti
Ciò che mi interessa è la musica
E i comunisti hanno la musica
Sì, i comunisti hanno la musica
Oh, i comunisti hanno la musica
Sento una melodia
E altrettanto improvvisamente
So chi dovrei essere
Non sono parziale alla marziale
O i plutocrati, con i loro cappelli di castoro
E i fascisti hanno gli abiti
Ma non mi interessa per gli abiti
Ciò che mi interessa è la musica
E i comunisti hanno la musica
Sì, i comunisti hanno la musica
Oh, i comunisti hanno la musica

Alienazione-semiosi interrotta (Intuizione 50)

Alienazione = interruzione violenta della semiosi.

martedì 16 ottobre 2018

Il modello brutto di Antibes

Ad Antibes un amico pittore mi invita a una serata di nudo. L'organizzatore è un artista cinese.
L'amico mi dice che non potrei partecipare perché non disegno, ma in quanto filosofo si può fare un'eccezione. Del resto è lui che mi ha invitato e l'idea mi incuriosisce.
Il tipo inizia con una posizione difficilissima tipo giocatore di rugby maori accucciato prima di cominciare. Resiste circa 2 minuti poi cambia posizione.
Tra i disegnatori ci sono due donne, più la barista. La barista è abbastanza bella, all'inizio avevo pensato che fosse lei la modella, dato che siamo arrivati per primi abbiamo parlato un po' con lei e io mi domandavo come potesse non sentirsi imbarazzata a spogliarsi dopo averci serviti.
In Francia non so mai come vanno le cose.

Il cinese si avvicina al modello e indica alcuni punti della sua mano parlando a una sua allieva: il bianco tra le nocche, mi pare che dica, perché parla in francese, non in cinese ma comunque non sono sicurissimo di quello che dice, è evidente: sull'altra mano invece no.

Mi ritrovo in mezzo a persone che evidentemente vedono il mondo molto meglio di me.

Ci sono cinque donne, esclusa la barista: due anziane e tre ragazze. Il modello è proprio brutto. Se fosse stato un bell'uomo, le donne guardandolo avrebbero provato qualcosa di simile a quello che avrei provato io se avessi avuto davanti a me una bella modella nuda? Ne dubito. Le donne sono diverse, si sa, non che non gli piaccia la bellezza maschile, ovviamente, ma deve piacer loro in modo diverso.

Adesso il modello si è girato di culo si appoggia al muro e tiene la mano sinistra sul fianco destro. Molto plastico, nel complesso, questo signor modello, mi rendo conto che è quello il lavoro che devi fare se fai il modello.
Adesso anche la barista si è messa a disegnare il modello.

Il mio amico va di acquerello, dopo aver disegnato la figura intinge il pennello piatto nell'acqua e nel colore e poi applica il colore al disegno.

E' arrivata una settima donna, giovane. Gli uomini sono 6. Chissà se ci sarebbero state meno donne se la modella fosse stata una donna?
La barista è vestita di verde.
Il cinese dirige la sessione decretando la fine del tempo utile per disegnare.
Una musica lagnosa falsamente etnica accompagna la sessione. Si ode un piano, un violoncello un contrabbasso e una voce senza parole che intona un canto abbastanza schifoso.
Ehi, siamo ad Antibes, ragazzi, forza, fatemi vedere qualcosa di più.
Si sente il ticchettio dei tasti del mio computer. Alla fine in un certo senso partecipo anch'io alla sessione, scrivendo all'impronta. Improvviso. Come chi disegna. Disegnare dal vero vuol dire improvvisare. Puoi correggere entro margini ristrettissimi. Così anch'io non correggerò molto questo testo.
Il mio amico si è scusato alcune volte ridendo: la modella dell'altra volta era una fica spaziale, sono stato proprio sfortunato, mi dice, ridendo.
Comunque il brutto modello ha un bel culo. Bello forse non è la parola giusta, diciamo che penso che il mio culo sia meno tondo del suo. Per il resto, ha meno capelli di me. Cioè li porta lunghi sui lati ma in mezzo è calvissimo, ha una striscia di capelli in meno. Evoca per assenza l'idea del parrucchino. Dovrebbe mettersi un parrucchino. Anzi forse di giorno si mette il parrucchino. Sarà gay? Se fossi una donna non lo troverei per nulla attraente. Anche se con le donne non si sa mai. Sto modello avrà circa cinquant'anni.
Alla nuova posizione il cinese assegna sette minuti. La musica di sottofondo continua noiosa, violoncello lamentoso, vaghe reminiscenze di musica ebraica.
La sala è addobbata come per un natale al neon: ci sono alberelli bianchi artificiali ai cui rami sono appese delle lucine bianche. Poi stelline di natale che si muovono a intermittenza. I lampadari pendono dal soffitto come grossi batuffoli di piume finte, bianche. Ci sono anche tre pale ventilatrici, immobili.
La lagna musicale continua, adesso arabeggia un po'. Ad Antibes diciamo che per gusto musicale non mi pare provino vergogna.
Le tette della barista non sono niente male, ma lei è vestita.
Il cinese è anzianotto, i suoi capelli però sono bruni bruni.
Adesso la musica è un brano che conosco, storpiato in modo new age, devo solo identificarlo. Lago dei cigni. Terrific.
Il mio amico mi dice che il corpo maschile è bruttissimo da disegnare. In particolare questo, dico io. Si domanda come facciano le donne presenti a disegnare il pene di questo tizio. Io penso: oh, ma non siete artisti? Dovete pur confrontarvi col bello e col brutto, no?
La musica adesso è una storpiatura rock dell'Adagio di Albinoni.
Il modello tende un arco immaginario e guarda per aria. Da bambino doveva essere bravissimo a giocare a un due tre stella.
Adesso mi sta venendo sonno. Se ci fosse stata una bella donna nuda forse non mi sarebbe venuto sonno. Sto sbadigliando, non va bene, non dovrei far notare che mi annoio così tanto. Forse potrei mettermi a scrivere il mio paper su musica ed emozioni. Non ho molta voglia, dovevo venire a divertirmi, cacchio, ad Antibes. Sono sfigato o è un segno di un più vasto destino di obiettivi mancati?
Su una mensola ci sono libretti di cucina: I love muffins, Cheescake, Crumbles ecc.
Potrei provare a disegnare anch'io.
Mi metto a correggere un paragrafo del mio romanzo, poi mi viene in mente un paragrafo che non ho ancora scritto e lo scrivo. Quando guardo di nuovo la sala sembra tutto uguale, tranne il fatto che la musica è leggermente migliorata. La melodia storipiata adesso mi ricorda qualcosa che potrebbe essere una danza ungherese di Brahms, ma con percussioni africane e flauti turchi.
Ora il tipo sta piegato sulle ginocchia, deve fare parecchio yoga o pilates o non potrebbe permettersi simili prodezze. Mi domando che succederebbe se gli scappasse una flatulenza.
Tutti i disegnatori maschi, tranne l'organizzatore cinese, sembrano sconfortati di non avere una bella fica davanti a loro.
Aria sulla quarta corda, non poteva mancare.
Questa è la penultima posizione del racchione. Sono contento, anche se non è che mi sentissi a disagio. Ho scritto per tutto il tempo questo resoconto e il mio romanzo. Il mio amico ha detto che in una situazione come questa si smette di pensare tutti insieme e accade qualcosa di prodigioso. Neuroni specchio, penso io. Effettivamente è l'effetto biblioteca: se gli altri leggono leggi pure tu.
...

venerdì 31 agosto 2018

Deleuze e l'alcol (Roman nouveau, 23 bis)

Gilles Deleuze è stato un gran bevitore fino al 1967. Non è dunque strano che abbia filosofato anche sull'alcol e l'alcolismo. Tre sono i luoghi testuali a me noti, ossia un passo di Logica del senso (1967: l'anno del divenire-sobrio), uno di Mille piani (1980: dopo l'incontro con Guattari), e la lettera B dell'Abecedario (videointervistato da Claire Parnet nel 1988, con la clausola che le registrazioni venissero diffuse solo dopo la morte di Deleuze). 
Nell'Abecedario1, Deleuze sostiene che bere sia una questione di quantità, cioè l'alcolismo avrebbe una sorta di intrinseca logica quantitativa legata a una bevanda particolare: ciascun bevitore sperimenta la quantità relativamente a quella bevanda (se bevo birra mi regolo su quanta ne sto bevendo, se bevo whisky il calcolo sarà diverso). 
La quantità alcolica è orientata verso “l'ultimo bicchiere”: “bere significa esattamente fare di tutto per arrivare all’ultimo bicchiere (...) l’alcolizzato è quello che non (...) smette mai d’essere all’ultimo bicchiere”.

L'alcolizzato è scaltro: 

c’è una valutazione. Valuta quanto può resistere senza crollare (…) Valuta quindi l’ultimo bicchiere e tutti gli altri serviranno a raggiungere quest’ultimo. E l’ultimo cosa vuol dire? Non può sopportare di bere di più per la giornata. È l’ultimo che gli permetterà di ricominciare l’indomani. Perché se invece arriva fino all’ultimo, quello che eccede il suo potere, è l’ultimo in suo potere. Se supera l’ultimo in suo potere, allora crolla. È fottuto, finisce in ospedale, oppure deve cambiare abitudini, deve cambiare concatenamento. Così quando dice l’ultimo bicchiere, si tratta in realtà di quello precedente. È alla ricerca del penultimo in realtà. Non cerca l’ultimo ma il penultimo. Il penultimo è l’ultimo prima di ricominciare il giorno dopo. Dunque, per me l’alcolizzato è quello che non smette mai di dire: “dai”, è quanto si sente nei caffè, sono così allegre le compagnie di alcolizzati, non ci si stanca mai di ascoltarli. È quello che dice sempre: “dai è l’ultimo” e l’ultimo varia per ognuno. E l’ultimo è il penultimo.

Nonostante questo apparente elogio dell'alcolizzato, Deleuze dice anche che bere è “pericoloso”: 

va bene bere, drogarsi, si può fare tutto ciò che si vuole se non impedisce di lavorare. Si tratta di un eccitante. È normale offrire qualcosa del proprio corpo in sacrificio. C’è tutto un aspetto sacrificale in questa disposizione al bere, alla droga. Si offre il proprio corpo in sacrificio per qualche motivo, forse perché c’è qualcosa di troppo forte che non si può sopportare senza alcol. (...) Si ritiene quasi che bere, drogarsi… renda possibile qualcosa di troppo forte, anche se c’è un prezzo da pagare, ma in ogni caso è legato a lavorare, lavorare. E poi quando tutto si rovescia, quando bere impedisce di lavorare, quando la droga diventa un modo di non lavorare, è il pericolo assoluto, perde di qualsiasi interesse. E ci si accorge sempre di più che si credeva la droga necessaria, e invece non lo è affatto. Forse bisogna esserci passati per accorgersi che tutto quello che si credeva di poter fare grazie all’alcol o alla droga, si poteva fare anche senza. 

Fare senza alcol, io l'ho provato solo dopo la morte di mio padre, quando per qualche tempo sono stato completamente sobrio. Ma è durato poco. Mio padre invece non è riuscito a fermarsi in tempo, non ci ha proprio provato, e per lui non era legato al lavoro, era solo un modo per stordirsi, combattere la depressione e la solitudine, e morire il più in fretta possibile senza veramente deciderlo. 
No, dico il falso: in effetti anche per lui bere era legato al lavoro, o meglio al non lavoro. In effetti negli ultimi mesi papà lavorava a casa, si era messo in proprio e aveva tirato fuori il suo vecchio tecnigrafo. Si era messo in proprio nel senso che si era licenziato dall'ultimo datore di lavoro (un'azienda in trentino, dove era anche andato ad abitare, nel mio ultimo anno di liceo) e poi era andato in pensione: aveva racimolato decine di milioni di contributi non versati per poter andare in pensione. Milioni che ovviamente sono stati bruciati nel nulla con la sua morte, avvenuta neanche due mesi dopo l'inizio della pensione. 

In Logica del senso, Deleuze aveva già proposto una piccola teoria filosofica dell’effetto dell’alcol sulla mente. “L’alcolismo non appare come la ricerca di un piacere, bensì di un effetto”, esordisce Gilles2 suscitando subito il mio assenso. A quale beone verrebbe mai in mente di sostenere che bere sia piacevole? Chi beve cerca evidentemente l'ebbrezza. 
Subito dopo però la teoria diventa astrusa: 

Tale effetto consiste principalmente in ciò: uno straordinario indurimento del presente. Si vive in due tempi contemporaneamente, si vivono due momenti contemporaneamente (...). L'altro momento può rinviare a progetti come pure a ricordi della vita sobria; nondimeno esiste in tutt’altro modo, profondamente modificato, colto in questo presente indurito che lo circonda, come un tenero bocciolo in una carne indurita. In questo centro molle dell’altro momento l’alcolizzato può dunque identificarsi con gli oggetti del suo amore, (...) mentre la durezza vissuta e voluta del momento presente gli permette di mantenere a distanza la realtà. 

Uhm... Questa idea della temporalità doppia complica tutto, perché non è chiaro che cosa significhi, se non che nel presente ricordiamo il passato: l'alcolista lo farebbe in tutt'altro modo, poiché l'alcol gli indurisce l'esperienza presente? Questo indurimento consisterebbe nel mantenere a distanza la realtà, il che sarebbe l'effetto vero e proprio dell'alcol? Il presente indurito però, circonda un nucleo molle, che è la dimensione dei sogni, rimpianti, desideri ecc.: sembra dunque che l'indurimento del presente sia una sorta di corazza che protegge questo frutto centrale di libertà immaginaria. 

Questo è un punto interessante: in effetti da ubriaco io leggevo e fantasticavo, inventavo connessioni tra concetti, immaginavo orizzonti discorsivi e teorici che normalmente non mi apparivano alla coscienza... 

Ma quale strana tensione quasi insopportabile, questa stretta, questo modo in cui il presente circonda e investe, racchiude l’altro momento. Il presente si è fatto cerchio di cristallo o di granito, attorno al centro molle, lava, vetro liquido o pastoso. 

Ma Deleuze rinviene poi nell'effetto alcolico un'articolazione ulteriore, sopraggiunge un secondo effetto, o un “effetto dell'effetto”: 

Nondimeno, questa tensione si snoda a profitto di altro ancora. Infatti, è proprio del passato prossimo diventare un “ho bevuto.” Il momento presente non è più quello dell’effetto alcolico, bensì quello dell’effetto dell’effetto. E ora l’altro momento comprende indifferentemente il passato recente (il momento in cui io bevevo), il sistema di identificazioni immaginarie celato da questo passato recente e gli elementi reali del passato sobrio più o meno allontanato. Quindi l’indurimento del presente ha completamente mutato senso; il presenta nella sua durezza è diventato senza presa e scolorito, non racchiude più nulla e parimenti mette a distanza tutti gli aspetti dell’altro momento. 
Si direbbe che il passato prossimo, ma anche il passato di identificazioni che in esso si è costituito, e infine il passato sobrio che forniva una materia tutto questo sia fuggito ad ali spiegate, tutto questo è parimenti lontano, mantenuto a distanza da una espansione generalizzata di questo presente scolorito, dalla nuova rigidità di questo nuovo presente. 
I passati prossimi del primo effetto, sono sostituiti dal solo “ho bevuto” del secondo effetto, in cui l ’ausiliare presente esprime ora soltanto la distanza infinita di ogni participio e di ogni partecipazione. 
L ’indurimento del presente (io ho) si trova ora in rapporto con un effetto di fuga del passato (bevuto). Tutto culmina in un has been. Questo effetto di fuga del passato, questa perdita dell’oggetto in tutti i sensi, costituisce l’aspetto depressivo dell’alcolismo. E tale effetto di fuga è forse ciò che fa la maggiore forza dell’opera di Fitzgerald, ciò che egli ha più profondamente espresso. 

Lo trovavo un discorso affascinante, anche se non lo capivo del tutto e sembrava applicarsi soprattutto all'alcolismo degli artisti, a differenza dell'altra teoria esposta nell'Abecedario. 
Come molte idee di Deleuze, anche queste le feci comunque mie non perché le capissi profondamente e mi sembrassero vera, ma perché io bevevo e mi faceva piacere sapere che anche Deleuze aveva bevuto e aveva pensato filosoficamente l'alcol. 

(continua...) 

1 Una traduzione italiana è disponibile sul sito di Sabina Guzzanti: <https://www.sabinaguzzanti.it/abecedario-gilles-deleueze-b-come-bevanda/
2 Deleuze (1969) , p.141.

lunedì 13 agosto 2018

Tristezza della scrittura luttuosa (Roman nouveau, 39+n)

Scrivere può generare tristezza, se l'oggetto di cui si scrive è triste. 
Ce lo si poteva aspettare fin dall'inizio: avevo accennato alla morte di mio padre fin dal primo paragrafo, era chiaro che era di quello che volevo parlare. Tuttavia si trattava per me di rielaborare testi scritti in vent'anni alternandoli con testi nuovi, e mi pareva che l'elemento rielaborativo, la fatica del significante, potesse bastare a tenere a distanza gli affetti luttuosi legati alla scomparsa di mio padre. 
Ma non è così facile, specialmente a questo punto, poiché mi rendo conto che in vent'anni non avevo mai superato lo scoglio di raccontare quello che è successo dopo il decesso di papà. È da lì che la vita è diventata strana, come se dopo le cose avessero perso senso. 
Ho riletto ieri gli appunti relativi al periodo dopo il decesso. Un ammasso di sproloqui, deliri, invettive, risoluzioni, soliloqui, dialoghi immaginari, progetti, analisi, intuizioni, baggianate clamorose. È una specie di melma sobbollente, con pensieri continuamente riciclati che sarebbe vano provare a districare tanto sono privi di interesse intellettuale e anche biografico. 
Dopo la morte di mio padre io scrivevo per alleviare la sofferenza, il che in parte funzionava, almeno fino a quando non sentii la necessità di andare dalla psicologa della Sorbona. 
Ma rimestare ora, dopo vent'anni, quella materia affettivo-linguistica mi destabilizza non poco. Poiché però ancora fatico a distaccarmi da questa specie di defecazione di significanti che mi ha accompagnato così a lungo, proverò un compromesso, scegliendo alcuni dei passi più significativi di alcune tra le innumerevoli versioni digitali di ciò che avevo scritto sotto diversi titoli, come Romanpapà, o Voi non sapete che cos'è la morte, di chiara ispirazione carveriana. 


domenica 12 agosto 2018

Stawac (Roman nouveau, 39)

Quella notte dormii a casa della zia Pierina e dello zio Luigi. Immaginatevi di passare la notte nell’attesa che vostro padre muoia: immaginatevi però di non essere a casa vostra ma in una lugubre casa di vecchi zii, dove non c’è un letto e nemmeno un divano. Pertanto dovete arrangiare un paio di poltrone l’una contro l’altra per ricavare uno spazietto nel quale rannicchiarvi coi piedi che sporgono. Ecco, oltre al danno sembra che si aggiunga una schifosa beffa perché dormire almeno un po’ su un letto degno di questo nome parrebbe il minimo per prepararsi a ricevere la notizia più brutta. 

Il telefono squillò verso le quattro del mattino: sentii la zia rispondere a monosillabi con la voce di un vecchio uccellino e chiudere ringraziando il dottore con un sussiego che mi rivoltò lo stomaco. Mio padre era già morto da circa un’ora.

Quando hai la cirrosi (Roman nouveau, 32 bis)

Comunque quando hai la cirrosi il tuo fegato si ricopre di ricciolini di malattia che deformano il fegato e si propagano agli organi circostanti. Ma questo solo nella fase ultima, che è gravissima. Se no, se lo puoi fare, ti trapianti il fegato.
Mio padre aveva il diabete ed era quindi impossibile trapiantargli il fegato e secondo un mio amico medico sarebbe forse morto sotto i ferri a causa della complicazione di dovere distaccare i ricciolini, i cirri, dal fegato da buttare e dagli organi adiacenti, che invece vanno lasciati dentro perché tutto non si può trapiantare.
Secondo me il mio amico medico mi aveva detto così anche un po’ per calmarmi, per non farmi pensare che forse c’era una possibilità di salvare mio padre.


Accelerare il tempo scrivendo (Intuizione, 48)

Dopo anni di famigliarità con la lettoscrittura ho improvvisamente scoperto un modo per accelerare l'esperienza del tempo: concentrarsi scrivendo, lasciarsi trasportare dal flusso del da-scrivere.
Come sempre, quando si parla di analisi dell'esperienza temporale, sembra che si possano invertire accelerazione/rallentamento (cfr. la discussione pertinente in La montagna incantata): mentre scrivi hai l'impressione che il tempo acceleri, ma ti sembra anche di occuparlo senza contarlo (cfr. Boulez/Deleuze: spazi e tempi lisci/striati).
Quindi accelera o rallenta? Sembra rallentare considerando la quantità di azioni che svolgi al suo interno, ma l'esperienza soggettiva è di velocità: quando interrompi la scrittura credi che sia passato più tempo di quello che è efettivamente passato.

Ho l'impressione che nella lettura accada il contario: mentre leggi hai l'impressione che il tempo rallenti (invece trascorre).

Ovviamente, tutto questo potrebbe essere ampiamente soggettivo: per un primo riscontro in letteratura, verificare in: 

giovedì 26 luglio 2018

Post scriptum (Roman nouveau, Omega)

Un giorno d'inverno portai una minuscola statuetta di Buddha sulla tomba di mio padre. Era il mio periodo buddhista, avevo l'ispirazione per fare un gesto privo di significato e tuttavia facilmente leggibile all'interno di una tradizione umana di culto dei morti.
La prima statuina che volevo portare a mio padre l'avevo regalata al bellissimo figlioletto del mio amico Max: eravamo in montagna per una riunione tra ex compagni di università, Viviana era incinta di Agostino. Tito aveva quattro anni e quando vide la statuina dorata che mi portavo sempre appresso, dopo che l'avevo posata sul tavolino al quale sorseggiavamo il nostro aperitivo tra vecchi amici in vacanza, la guardò con occhi incuriositi e avidissimi: “questo è Buddha”, gli dissi con benevolo tono di ammaestramento.
“Buddo!”, urlò Tito gioiosamente afferrando la statuina e impadronendosene in modo ostentato. Ebbi una piccola crisi interiore: era una statuina che adoravo, una specie di portafortuna su cui si concentravano tutte le mie quasi-credenze pseudo-buddhiste dell'epoca. Inoltre avevo già deciso di portarla sulla tomba di mio padre... E adesso quel moccioso la voleva per sé! Cercai di dominare l'angoscia furente che si stava formando da qualche parte nella mia psiche contorta: mi dissi che se Tito era attratto dal buddhino risplendente era giusto che diventasse suo, anche se privarmene mi generava un notevole disagio. Mi dissi che in fondo il buddhismo insegna proprio il distacco e mi tornò in mente il proverbio cinese che esprime il culmine dell'irrazionalità buddhista chan, poi zen: “se incontri Buddha sulla tua strada, uccidilo”. 
Provai così a uccidere Buddha in quella statuina, ma forse non vi riuscii proprio benissimo, se ora sto scrivendo di questo fatto, a dieci anni di distanza. Successivamente trovai un'altra statuina simile a quella che avevo visto scomparire nella manina di Tito: ma non era altrettanto bella e insomma portarla da mio padre mi sembrava già un po' meno significativo.
Comunque mi recai al cimitero monumentale di Torino, dove ritrovai non senza fatica (devo sempre richiedere le coordinate alla mia vecchia zia) il lotto in cui stazionavano le spoglie mortali incenerite del mio genitore, appoggiai la statuina sul loculo di papà, mi sedetti nella posizione del loto, dopo essermi ficcato dei giornali sotto il sedere per evitare il freddo del pavimento cimiteriale, e provai a fare un po' di meditazione.
Niente, non sentivo niente, non mi veniva in mente nulla che io potessi fieramente lasciar scorrere nella mia mente, non i pensieri “che saltano di ramo in ramo come le scimmie”.
Non pensando niente non potevo staccarmi da niente. Nulla aveva senso, era tutto ridicolo e inutile: stavo davanti a un pezzo di marmo contenente un po’ di polvere, e negli avelli contigui c’erano pure dei cadaveri in putrefazione.

Quando tornai dopo un anno a visitare la tomba, la statuina era scomparsa.
Siamo usciti dal nulla, siamo fatti di nulla, stiamo tornando nel nulla.

giovedì 12 luglio 2018

En attendant (Roman nouveau, 38)

Quando il dottore disse che mio padre era gravissimo piansi perché capii che rischiavo di non vederlo mai più.
Chiesi se potevo rimanere in ospedale ad assisterlo, ma mi dissero che me lo sconsigliavano anche per lo stesso ammalato, per via dei microbi o dei germi (non sapevo distinguerli) che noi portiamo da fuori nelle sale dei malati.
Forse papà l'ho ammazzato io andandomi a sedere sul suo letto coi microbi, o germi, che avevo portato dal TGV sugli abiti sporchi di viaggio? Mi sono seduto accanto a lui che era ammalato e nudo. Non ci avevo badato e nessuno mi aveva detto come comportarmi, se togliermi i vestiti o indossare un camice, né del resto sono stato rimproverato da nessuno: speravo quindi in seguito che la quantità di microbi da me portata non gli fosse stata letale. 
Privo di difese immunitarie, giaceva su un letto non suo: che valore aveva una così debole vita ormai?
Il dottore aveva detto nel giro di due o tre giorni, ma aveva aggiunto di lasciare il recapito perché avrebbero potuto esserci novità anche quella notte stessa.
Visto che non potevo star lì a vedere la morte che arrivava a prenderselo via, sono uscito dalle Molinette e ho telefonato al mio amico Giacomo che non era in casa (i cellulari non esistevano ancora). Allora ho chiamato un’amica che un po’ mi piaceva, ma non era in casa neppure lei; infine ho trovato Marco che avevo appena conosciuto a Parigi e ci eravamo fatti molta simpatia. E spiegandogli la situazione, e che non potevo rientrare dagli zii tanto presto perché non me la sentivo di entrare in quella specie di camera mortuaria formato famiglia, gli ho chiesto se mi teneva compagnia quella sera, almeno lui.
Siamo così andati a vedere The addiction di Abel Ferrara. Ogni scena di malattia e sofferenza mi ricordava il fegato cirrotico di papà, anche se ‘ricordare’ non è il termine più preciso visto che avevo appreso della sua malattia soltanto da un paio d’ore e stentavo ancora a crederci.

sabato 23 giugno 2018

Canzone triste (Lou Reed, Sad Song)

Guardando il mio album di foto
lei sembra Maria, la regina di Scozia
per me era una regina
questo dimostra come ci si possa sbagliare

Devo smetterla di perdere tempo
un altro le avrebbe spezzato le braccia

(canzone triste, canzone triste
canzone triste, canzone triste)

Il mio castello, i bambini e la casa
pensavo che lei fosse Maria, la regina di Scozia
ci ho provato così tanto
ecco come ci si può sbagliare

Devo smetterla di perdere il mio tempo
un altro le avrebbe spezzato le braccia

(canzone triste, canzone triste ...)

***

Staring at my picture book
she looks like Mary, Queen of Scots
She seemed very regal to me
just goes to show how wrong you can be

I’m gonna stop wastin’ my time
Somebody else would have broken both of her arms
Sad song, sad song
Sad song, sad song

My castle, kids and home
I thought she was Mary, Queen of Scots
I tried so very hard
shows just how wrong you can be

I’m gonna stop wasting my time
Somebody else would have broken both of her arms
Sad song, sad song

Lady Day (Lou Reed, Berlin)

Quando camminava per la strada
era una bambina, e si guardava i piedi
ma quando passava davanti al bar
e sentiva la musica
doveva entrare e cantare
doveva proprio succedere
lei doveva entrare e cantare
doveva proprio andare così
E io dicevo no no no!
oh, Lady Day
e io dicevo no no no!
oh, Lady Day

Dopo gli applausi
quando la gente se ne andava
lei scendeva giù dal bar
e usciva dalla porta
andava all’albergo che lei chiamava casa
aveva muri verdastri
il bagno nel corridoio
E io dicevo no no no!
oh, Lady Day


***


When she walked on down the street
She was like a child staring at her feet
But when she passed the bar
and she heard the music play
She had to go in and sing
it had to be that way
She had to go in and sing
it had to be that wayAnd I said no, no, no
oh, Lady Day
And I said no, no, no
oh, Lady Day

After the applause had died down
And the people drifted away
She climbed down off the bar
and went out the door
To the hotel that she called home
It had greenish walls
a bathroom in the hall


And I said no, no, no
oh, Lady Day

Fin de partie (Roman Nouveau, 37)

Mi disse, dunque, mio padre: CHE VITA DEL CAVOLO.

Dopo quelle poche parole, preso dal delirio dell’infezione letale, non mi guardava più e aveva tirato fuori prendendolo da qualche parte il suo orologio da polso, tentando di regolarlo. 
Al dito indice della mano destra esibiva un sensore medico che sembrava un ditale gommoso (in un remotissimo passato avevo visto un oggetto simile: mio padre si dilettava con i modelli volanti di aeroplano e per avviare l'elica occorreva una robusta guaina digitale gommosa). Ogni movimento doveva essergli difficile, remoto, pesante, espropriato com'era delle sue membra, mai percosse da nemici. 
Le sue dita facevano pena.
Volevo aiutarlo a ricaricare l’orologio per compiere quella cerimonia senza speranza, senza bellezza, senza riparo né senso, ma mio padre disse affannato che voleva farlo lui, con aria offesa: doveva farlo lui, voleva evidentemente poterlo ancora fare. 
Era inaspettatamente tardi, e quel gesto non gli fu possibile. 
Quel gesto di libertà sarebbe stato di gran lunga il migliore che gli si potesse concedere. Nessuno pensava di poter pretendere di più. 
Io volevo, e quanto!, che papà fosse sano a tal punto da poter mettere in sesto la sua piccola macchina del tempo, uno dei suoi tanti orologi. Ma dovetti ingoiare l'umiliante sofferenza di vederlo desistere persino da così poco.
Papà non volle che lo aiutassi: poiché, diceva, aveva spostato inavvertitamente le lancette, con le dita che vedevo grosse di malattia, non riusciva a dimostrarmi (tuttavia continuando a sprecare in imperdonabili quisquilie il tempo istantaneo che ci era concesso) che poiché l’ora non corrispondeva a quella segnata sull’agenda elettronica (nessuna agenda elettronica era lì visibile) ciò doveva necessariamente significare che lui si era addormentato senza cognizione delle ore passate.
A quel punto la sua coscienza fu totalmente offuscata ed ebbe inizio il suo delirio. Non avrei mai più scambiato una sillaba sensata con lui oltre a queste: “buona notte, ci vediamo domani”. 
Papà rispose di sì, e fu il nostro addio.

lunedì 4 giugno 2018

Libertà come spirito (Intuizione 48)

Ciò che fu chiamato "spirito" è ancora il nostro modello di libertà, come ben compreso dagli idealisti tedeschi e dai neoidealisti. Il piccolo borghese vagheggia quella libertà nella domenica della vita, arte appagante nel tempo libero, lo sport, gli amici e gli hobby.
L'umanità intera, costretta dai vincoli materiali e di classe, ha invece trovato nella religione il suo simulacro di libertà.
Se un tempo pensavo che questo fosse mostruoso e insopportabilmentne triste, ora che invecchio e mi avvicino alla morte concedo per compassione le credenze religiose e irrazionali all'umanità ancora schiava.

mercoledì 9 maggio 2018

Robert Brandom sulla Fenomenologia dello Spirito (A Spirit of Trust)

Seconda Parte: Mediazione dell'Immediato

Le prime tre grandi sezioni della fenomenologia, chiamate coscienza, autocoscienza e ragione, descrivono aspetti diversi dell'attività discorsiva. Coscienza si occupa della conoscenza empirica. Ragione si occupa dell'azione razionale. Autocoscienza si occupa della costituzione sociale di soggetti conoscenti e agenti. Mettiamola in un altro modo: Coscienza considera (...) il contributo delle transizioni o delle osservazioni di ingresso linguistico a determinati contenuti concettuali articolati inferenzialmente; L'autoconsapevolezza considera il contributo della comunità degli utenti linguistici all'istituzione di norme concettuali determinate e soddisfacenti; La ragione considera il contributo delle transizioni di uscita linguistica o azioni intenzionali a determinare contenuti e norme concettuali articolate inferenzialmente. La sezione chiamata Spirito tratta tutti questi aspetti insieme, offrendo una ricostruzione razionale di un processo di sviluppo storico attraverso il quale i membri di una comunità linguistica vengono a rendere espliciti a sé il ruolo che svolgono allo stesso tempo come creature e creatori di norme concettuali dotate di contenuti determinati.


(Part Two: Mediating the Immediate (MSword))

Hegelo-marxismo (Intuizione 47)

Se c'è una cosa che mi pare assolutamente valida della filosofia marxista della praxis e della totalità è questa: contro la retorica esistenzialista piccolo borghese della singolarità e della sua scelta, il mutamento  ontologico non lo causi localmente.
Per esempio: è ridicolo fare lotta di classe nella tua famiglia.
Lotta di classe è possibile solo con la classe.
E senza lotta di classe non c'è storia, non c'è mutamento se non culturale, immaginario.

martedì 8 maggio 2018

Ostacolo (Roman Nouveau, 36)

Sono dunque giunto al cuore del mio racconto, eppure qualcosa mi trattiene dall’avanzare. Qualcosa di temibile, che è certo terrore di rivivere la morte di mio padre ma anche una specie di autodifesa interna allo scrivere, come se narrare ciò che più mi importa potesse dimostrarmi che in realtà non è qualcosa di così importante. Ho paura di scoprire improvvisamente la pochezza del mio punto di vista, l’insignificanza del mio piccolo io che ancora piange la morte del padre, ho paura di scoprire che la sua morte non solo non ha alcun senso ma non è nemmeno raccontabile.
Mi trovo qui di fronte alla questione del senso, su cui sono stato profondamente tormentato da Ludwig Wittgenstein, quando lo lessi al mio primo anno di università:

"ll senso del mondo dev'essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v'è, dev'esser fuori d'ogni avvenire ed essere-cosí. Infatti ogni avvenire ed essere-cosí è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev'essere fuori del mondo." (Tractatus logico-philosophicus, 6.41)

Che il senso del mondo sia fuori di esso significa che è ineffabile. E dunque, se è ineffabile, di che sto a parlare? 
“Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, conclude lo stesso Wittgenstein alla fine del Tractatus (esponendo la più famosa contraddizione filosofica del ventesimo secolo, poiché il suo libro parla proprio di ciò di cui non si potrebbe, secondo lui).
Ma Jacques Derrida ed Ermanno Bencivenga hanno dato due diverse risposte a Wittgenstein che mi spronano a proseguire.

Derrida: "Ciò che non può essere detto, non bisogna soprattutto tacerlo, ma bisogna scriverlo." (La carte postale, p. 209)

Ed Ermanno Bencivenga: “Solo di ciò di cui non si può parlare non si deve tacere” (Teoria del linguaggio e della mente, 8).

Se Bencivenga chiaramente esagera senza motivo, Derrida mi rassicura sul fatto che ho ragione di scrivere.

lunedì 19 marzo 2018

Il desiderio di paternità

Quand'ero piccolo mio padre mi raccontava di avere tanto desiderato diventare padre. La cosa mi lasciava abbastanza indifferente, poiché un bambino non ha interesse a penetrare la psicologia dei suoi genitori, anche quando costoro, forse sbagliando, ve lo invitino. Tuttavia non mi pareva che vi fosse nulla di strano in questo presunto desiderio di paternità esibito da mio padre.
In età adulta mi sono invece accorto che il desiderio di paternità non esiste. È vero che anche la consistenza del desiderio di maternità è stato messo in discussione da certe teoriche culturaliste, ma mi pare che il dibattito sia ancora aperto.
Riflettendo sulla mia esperienza concreta mi sento invece di poter dichiarare guerra al dubbio concetto di desiderio di paternità. 
I maschi che dichiarano di voler diventare padri non fanno che assecondare il loro desiderio di creare un alter-ego a loro immagine e somiglianza, di eternare se stessi per un fondamentale narcisismo maschile. Penso proprio che non essere implicati fisicamente nella gravidanza e nel parto ponga il genitore maschio in una posizione molto astratta, che difficilmente può pensarsi correlata a un autentico desiderio: si può desiderare di essere padre, ossia occuparne il ruolo, ma non di diventarlo. 
Essere-padre è una condizione imprevedibile cui si giunge con l'evento-nascita, ossia con un salto ontologico nel vuoto, con l’attualizzazione di un mondo possibile, o il passaggio da un mondo a un altro. Un uomo può effettivamente desiderare di somigliare al proprio padre diventando padre a sua volta, ma questo significa qualcosa di differente da ciò che si intende normalmente con “desiderio di paternità”: non è un desiderio con un oggetto (il figlio) bensì un’intenzione ego-riferita: “voglio assumere la posizione del Padre, voglio imitare e sostituire mio padre”.
Quando una donna desidera un figlio, desidera un figlio: non tanto “diventare madre”, quanto piuttosto dar vita a una creatura, generarla nel proprio ventre, sentirla animarsi, crescere, prendere forma e finalmente separarsi dal suo corpo per diventare un individuo idealmente autonomo. Per la madre l'evento della nascita è fisicamente immanente, per il padre è trascendente, non avendo luogo nel suo corpo (è dunque meta-fisico). Non dico che ogni donna desiderosa di maternità abbia una rappresentazione mentale chiara e distinta della catena causale che porta dal desiderio al figlio, ma mi pare innegabile che una maggior dose di autocoscienza generativa sia implicita nella mente femminile rispetto a quella maschile.
Questo discorso risente forse di una distinzione tra sessi troppo assoluta, e glissa del tutto sulla non coincidenza della differenza sessuale con la differenza di genere. Forse ho già affermato troppo rispetto a quanto io davvero non possa fare senza cadere in quella sicumera filosofica propria di tanti filosofi contemporanei. È una sicumera che detesto, dunque faccio ammenda e torno sui miei passi, limitandomi a dire ciò che so della condizione paterna per mia esperienza e riflessione personale. 
Credo che un uomo che non si senta ancora all'inizio della vecchiaia, e che dunque non pensi all'approssimarsi della morte, il cui pensiero può parere più temibile qualora non si abbiano eredi, non possa desiderare realmente di procreare un figlio da una donna.
Nella nostra società un uomo desidera “possedere” la donna che ama, come dice la lingua italiana, ma in questo possesso reiterato e sperabilmente infinito l'idea di procreare un figlio non figura come effetto necessario né come causa adeguata (del prolungamento) dell'amore. Spesso viene anzi percepito come un possibile ostacolo all'amore, dato che gli individui contemporanei sono egocentrati narcisisti e vogliono tendenzialmente ampliare le loro possibilità vitali, non certo restringerle.
Mi rivolgo dunque a te, amico padre che mi leggi: non sentirti in colpa se non hai desiderato il tuo divenire-padre, perché nella moderna società alienata è difficile rendersi conto che c'è dell'altro oltre al godimento personale. Del resto, se sei diventato padre o lo stai diventando sai benissimo di che cosa parlo: quando la tua compagna ti ha annunciato di essere incinta, che tu te l’aspettassi oppure no, avrai probabilmente fatto un sobbalzo, provando qualcosa di simile a una gioia onnipotente, e poi avrai detto a te stesso qualcosa come: “che il cielo ce la mandi buona!”.
Proprio questo dobbiamo fare, noi padri: sperare di essere all’altezza dell’Evento su cui si fonda la nostra nuova vita.

domenica 18 marzo 2018

GEOMETRICA POTENZA:

A torto si ritiene che siano le filosofie idealiste, spiritualiste e postmoderniste ad avere esaltato nel miglior modo la creatività dello spirito umano. Queste filosofie hanno certamente posto la libertà dello spirito alla base del manifestarsi dell'essere e della conoscenza, tuttavia non hanno detto nulla che non fosse metaforico, almeno dal mio punto di vista (scientista e dialetticamente materialista).
Il padre della linguistica cognitiva, Noam Chomsky (n. 1928), ha invece dimostrato che la facoltà linguistica umana è fondamentalmente creativa in senso algoritmico: vi sono regole e rappresentazioni alla base della generazione delle frasi "grammaticali", riconosciute come accettabili dai parlanti, anche se le occorrenze possibili sono combinatoriamente infinite.
La stessa creatività della mente umana ha iniziato ad essere studiata dalle scienze cognitive (la studiosa di riferimento è Margaret Boden) aggiungendo così un tassello importante alla conoscenza scientifica della psiche e approfondendo il divario tra scienze sperimentali e discipline umanistiche (anche se nulla vieterebbe di coniugare le due direzioni di ricerca, come del resto già fanno studiosi innovativi e brillanti come Johnathan Gotschall).
Chi ha inventato il sintagma "geometrica potenza"? Di solito si risponde col nome di Franco Piperno (Dal terrorismo alla guerriglia, in "Pre-Print"dicembre 1978). Qualcun altro ha provato ad andare più indietro nel tempo, fino a Mussolini e Vittorio Emanuele III, ma direi con scarso successo.
Si osservi ora il quadro di Gino Severini intitolato Cannoni in azione, 1915. In basso al centro si legge distintamente "géométrique PUISSANCE".
Il concetto non filosofico di potenza è certamente parte del repertorio concettuale del futurismo, e l'apposizione dell'aggettivo "geometrica" sembra riferirsi all'elemento macchinico della guerra moderna, elemento tanto caro ai futuristi (come del resto la guerra).
Questo quadro è piuttosto famoso, e chiunque lo abbia guardato avrebbe potuto isolare il sintagma in questione. Forse è il caso anche del professor Piperno? Io penso di sì perché leggendo le sue spiegazioni relative all'espressione in questione, si comprende che egli aveva in mente una presunta "precisione" militare dei brigatisti.
Nella porzione testuale rilevante del quadro di Severini si legge infatti, in sequenza verticale:


Perfezione
Aritmetica
Ritmo
Geometrica
POTENZA
LEGGEREZZA
FRANCIA*



Mi pare che l'idea di Piperno sia già tutta qui. Ma quello che potremmo dire con Chomsky è che nessuno è realmente "inventore" di un sintagma di due parole, perché l'infinita creatività linguistica della specie umana rende assai probabile che la medesima combinazione di due concetti, se non prorio dei medesimi significanti, sia ricorrente anche a distanza di tempo, dato un insieme di concetti e parole (una "cultura") non troppo diversi (i sintagmi dei primi sapiens saranno stati  statisticamente abbastanza diversi dai nostri). 

In pratica, è probabile che diversi parlanti abbiano potuto unire "geometria" e "potenza" da quando esistono i concetti e le parole relativi (quindi per lo meno da Talete, per la geometria, e da Aristotele per la potenza).
Diversa, naturalmente, è la storia delle tracce documentarie: in attesa di smentite dichiaro che il quadro di Severini può essere considerato a buon diritto come la prima occorrenza testuale nota del famigerato sintagma.



* Severini era fissato con la Francia e voleva essere francese.

mercoledì 14 marzo 2018

Roman nouveau, 14 bis

Fuoriusciti italiani a Parigi


Il post-operaismo è un pensiero alcolista. Questo mio giudizio tranchant ha certamente la sua origine nell’essermi sentito dire che Toni Negri iniziava a ragionare solo dopo essersi scolato una bottiglia di vino. Me lo disse un italiano suo amico che viveva a Parigi, un amico di Deleuze, per altro, che io fui ben contento di conoscere ed era molto simpatico.
Ci divertimmo particolarmente una sera, alla presentazione di un libro italiano all’Istituto di Cultura, dove mi aveva invitato Bruno: incontrammo il deleuziano italiano e il traduttore italo-francese di Deleuze. Come d’uopo, magnavamo e bevevamo: era questo il tipo di intensità del divenire che maggiormente mi piaceva sperimentare, e anche quell’unica che mi era dato esperire più di frequente, dato che sport ne facevo ben poco (ogni tanto la piscina sempre con Bruno), e scopare non scopavo mai perché ero ancora triste per Elisa.
Di alcolista, nella teoria post-operaista della produzione ontologica trovavo soprattutto il fatto che, effettivamente, da ubriaco avevi l’impressione di stare creando qualcosa, se parli con qualcuno o guardi un film o scrivi.
Ma questa teoria è gravissima perché sostiene in maniera idealistica che ogni essere umano è di per sé produttore, dunque una sorta di lavoratore ontologico
Dunque il capitalismo sarebbe fondamentalmente sbagliato e ingiusto semplicemente per il fatto che non remunera senza sfruttamento questa produzione di vita di noi tutti operai dell’essere.
Sarebbe come dire: capitalisti di tutto il mondo: remunerateci!

[Continua: incontro con Scalzone & co.]




Breve intervista a una ragazza torinese


D: ...

R: Certamente, la prima volta che lo incontrai fu in occasione di una serata organizzata insieme alla mia amica torinese, che era in Erasmus come me a Parigi. Decidemmo di fare un incontro di tutti gli Erasmus torinesi che si trovavavano a Parigi. Lei a Saint Denis aveva conosciuto qualcuno, e in più c'era Caterina che da anni già viveva lì. Così quella sera vennero Edoardo e Pierpaolo.

D: ...

R: La cosa che mi ha colpito di più era che fosse di Bra. Aveva l'aria un po' anni Settanta, come li immagino io, e mi piacque la sua socievolezza. cioè, era simpatico, parlava molto. Visto che io sono timida mi piacciono le persone socievoli. E poi il fatto che parlasse tanto, visto che a me piace ascoltare.

D: ...

R: Ricordo perfettamente che aveva un montone, e se non mi sbaglio era un montone di suo papà. Non ne sono sicura, ma ho questa idea in mente. E poi aveva i pantaloni di velluto a coste. Forse.

D: ...

R: Si, perchè faceva un DEA, mi sembrava che fosse già super introdotto. Io avevo appena scoperto cosa fosse un DEA, e cosa fosse un dottorato

D: ...


R: Si, molto. Ma ogni tanto ero un po' malinconica e facevo fatica a stare da sola.

D: ...

R: Era una cosa che volevo fortemente, volevo internazionalizzarmi. E quella è stata la prima tappa per farlo.

D: ...

R: Passeggiare senza meta. E andare al cinema e mangiare le crepes.

D: ...

R: Perchè avevo finito l'Erasmus. Perchè nessuno mi ha proposto di mantenermi per più di un anno a Parigi e non ero abbastanza coraggiosa per farlo da sola, senza aiuti. Perché ero fidanzata e non volevo lasciare il mio fidanzato.

D: …

R: Ho dovuto lasciare l’università perché il mio professore era morto prima che io potessi vincere il posto da ricercatrice. Sono diventata avvocata. Mi piace il mio lavoro, ma ogni tanto rimpiango di non aver potuto continuare a dedicarmi alla teoria.

sabato 13 gennaio 2018

I filosofi e la morte (Roman nouveau, 35)

Riprendendo probabilmente Epicuro, e anticipando Sartre, nel Tractatus Logico-philosophicus Wittgenstein dice: “La morte non è evento della vita. La morte non si vive” (Tractatus, 6.4311). Chiunque abbia vissuto un lutto importante dovrebbe sapere che questo è uno dei tentativi consolatori della filosofia meno riusciti di tutti i tempi, perché il ragionamento vale solo – posto che valga – per la propria morte. Ma se a morire è un altro? Se a morire, nella fattispecie, è il proprio amatissimo padre?
Su questo punto il padre della psicoanalisi sembra avere visto decisamente meglio di quegli algidi filosofi, ossia Epicuro, Sartre e Wittgenstein (faccio notare en passant che nessuno dei tre è diventato padre, a differenza di Freud).
E infatti, in generale, dopo la morte di mio padre la filosofia mi risultò all'improvviso dolorosamente inutile, come se mi rendessi conto di essermi sempre ingannato sul potere salvifico del pensiero filosofico.
Cercare consolazione filosofica per la morte nella filosofia di Badiou, per esempio, è un'impresa disperata. Per Badiou la morte non ci riguarda, riguarda soltanto il nostro corpo, l'animale che c'è in noi, quell'involucro materiale di passioni, desideri, opinioni, che non può che scomparire in quanto essenzialmente temporale, caduco, solo parzialmente vero e in grandissima parte falso e irrilevante sub specie aeternitatis, come diceva Spinoza. Badiou è un anti-vitalista: la vera vita non può essere per lui altro che la vita eterna del Soggetto, che esiste solo quando si segue una Verità (cfr. Concetti badiousiani). Per questo lui ha ben ragione a definirsi platonico: Platone destinava all'anima umana, affine alle Idee o Forme, l'eternità che le competeva oltre qualsiasi nostalgia della vita terrena e delle nostre limitate miserie mortali. Ecco perché Nietzsche odiava Platone ed ecco perché Badiou non apprezza un granché Nietzsche, e nemmeno Deleuze e Foucault, in quanto nietzscheani.
E nemmeno io, nonostante fossi deleuziano, apprezzavo molto Nietzsche Foucault e Deleuze su questo punto. Il punto della morte. 
Fin da quando avevo iniziato a studiare Deleuze, durante il mio Erasmus a Strasburgo, il suo pensiero in fatto di morte mi era risultato estremamente oscuro. Tutta la sua filosofia, a dire il vero, era alquanto oscura ma il suo pensiero sulla morte lo era in modo particolare.
Deleuze parla di morte soprattutto in Logica del senso, tributando a Blanchot di avere detto le cose fondamentali:

la morte è a un tempo ciò che è in un rapporto estremo o definitivo con me e con il mio corpo, ciò che è fondato in me, ma anche ciò che è senza rapporto con me, l'incorporeo e l’infinito, l’impersonale, ciò che è fondato soltanto in se stesso.

Deleuze inserisce nella morte ciò che i dialettici chiamano una contraddizione: la morte mi appartiene propriamente e mi è radicalmente estranea. La contraddizione è una figura fondamentale del pensiero deleuziano, anche se lui la chiama “sintesi disgiuntiva”, un sintagma ossimorico ripreso da Kant. Di fatto si tratta della sintesi hegeliana, che unisce A e non-A in un superiore A’=B che toglie-e-conserva (Aufhebt) sia A che non-A. La duplicità inconciliabile dell'evento si manifesta in due modi:

Da un lato, la parte dell’evento che si realizza e si compie; dall’altro, “la parte dell’evento che il suo compimento non può realizzare.” Vi sono dunque due compimenti, i quali sono come l’effettuazione e la contro-effettuazione. Ed è per questo che la morte e la ferita non sono un evento come gli altri. Ogni evento è come la morte, doppio e impersonale nel suo doppio.

La morte, oltre che doppia, è qui detta incorporea, infinita, impersonale. Sono concetti che vanno ben chiarificati, se si vuole capire che cosa pensa Deleuze della morte. L'incorporeo deleuziano è il concetto stoico: gli stoici credevano che tutto fosse materiale tranne i cosiddetti incorporei (vuoto, tempo, luogo, significato). Gli incorporei stoico-deleuziani “Non sono sostantivi o aggettivi, ma verbi”, quindi, per capirci, anziché dire “la morte”, ipostatizzando, sostanzializzando, personificando, dovremmo magari dire “il morire”. Magari.
Riguardo all'infinito, poi, avevo trovato in Badiou un pensiero non romantico-intuitivo dell'infinito, pensato come insieme infinito cantoriano: sentirmi dire da Deleuze che la morte è infinito mi sembrava un pensiero oltremodo folcloristico per non dire insensato.
E veniamo all'impersonale, che è forse l'aspetto che mi interessava di più. Sempre Blanchot dice: 
Essa è l’abisso del presente, il tempo senza presente con il quale non ho rapporto, ciò verso cui non posso lanciarmi, poiché in essa io non muoio, sono decaduto dal potere di morire, in essa si muore, non si cessa e non si finisce di morire.
E Deleuze:

Quanto questo si differisce da quello della banalità quotidiana. È il si delle singolarità impersonali e preindividuali, il si dell’evento puro in cui egli muore come piove [il pleut]. Lo splendore del si è quello dell’evento stesso o della quarta persona. Ed è perciò che non vi sono eventi privati e altri collettivi; come non vi è individuale e universale, e non vi sono particolarità e generalità. Tutto è singolare e perciò collettivo e privato a un tempo, particolare e generale, né individuale né universale.

Che confusione! E non solo grammaticale, come direbbero i wittgensteiniani: a parte il fatto che in italiano non funziona, Deleuze voleva farmi credere che si possa dire “muore” come si dice “piove”? E perché mai? Che vantaggio si avrebbe per il pensiero a dire che “muore” anziché che qualcuno muore, all'occasione un mio caro o io stesso? Che garanzie mi dai, caro Deleuze? A che cosa serve questo tuo modo di pensare per un giovane come me? Mi veniva in mente ciò che disse Kostas Axelos, professore e amico di Deleuze, alla pubblicazione dell'Anti-Edipo: “tu, rispettabile professore francese, bravo sposo, eccellente padre di due bei bambini, amico fedele (...), vorresti che i tuoi allievi e i tuoi figli seguissero nella loro "vita reale" la strada della tua vita o per esempio quella di Artaud, a cui tanti scrittori si richiamano?”
Dopo questa frase Deleuze non cercò mai più Axelos.
Anche Badiou, tra l'altro, criticava il concetto deleuziano di morte: se per Deleuze la morte è l'evento per eccellenza, per Badiou un evento non ha nulla a che spartire con il negativo, la morte, la distruzione: esso è incorporea verità.
Badiou mi sembrava molto più sano di Deleuze sotto il rispetto della morte.