1. Essere o dover essere
Tutti conoscono l'opposizione shakespeariana, "essere o non essere?". Relativamente pochi, probabilmente, sono invece coloro che hanno studiato Hegel, e hanno dunque colto che l'incipit di OK cita la critica hegeliana a Kant: il quale opporrebbe appunto il dover essere morale all'essere effettivo e concreto della realtà storica.
Non che Hegel sia un lassista permissivo: l'essere che contrappone al kantiano dover-essere è semplicemente il reale/razionale, ossia il manifestarsi dello Spirito-Totalità.
Opporre alla realtà storico-sociale un dovere immaginario: questo per Hegel è insensato, limitato, intellettualistico, moralistico.
Poiché il tema di OK è la situazione epocale dell'Occidente, e il suo riterritorializzarsi superficialmente sull'Oriente, si può assumere che fin dal primo verso il Gabbani stia implicitamente criticando i sempre più numerosi occidentali che credono o sperano di trovare la propria salvezza individuale nelle discipline orientali.
Nei prossimi post tratteremo dello sviluppo e dell'articolazione di questa critica.
E’ tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell’oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all’intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)
mercoledì 15 febbraio 2017
La biada quotidiana, 2 (Spinoza e la presenza mentale)
Sforzarsi di cogliere l'unità dell'essere, percepito dualisticamente come materia/pensiero.
L'io è un'illusione: la mente non comanda il corpo. Corpo e mente agiscono insieme, come espressione (bi)modale della realtà.
Tuttavia si creano situazioni di passione, affetti subiti, spesso passioni tristi.
Devi comprenderne adeguatamente le cause.
PS: che cosa dà l'identità di una cosa? Priest dice: il gluone!
L'io è un'illusione: la mente non comanda il corpo. Corpo e mente agiscono insieme, come espressione (bi)modale della realtà.
Tuttavia si creano situazioni di passione, affetti subiti, spesso passioni tristi.
Devi comprenderne adeguatamente le cause.
PS: che cosa dà l'identità di una cosa? Priest dice: il gluone!
La biada quotidiana, 1 (Spinoza e il buddhismo)
C'è qualcosa di profondamente simile nella teologia spinoziana e nella metafisica buddhista. Questa vede l'essere come vuoto, mentre Spinoza lo percepisce come Tutto: i due concetti sono mistici, hanno un significato diverso dal loro normale campo semantico (quello della fisica per "vuoto", quello della logica per "tutto").
Il significato di Vuoto e di Tutto rimane vago anche per chi creda di averne un'intuizione abbastanza precisa: nessun riferimento è possibile nei due casi se non un'esegesi della teoria implicita nei concetti.
Dire che l'essere è essenzialmente vuoto significa che al di sotto del molteplice divenire c'è un essere Uno, un Nulla che annulla tutte le differenze che si manifestano come fenomeni spaziotemporali (samsara).
Dire che l'essere è il Tutto significa invece dire che non v'è spazio, nell'essere, per il non-essere, ossia per la coscienza sartriana intesa come centro di possibili negazioni.
In entrambi i casi è: come far apparire all'essere (della mia coscienza modale) ciò che sempre già è nell'assoluto della sostanza-uno? Come allontanarsi dall'illusione del negativo?
La risposta è senz'altro: la presenza mentale.
PS: per chi non vuol seguire la strada mistico-intuitiva, segnalo che Antonio Damasio, in Alla ricerca di Spinoza, spiega l'etica spinoziana in funzione dell'omeostasi emotiva, evoluzionisticamente e individualmente vantaggiosa.
Il significato di Vuoto e di Tutto rimane vago anche per chi creda di averne un'intuizione abbastanza precisa: nessun riferimento è possibile nei due casi se non un'esegesi della teoria implicita nei concetti.
Dire che l'essere è essenzialmente vuoto significa che al di sotto del molteplice divenire c'è un essere Uno, un Nulla che annulla tutte le differenze che si manifestano come fenomeni spaziotemporali (samsara).
Dire che l'essere è il Tutto significa invece dire che non v'è spazio, nell'essere, per il non-essere, ossia per la coscienza sartriana intesa come centro di possibili negazioni.
In entrambi i casi è: come far apparire all'essere (della mia coscienza modale) ciò che sempre già è nell'assoluto della sostanza-uno? Come allontanarsi dall'illusione del negativo?
La risposta è senz'altro: la presenza mentale.
PS: per chi non vuol seguire la strada mistico-intuitiva, segnalo che Antonio Damasio, in Alla ricerca di Spinoza, spiega l'etica spinoziana in funzione dell'omeostasi emotiva, evoluzionisticamente e individualmente vantaggiosa.
martedì 17 gennaio 2017
Bollettino, 17/01/17
Abruzzo, in 300mila senza l'elettricità.
Un morto assiderato nel Brindisino.
A Messina undici scuole chiuse dal sindaco a Messina perché senza riscaldamento.
Camorra, 45 arresti a Napoli. Anche bambini per confezionare e spacciare droga.
Renzi a Napoli, pranzo da Paolo Siani poi a Scampia.
[da La Repubblica online]
Un morto assiderato nel Brindisino.
A Messina undici scuole chiuse dal sindaco a Messina perché senza riscaldamento.
Camorra, 45 arresti a Napoli. Anche bambini per confezionare e spacciare droga.
Renzi a Napoli, pranzo da Paolo Siani poi a Scampia.
[da La Repubblica online]
giovedì 13 ottobre 2016
Gianni Rodari e il referendum costituzionale
SI' E NO
Io so le parole più corte del mondo:
una dice sì,
l'altra dice no.
Devi saperle bene adoperare
perchè da sole possono contare
più di un milione
di parolone
Ma non c'è orologio per segnare
l'ora di dir di sì
e l'ora di dir di no.
Io come faccio? Ascolto il cuore,
è lui il mio suggeritore:
ascolto, capisco,
e senza alcun timore gli ubbidisco.
(da "Filastrocche lunghe e corte" - Editori Riuniti)
Io so le parole più corte del mondo:
una dice sì,
l'altra dice no.
Devi saperle bene adoperare
perchè da sole possono contare
più di un milione
di parolone
Ma non c'è orologio per segnare
l'ora di dir di sì
e l'ora di dir di no.
Io come faccio? Ascolto il cuore,
è lui il mio suggeritore:
ascolto, capisco,
e senza alcun timore gli ubbidisco.
(da "Filastrocche lunghe e corte" - Editori Riuniti)
domenica 4 settembre 2016
martedì 8 marzo 2016
Pensieri di Pascoli che mi sono piaciuti molto, 1
Dunque la coscienza d'un popolo, se è retta o torta, s'ha a giudicare non dall'aiuto che il popolo presta, o no, alla giustizia che viene, a pie' zoppo, dopo il male fatto; ma dall' osservanza, o no, che abbia per la giustizia che precede il male da fare e impedisce che si faccia. Questa è la giustizia che deve bandir quell'altra, la quale par che si chiami così, giustizia, dallo aggiustare, ch'ella tenta, le cose dopo. No, non si possono aggiustare l'anima e la vita umana, una volta rotte: bisogna, non romperle prima. E bisogna, che ciò si sappia e si veda, che ci son cose che non si possono riparare. Se non ci fossero i concini, chi sa forse si romperebbero meno stoviglie.
sabato 27 febbraio 2016
Più realisti di Fusaro (appunti sul nuovo realismo e il giovinetto idealista)
In questo testo analizzeremo e criticheremo la posizione antirealista di Diego Fusaro, come si può evincere da Il futuro è nostro.
La polemica intorno al cosiddetto nuovo realismo ha coinvolto diversi filosofi italiani. Tra questi, Diego Fusaro non ha dedicato interventi specifici alla questione ma il capitolo 3 del suo recente Il futuro è nostro: "Dialettica storica e critica dei falsi realismi".
Fusaro non critica il new realism sulla base di un argomentazione articolabile in premesse e conclusioni, bensì invocando l'opinione di vari filosofi a sostegno della sua critica: 1) Gentile, 2) Heidegger, 3) la dialettica (hegeliana).
In consonanza con 1) Fusaro afferma che "la realtà esiste sempre mediata dal pensiero e, dunque, come pensato di un pensante, rendendo perciò stesso ingenuo ogni realismo assoluto (il cui pensiero della realtà assoluta è sempre l'oblio del pensiero che la pensa e che la pone come oggetto di un soggetto)".
In accordo con 2) "i fatti, le cose e la realtà si danno sempre nel quadro di una metafisica come interpretazione dell'ente considerato nella sua totalità".
3) suffraga l'antirealismo di Fusaro sulla base di mere citazioni: "coloro che affermano quella verità..."
A parte le autorità di puntello al punto di vista fusariano, non si trovano argomentazioni degne di questo nome. L'idea più volte ripetuta attraverso le variazioni stilistiche, che impreziosiscono il linguaggio formulare di questo giovane e vulcanico autore, è che il realismo sia una resa totale al capitalismo, una resa più o meno cosciente e più o meno di malafede.
Ma perché mai la realtà dovrebbe essere identificata col capitalismo tutto? Questo punto si potrebbe argomentare sulla base di 1); pertanto ci volgeremo innanzitutto a una critica del neogentilianesimo di Fusaro.
"Tutto ciò che esiste ... si dà come risultato di un porre e, in quanto tale, può essere trasformato" (p.256, c.n). Bene, ecco una tesi poco chiara che ci si aspetterebbe di veder chiarita successivamente (si abbandoni ogni speranza). Dato che F fa fede di antirealismo verrebbe innanzitutto da chiedere come possa egli parlare di "ciò che esiste", seppure "come risultato di un porre" perché sembrerebbe implicare una qualche forma di realismo necessaria ad acettare che qualcosa esista effettivamente (in quanto posto). Ma soprattutto non si capisce come si possa affermare che enti naturali come le montagne, le nuvole e le carie esistanto come "posti". Da chi? Da che? Se F vuole sostenere una dipendenza dei concetti (di montagna, di nuvola, ecc.) dalla mente umana dovrebbe per lo meno dirlo in modo diverso.
E' probabile che Fusaro accoglierebbe la posizione di Rorty, secondo cui gli enti non dipendono causalmente dall'uomo ma ne dipendono rappresentazionalmente, ossia dai suoi schemi concettuali. Rimando qui all'analisi di Marconi (2012) che evidenzia l'ambiguità della nozione rortiana di dipendenza rappresentazionale.
Un hegeliano, naturalmente, sa la differenza tra natura e mondo umano, ed è alquanto probabile che quando F parla di esistenza tout court stia parlando in realtà di esistenza sociale, in senso lato, ossia come spirito oggettivo (Hegel) o essere sociale (Ferraris). Un idealismo di questo genere, posto che si tratti ancora di vero idealismo (in Ferraris, per esempio, coincide con una forma di "testualismo debole"), sembrerebbe più facilmente accettabile: in natura non esistono matrimoni, scuole, presidenti e denaro, ma è l'intenzionalità umana (o per Ferraris, in modo problematico, la "documentalità" ossia l'essere inscritto in tracce) che pone tali oggetti, che risulteranno di conseguenza parzialmente "soggettivi". Per riprendere la vecchia distinzione tra qualità primarie e secondarie, oggettive e soggettive, potremmo dire che esistono oggetti oggettivi, o primari, e oggetti soggettivi, o secondari.
***
Nonostante il suo idealismo neogentiliano, Fusaro si vuole filosofo marxista (e gramsciano), e pertanto la prima accusa mossa contro il (nuovo) realismo è la sua mancanza di storicità: "Il realismo aprospettico [...] predica il ritorno all'esistente pensato non storicamente". Lasciando da parte Gentile e l'atto puro si potrebbe tentare di concordare con Fusaro sul fatto che la filosofia contemporanea analitica e cognitiva non abbiano nel loro DNA lo storicismo. Questo non significa che esse non sappiano nulla della storia in generale e della storia della filosofia in particolare (si veda per esempio l'ottima storia della filosofia di un filosofo analitico come Kenny). Il problema non è la conoscenza storica (a meno che Fusaro non pensi che tutti gli analitici e i cognitivisti siano semplicemente degli ignoranti) ma lo storicismo. Per un marxista (specie per uno che si ritenga uno dei pochi veri marxisti) storicismo vuol dire dialettica o meglio: dato che la realtà è dialettica, come ci ha insegnato Engels ancor più che Marx (il quale non sembrava voler estendere la dialettica anche alla natura), la conoscenza filosofica (ossia la vera conoscenza e la vera scienza) non può che fondarsi sui modi conoscitivi della dialettica. Come argomenta Fusaro in favore della dialettica?
***
Abbiamo dunque assodato che l'obiettivo filosofico di F è ristabilire il primato dell'azione. Ora, siamo sicuri di sapere che cosa sia un'azione? Parafrasando il filosofo nazista prediletto dal nostro neoidealista, potremmo dire che noi non sappiamo che cosa significhi agire, almeno non prima di averne fatto un'analisi filosofica soddisfacente. Va notato infatti che, come per tutti (mi pare) i concetti fondamentali usati da F come armi epocali per la rivincita dell'idealismo, nessuna definizione o analisi rigorosa viene mai proposta. F potrebbe rispondere che una simile richiesta fa già parte del servilismo analitico e antidialettico. Ma una sintesi dialettica priva di un momento tetico-analitico iniziale non è una vera sintesi ma soltanto una ripetizione e un'intuizione priva di concetto, ossia, "con la grammatica di Kant", un'intuizione cieca.
***
In favore della filosofia intesa come sapere storico F adduce il desiderio di vedere recuperato il "senso del possibile". Ma se anche fosse vero che tale senso, qualunque cosa sia, è stato dimenticato, un fine desiderabile non può essere contrabbandato per una buona ragione. Si potrebbe obiettare che, per quanto desiderabile, non ci sono garanzie che lo storicismo fornisca un'effettiva conoscenza. Non è impossibile ma bisognerebbe dimostrare perché lo storicismo potrebbe costituire una modalità conoscitiva superiore ad altre.
***
Un problema ricorrente del libro (e forse dell'autore) è la volontà di anteporre l'enunciazione di scopi (ideologico-politici) all'enunciazione delle ragioni per accogliere le sue tesi.
Bibliografia provvisoria:
Badiou, A., Logiques des mondes
Badiou, A., Deuxième manifeste pour la philosophie
Bencivenga, E., La dialettica hegeliana
Berto, F., Che cos'è la dialettica hegeliana?
Deleuze, F. e Guattari, G., Mille plateaux
Deleuze, F. e Guattari, G., Qu'est-ce que la philosophie?
Ferraris, M. Documentalità
Ferraris, M. Esistere è resistere
Ferraris, M. e Di Caro, M. Bentornata realtà!
Fusaro, D., Il futuro è nostro
Fusaro, D., Fichte, Marx, Gentile
Lowe E. J., Action Theory and Ontology, in Blackwell companion on philosophy of action.
Marconi, D. Realismo minimale
Marconi, D. Per la verità
Putnam, H.
Quante, M. Hegel's concept of action
Recalcati, M.
Sperber, D., La contagion des idées
sabato 20 febbraio 2016
Paragrafo della mia tesi di dottorato francese (mai più riletta e sicuramente piena di errori) in cui si ragiona a partire da Lector in fabula, di U. Eco
3.10.1 Le Lecteur (de
philosophie) Modèle
On pourrait nous objecter que Sperber et Wilson parlent de la
communication orale et de son style, non pas de pensées
philosophiques et d'écriture. Mais il n'y a pas de doute qu'on
puisse élargir la théorie du style de Sperber et Wilson à la
communication écrite, comme il est nécessaire de faire pour
appliquer la TPSW à ce genre constitutivement écrit qu'est la
philosophie après Socrate.
Sperber et Wilson affirment explicitement que la TPSW peut expliquer
aussi la « pensée savante », puisque l’étude de l’inférence
spontanée est préalable aux recherches sur toutes les formes
d’inférence humaine et sur la communication inférentielle1.
Et concernant l'adresse directe à un destinataire en présence ou
celle différée vers un publique de lecteurs, Sperber et Wilson
fixent que le destinataire d'un acte de communication ne doit pas
être un destinataire précis2.
Cela – nous semble-t-il – légitime notre recherche concernant le
style philosophique à partir de la TPSW. Si l'on maintient que la
nature de la pensée est homogène du point de vue ontologique, une
théorie comme la STPW, qui essaie d'expliquer le fonctionnement des
processus de pensée et de communication, peut jeter une lumière
nouvelle aussi sur cette forme de création et de communication de
pensées qu'est la philosophie.
Le concept d’"environnement cognitif" doit être adapté
au contexte de l’écriture philosophique que nous visons. On a vu
que pour Sperber et Wilson les indices sont des signes
matériels qui attestent chez Alter l’intention d’Ego (cf. §
3.8). Dans le cas de l’écriture (vs la communication orale), il
n'y a pas d’environnement cognitif mutuel, c’est-à-dire un
environnement où « toute hypothèse manifeste est […]
mutuellement manifeste »3.
Les hypothèses de l'écrivant et du lecteur, en revanche, ne sont
pas manifestes. Un texte est « quelque chose qui s’est
vérifié précédemment comme un acte d’énonciation et qui est
présent textuellement comme un énoncé », et à partir de ce
quelque chose le lecteur empirique se fait « une image type »
de l’Auteur Modèle, tandis que l’auteur empirique « doit
postuler quelque chose qui n’existe pas encore actuellement et le
réaliser comme une série d’opérations textuelles »4
Pour expliquer les interactions entre la production du message
communicatif textuel et la compréhension du message et du texte, Eco
(1979) a proposé une théorie du Lecteur Modèle5,
partant de la définition suivante : « Un texte, tel qu'il apparaît
dans sa surface (ou manifestation) linguistique, représente une
chaîne d'artifices expressifs qui doivent être actualisés par le
destinataire »6.
Même si Eco traite de textes narratifs, cette définition est
suffisamment large pour qu'elle soit applicable aux textes
philosophiques7.
Eco parle d'une actualisation coopérative de la part du Lecteur, le
texte étant une machine virtuelle qui a besoin du destinataire pour
fonctionner :
Une expression reste pur flatus vocis tant
qu'elle n'est pas corrélée, en référence à un code donné, à
son contenu conventionné : en ces sens, le destinataire est toujours
postulé comme l'opérateur (pas nécessairement empirique) capable
d'ouvrir le dictionnaire à chaque mot qu'il rencontre et de recourir
à une série de règles syntaxiques préexistantes pour reconnaître
la fonction réciproque des termes dans le contexte de la phrase8
[Eco (1979), p. 50, trad. fr. p. 61].
La théorie sémiotique du Lecteur Modèle ressemble suffisamment au
modèle communicatif de la TPSW pour qu'on puisse comparer les deux
discours théoriques. Remarquons tout de suite que les notions de «
référence a un code donné » et de « contenu conventionnel »
sont tout à fait caractéristiques d'une théorie qui peut être
subsumée par le modèle-code9,
ce qui éloignerait la théorie du Lecteur Modèle de la TPSW.
Une objection concernant l'application de la TPSW aux textes
philosophiques pourrait être que la théorie prévoit l'intervention
de l'intentionnalité (représentations mentales/computations), alors
que dans l'absence physique de l'auteur des textes la place des
intentions n'est pas évidente. Dans sa querelle avec Derrida10,
John Searle explique bien le point de vue du réalisme intentionnel
concernant la communication textuelle :
Dans la mesure où l'auteur dit ce qu'il veut dire, le
texte exprime ses intentions. Il est toujours possible qu'il puisse
ne pas avoir dit ce qu'il voulait dire, ou que le texte puisse s'être
dégradé d'une façon ou d'une autre ; mais des considérations
absolument analogues s'appliquent au discours parlé. La situation en
ce qui concerne l'intentionnalité est exactement la même pour le
mot écrit qu'elle l'est pour le mot parlé : comprendre l'énoncé
consiste à reconnaître les intentions illocutoires de l'auteur ;
ces intentions peuvent être plus ou moins parfaitement réalisées
par les mots énoncés, qu'ils soient écrits ou parlés. Et
comprendre la phrase indépendamment de l'énonciation consiste à
savoir quel acte linguistique on accomplirait en l'énonçant [Searle
(1977), trad. fr. p. 13].
Cette défense searlienne de la présence dans le texte des
intentions de l'auteur nous semble correcte. Certes, l'analogie entre
les intentions du discours verbal et celles du discours écrit
n'effacent pas l'absence du destinataire au moment de l'écriture (au
moins dans les cas normaux) : c'est pour cela qu'il faut disposer
d'une théorie de la représentation des intentions communicatives
qui inclue le dispositif d'un lecteur hypothétique, imaginé plus ou
moins consciemment par l'écrivant et réellement différé dans le
temps et dans l'espace par rapport à l'acte d'écriture.
Le philosophe écrivant pour un publique a des intentions
communicatives, donc il doit exprimer ces intentions de la façon la
plus pertinente possible. Selon la TPSW, dans la communication
verbale la pertinence est recherchée dans la relation à
l'auditoire, mais dans le cas d'une communication (philosophique)
écrite on ne connaît pas grande chose, à priori, de son publique
de lecteurs virtuels, exception faite pour les textes "d'occasions",
destinés à une communication orale devant un publique précis : les
jeunes étudiants de philosophie de la faculté de philosophie de
Paris 8, plutôt que ceux de la Columbia University.
Les situations réelles possibles étant infinies, ou en tout cas
très nombreuses, on peut toutefois limiter le domaine de façon
"disciplinaire" : le philosophe s'adressant à des gens qui
ont une représentation mentale de « la philosophie ». Ensuite,
comme le dit Eco (1979), il y a le choix d'un type d'encyclopédie,
car de toute évidence « si je commence un texte par | Comme
l'explique très clairement la première Critique…|, j'ai
déjà restreint, de manière très corporatiste, l'image de mon
Lecteur Modèle »11.
En tout cas, même si le philosophe connaît très bien la mécanique
quantique il ne présupposera pas forcément un Lecteur Modèle
expert de philosophie quantique, puisque il est manifeste que le
lecteur de philosophie n'est pas le même que celui qui lit
habituellement des texte professionnels portant sur la physique
quantique.
Ecrire un texte philosophique implique une représentation générale
de ce qu'est la philosophie et une représentation particulière d'un
publique philosophique restreint auquel on s'adresse avec un certain
texte : écrivant un texte sur Jacques Derrida on pourrait
raisonnablement faire l'hypothèse qu'on ne sera pas lu par Jerry
Fodor et ses élèves.
Revenons au Lecteur Modèle. Eco dit qu'« un texte se distingue
d'autres types d'expression par sa plus grande complexité. Et la
raison essentielle de cette complexité, c'est le fait qu'il est un
tissu de non-dit »12.
Or, nous avons vu que selon la TPSW l'implicite n'est pas un apanage
des textes, au contraire le rapport entre explicite et implicite est
l'un des mécanismes de la communication et du style selon la TPSW (§
3.11). Caractérisant le texte comme « mécanisme paresseux (ou
économique) qui vit sur la plus-value de sens qui y est introduite
par le destinataire »13
Eco exprime une idée semblable de celle selon laquelle la
communication écrite est régie par la Pertinence. La Pertinence est
exactement cette « économicité » qu'Eco attribue justement au
mécanisme textuel. En revanche tout acte de communication est
produit à partir de la présomption de la maximisation de la
pertinence, même s'il peut y avoir des violations de ce principe
(cf. § 3.4).
Eco soutient en fait qu'« un texte est un produit dont le sort
interprétatif doit faire partie de son propre mécanisme génératif
» et que la génération d'un texte consiste à mettre en œuvre
une stratégie incluant les prévisions des mouvements de l'autre14.
C'est ici le concept de « stratégies textuelle » qui régit le
dispositif théorique du Lecteur Modèle :
Pour organiser sa stratégie textuelle, un auteur doit
se référer à une série de compétences (terme plus vaste que
"connaissance de codes") qui confèrent un contenu aux
expressions qu'il emploie. Il doit assumer que l'ensemble de
compétences auquel il se réfère est le même que celui auquel se
réfère son lecteur. C'est pourquoi il prévoira un Lecteur Modèle
capable de coopérer à l'actualisation textuelle de la façon dont
lui, l'auteur, le pensait et capable aussi d'agir interprétativement
comme lui a agi générativement [Eco (1979), p. 55, trad. fr. p.
67]15.
Le modèle de Eco est d'ailleurs plus, prévoyant entre autre que les
textes ne présupposent pas seulement les compétences du lecteur
mais ils contribuent aussi à les produire16
; il y a des « textes fermés », à l'intentio auctoris plus
univoque, et des « texte ouverts », où l'intentio auctoris
est disposée à prévoir plusieurs possibilités
interprétatives17
; il faut ensuite distinguer entre usage et interprétation
des textes18
; « l'Émetteur et le Destinataire sont présents dans le texte non
tant comme pôles de l'acte d'énonciation que comme rôles
actanciels de l'énoncé »19,
c'est-à-dire des dispositifs textuels séparés de l'émetteur et du
destinataire réels, ce qui conduit à la conclusion que « le
Lecteur Modèle est un ensemble de conditions de succès ou de
bonheur (felicity conditions), établies textuellement, qui
doivent être satisfaites pour qu'un texte soit pleinement actualisé
dans son contenu potentiel »20
.
Or, en quoi ce modèle de Lecteur peut modéliser aussi le lecteur de
philosophie ? Plus qu'en adoptant des stratégies textuelles et
puisqu'en général il n'écrit pas un texte de fiction (même
lorsqu'il le fait il est censé essayer de dire quelque chose de
vrai), le philosophe-écrivant nous semble devoir procéder en
maximisant la pertinence de son écriture, recherchant le maximum
d'effets cognitifs/émotifs/poétiques en conjonction avec un degré
pertinent de difficulté de traitement.
Un écrivant, philosophe ou pas, peut violer le principe communicatif
de Pertinence s'il veut obtenir certains effets
cognitifs/émotifs/poétiques. Si cela est évident dans l'art21,
dans le cas des textes philosophiques aussi il peut y avoir, et il y
a souvent, des intentions stylistiques visant des effets
cognitifs/émotifs particuliers, demandant un effort de traitement
qui peut être remarquable.
Un bon exemple de texte au style ardue mais offrant à son lecteur
des inépuisables effets sublimes, pourrait être considéré
Wittgenstein (1922), dont la densité conceptuelle et la forme
aphoristique hiérarchisée constituent un modèle indépassable de
machine textuelle philosophique.
En réalité la théorie du Lecteur Modèle ne nous semble pas
adéquat aux textes philosophiques, qui escomptent une vocation
protreptique, et dans lesquels le philosophe présuppose toujours
que le lecteur trouvera suffisamment pertinent ce qu'il comprend pour
ensuite aller étudier ce qu'il ne comprend ou qu'il ne connaît pas.
1
Sperber et Wilson (1986/1995),
p. 75, trad. fr. p. 119 : « Le modèle de la communication
inférentielle et la notion de pertinence que nous nous efforçons
de développer ne sont pas liés à une forme particulière
d’inférence. Nous pensons, par exemple, que le travail long et
réfléchi d’interprétation textuelle auquel se livrent les
exégètes religieux ou littéraires n’est pas moins régi par le
principe de pertinence que la compréhension spontanée des
énoncées. [... L]’inférence spontanée joue un rôle dans
l’interprétation littéraire ou religieuse, tandis que la pensée
savante est une entreprise sortant de l’ordinaire, même pour les
savants. L’étude de l’inférence spontanée est donc un
préalable fondamental à des recherches sérieuses sur toutes les
formes d’inférence humaine, et en particulier sur la
communication inférentielle ».
2
Sperber et Wilson (1995), p. 158, trad. fr. p. 238 : « Les
destinataires d'un acte de communication ostensive sont les
individus dont le communicateurs essaye de modifier l'environnement
cognitif […] Dans le cas de propos tenus à la cantonade, des
publications, des émissions de radio ou de télévision, un
stimulus peut être adressé à quiconque le trouvera pertinent »
Sperber et Wilson (1995), p. 158, trad. fr. p. 238.
3
Sperber et Wilson (1995), p. 158, trad. fr. p. 238.
4
Eco [1979], p. 62.
5
Riffatterre (1971) parle d'« archilecteur ».
6
Eco (1979), p. 50, trad. fr. p. 61 : « Un testo, quale appare nella
sua superficie (o manifestazione) linguistica, rappresenta una
catena di artifici espressivi che debbono essere attualizzati dal
destinatario ».
7
Ce qui semble confirmé par cet exemple : « Dans ce texte,
Wittgenstein n’est autre qu’un style
philosophique et le Lecteur Modèle
n’est autre que la capacité intellectuelle de partager ce style
en coopérant à son actualisation » [Eco (1979), p. 61, trad. fr.
p. 76].
8
« Una espressione rimane puro flatus vocis sino a che non è
correlata, in riferimento a un codice dato, al suo contenuto
convenzionato : in tal senso il destinatario è sempre postulato
come l'operatore (non necessariamente empirico) capace di aprire,
per così dire, il dizionario a ogni parola che incontra, e di
ricorrere a una serie di regole sintattiche preesistenti per
riconoscere la reciproca funzione dei termini nel contesto della
frase ».
9
Il est vrai qu'Eco a été vite critique au regard du modèle-code
classique de la sémiologie (voir Eco, 1975 et 1980), mais sa
critique a pris la route, selon nous épistémologiquement plus
incertaine, d'une multiplication des codes plutôt que celle de la
valorisation de la faculté inférentielle : « […] il n'y a
jamais de communication linguistique, au sens strict du terme, mais
bien une activité sémiotique au sens large, où plusieurs systèmes
de signes se complètent l'un l'autre » [Eco (1975), p. 53, trad.
fr. p. 65].
10
Voir Derrida (1972) ; Searle (1977) ; Derrida (1977) ; voir aussi
Mulligan (2003) et Ferraris (2003).
11
Eco (1979), p. 55, trad. fr. p. 68.
12
Eco (1979), p. 51, trad. fr. p. 62.
14
Eco (1979), p.54, trad. fr. p. 65.
15
« Per organizzare la propria strategia testuale un autore deve
riferirsi a una serie di competenze (espressione più vasta che
"conoscenza di codici") che conferiscano contenuto alle
espressioni che usa. Egli deve assumere che l'insieme di competenze
a cui si riferisce sia lo stesso a cui si riferisce il proprio
lettore. Pertanto prevederà un Lettore Modello capace di cooperare
all'attualizzazione testuale come egli, l'autore, pensava, e di
muoversi interpretativamente così come egli si è mosso
generativamente ».
16
Eco (1979), p. 56, trad. fr. p. 69 : « Donc, prévoir son Lecteur
Modèle ne signifie pas uniquement "espérer" qu'il
existe, cela signifie aussi agir sur le texte de façon à la
construire. Un texte repose donc sur une compétence mais, de plus,
il contribue à la produire ».
17
Mais il faut remarquer que cette différence s'abolit toute seule :
« Rien n'est plus ouvert qu'un texte fermé. Mais son ouverture est
l'effet d'une initiative extérieure, une façon d'utiliser le texte
et non pas d'être utilisé par lui, en douceur. Il s'agit là de
violence plus que de coopération » [Eco op.
cit. p. 57, trad. fr. p. 71]. Il
semble qu'en philosophie la violence ait souvent dépassée la
douceur.
18
Eco (1979), §3.4.
19
Eco (1979), p. 61, trad. fr. p. 75.
20
Eco (1979), p. 59 trad. fr. p. 77.
21
Peut-être surtout dans les arts « de l'espace » et non pas dans
les arts « du temps » qui requièrent un effort cognitif en temps
réel.
sabato 6 febbraio 2016
Concetti periodici, 2
FASCISMO
In epoca di populismi si assiste a una decostruzione corriva del concetto di fascismo, che non è più percepito storicamene ma soltanto come etichetta strumentale.
Non si può rinunciare all'ancoramento storico (il fascismo novecentesco responsabile della guerra, contro qualunque revisionismo) ma bisogna distillare una teoria filosofica del (neo)fascismo.
Partire dall'articolo di U. Eco sul fascismo eterno, nel quale si propone una definizione aconcettuale, nei termini opportuni delle wittgensteiniane somiglianze di famiglia. Il vantaggio è che si potranno ritrovare delle somiglianze con il capitalismo neoliberista, i cui sostenitori si considerano antifascisti. L'obiezione inversa, secondo cui anche il comunismo dittatoriale sarebbe una forma di fascismo non regge concettualmente: il totalitarismo comunista ha radici ideologiche ben diverse.
Benjamin e Adorno sono ancora utilizzabili? Jesi mi pare troppo vincolato al (neo)fascismo storico, oltre che culturale.
In epoca di populismi si assiste a una decostruzione corriva del concetto di fascismo, che non è più percepito storicamene ma soltanto come etichetta strumentale.
Non si può rinunciare all'ancoramento storico (il fascismo novecentesco responsabile della guerra, contro qualunque revisionismo) ma bisogna distillare una teoria filosofica del (neo)fascismo.
Partire dall'articolo di U. Eco sul fascismo eterno, nel quale si propone una definizione aconcettuale, nei termini opportuni delle wittgensteiniane somiglianze di famiglia. Il vantaggio è che si potranno ritrovare delle somiglianze con il capitalismo neoliberista, i cui sostenitori si considerano antifascisti. L'obiezione inversa, secondo cui anche il comunismo dittatoriale sarebbe una forma di fascismo non regge concettualmente: il totalitarismo comunista ha radici ideologiche ben diverse.
Benjamin e Adorno sono ancora utilizzabili? Jesi mi pare troppo vincolato al (neo)fascismo storico, oltre che culturale.
venerdì 15 gennaio 2016
Breve e superficiale ricerchina sul chavismo, volta a istillare qualche dubbio ai giuggioloni che credono alle narrazioni dei media al servizio del capitale
(Da Wikipedia)
Il colpo di Stato anti-chavista [del 2002]
[Pedro Carmona Estanga p]rese parte, insieme ad un considerabile numero di generali e civili, al golpe di Stato, anche conosciuto popolarmente appunto come el carmonazo, ai danni del governo di Hugo Chávez, l'11 aprile del 2002. Il giorno seguente assunse l'incarico di Presidente della Repubblica dopo aver autoproclamato un governo di transizione democratica e di unità nazionale. Di fatto però questo governo risultava completamente illegittimo data la mai avvenuta rinuncia dell'incarico da parte di Chávez, rapito ed in mano ai golpisti.
Carmona con il suo primo decreto sciolse il parlamento, destituì tutti gli altri poteri, dichiarò l'abbandono dell'OPEC da parte del Venezuela, ripristinò la vecchia costituzione abbandonando quella del 1999 votata dal popolo, e cambiò il nome della Repubblica Venezuelana cancellandone la parola Bolivariana.
Tra le prime decisioni di questo governo anche la rinuncia al patto di cooperazione che legava il Venezuela a Cuba, attraverso il quale il Venezuela assicurava 55.000 barili di combustibile giornalieri all'isola come pagamento di servizi di base che includevano l'aiuto di specialisti cubani nelle missioni per assicurare sanità gratuita, istruzione di base e sport.
Rovesciamento ed il ritorno al governo di Chávez
Immediatamente gli Stati Uniti si affrettarono a riconoscere il nuovo governo, seguiti a breve intervallo dalla Spagna di José María Aznar. In seguito si scoprì anche l'appoggio al golpe e quindi al nuovo governo Carmona anche dell'Inghilterra e di Israele [to' guarda, c'è anche Israele: che strano...]. I media venezuelani (tra cui si distinsero RCTV, Globovision, Televen e Venevision) ebbero anch'essi un ruolo determinante sia nell'organizzazione che nell'esecuzione del golpe[1][2] e dato che tutti erano convinti della sua definitiva riuscita, si sbilanciarono in interviste, trasmesse su tutte le reti, dove parlavano del lavoro organizzativo dei militari e civili artefici dell'evento, nascondendo però la verità sul colpo di Stato e le proteste popolari in atto in tutto il Venezuela[3].
Il 12 aprile a Caracas infatti cominciarono seri disordini con saccheggi di negozi (soprattutto di quelli considerati appartenenti a gruppi d'interesseanti-Chávez)[3]. Nei giorni 12 e 13 aprile la polizia uccise più di 200 persone, gli ospedali accolsero centinaia di feriti.
La gente, come già accaduto a Caracas, circondò anche la base dei paracadutisti del generale Baduel a Maracay chiedendo a gran voce il ritorno di Chávez. Lo stesso avvenne in molte altre località; si calcola che in tre giorni più di sei milioni di persone siano scese per le strade a difendere Chávez ed il suo governo.[4]
1^ Maurice Lemoine, "Venezuela’s Press Power", Le Monde Diplomatique, 10 agosto 2002.
2^ Eva Golinger, Venezuelanalysis.com, 25 September 2004, A Case Study of Media Concentration and Power in Venezuela
3^ a b Dinges, John. Columbia Journalism Review (July 2005). "Soul Search", Vol. 44 Issue 2, July–August 2005, pp52–8
4^ a b Rory Carroll, Storia segreta di Hugo Chávez, El Comandante, Newton Compton Editori, 2013, ISBN 978-88-541-5000-3.
venerdì 4 dicembre 2015
Concetti periodici, 1
PULSIONE DI MORTE
Quali basi scientifiche ha il concetto freudiano? Ripartire da Al di là del principio di piacere.
Che ne dice la neuropsicoanalisi?
Quali basi scientifiche ha il concetto freudiano? Ripartire da Al di là del principio di piacere.
Che ne dice la neuropsicoanalisi?
mercoledì 18 novembre 2015
Preghiera ai vivi per perdonarli di essere vivi, di Charlotte Delbo
Prière aux vivants pour leur pardonner d’être vivants
Vous qui passez
bien habillés de tous vos muscles
un vêtement qui vous va bien
qui vous va mal
qui vous va à peu près
vous qui passez
animés d’une vie tumultueuse aux artères
et bien collée au squelette
d’un pas alerte sportif lourdaud
rieurs renfrognés, vous êtes beaux
si quelconques
si quelconquement tout le monde
tellement beaux d’être quelconques
diversement
avec cette vie qui vous empêche
de sentir votre buste qui suit la jambe
votre main au chapeau
votre main sur le coeur...
la rotule qui roule doucement au genou
comment vous pardonner d’être vivants...
Vous qui passez
bien habillés de tous vos muscles
comment vous pardonner
ils sont morts tous
Vous passez et vous buvez aux terrasses
vous êtes heureux elle vous aime
mauvaise humeur souci d’argent
comment comment
vous pardonner d’être vivants
comment comment
vous ferez-vous pardonner
par ceux-là qui sont morts
pour que vous passiez
bien habillés de tous vos muscles...
que vous buviez aux terrasses
que vous soyez plus jeunes chaque printemps
je vous en supplie
faites quelque chose
apprenez un pas
une danse
quelque chose qui vous justifie
qui vous donne le droit
d’être habillé de votre peau de votre poil
apprenez à marcher et à rire,
parce que ce serait trop bête
à la fin
que tant soient morts
et que vous viviez
sans rien faire de votre vie.
Vous qui passez
bien habillés de tous vos muscles
un vêtement qui vous va bien
qui vous va mal
qui vous va à peu près
vous qui passez
animés d’une vie tumultueuse aux artères
et bien collée au squelette
d’un pas alerte sportif lourdaud
rieurs renfrognés, vous êtes beaux
si quelconques
si quelconquement tout le monde
tellement beaux d’être quelconques
diversement
avec cette vie qui vous empêche
de sentir votre buste qui suit la jambe
votre main au chapeau
votre main sur le coeur...
la rotule qui roule doucement au genou
comment vous pardonner d’être vivants...
Vous qui passez
bien habillés de tous vos muscles
comment vous pardonner
ils sont morts tous
Vous passez et vous buvez aux terrasses
vous êtes heureux elle vous aime
mauvaise humeur souci d’argent
comment comment
vous pardonner d’être vivants
comment comment
vous ferez-vous pardonner
par ceux-là qui sont morts
pour que vous passiez
bien habillés de tous vos muscles...
que vous buviez aux terrasses
que vous soyez plus jeunes chaque printemps
je vous en supplie
faites quelque chose
apprenez un pas
une danse
quelque chose qui vous justifie
qui vous donne le droit
d’être habillé de votre peau de votre poil
apprenez à marcher et à rire,
parce que ce serait trop bête
à la fin
que tant soient morts
et que vous viviez
sans rien faire de votre vie.
(Charlotte Delbo)
sabato 14 novembre 2015
L'11 settembre della Francia (il "13 novembre")
Dopo l'attentato a Charlie Hebdo avevo fatto una lista di letture che mi sembravano pertinenti.
Ecco altri titoli di possibili letture.
1) "I più perversi e i più violenti, i più distruttori tra i rogue states sarebbero quindi, in primo luogo, gli Stati Uniti, e talvolta i loro alleati". (J. Derrida, Stati canaglia, p.143, Raffaello Cortina Editore)
Ecco altri titoli di possibili letture.
1) "I più perversi e i più violenti, i più distruttori tra i rogue states sarebbero quindi, in primo luogo, gli Stati Uniti, e talvolta i loro alleati". (J. Derrida, Stati canaglia, p.143, Raffaello Cortina Editore)
2) Jacques Derrida: Islam and the West: A Conversation with Jacques Derrida: http://gen.lib.rus.ec/book/index.php?md5=7EC999FD5EB320B8F1BD029B83C75709
3) Slavoj Zizek: L'islam e la modernità. Riflessioni blasfeme: http://gen.lib.rus.ec/book/index.php?md5=7c6e12880150b7aa696deb9ba2ac5cee
4) Emanuele Severino, Dall'Islam a Prometeo
3) Slavoj Zizek: L'islam e la modernità. Riflessioni blasfeme: http://gen.lib.rus.ec/book/index.php?md5=7c6e12880150b7aa696deb9ba2ac5cee
4) Emanuele Severino, Dall'Islam a Prometeo
(in fieri)
mercoledì 11 novembre 2015
Michel Deguy, (Cherche cherche…)
Cherche cherche la vérité
Cela mène grand bruit dans l'âme
Oh! Comme il a grandi le petit jeu d'enfant!
Cherchons Cherchez la vérité
L'âme
C'est comme une cuisine de ferme
En août après les vêpres
Basse et tiède et sentant le graillon
Où les mouches phraseuses harcèlent
Des devinettes de miel de cerise et de sang froid
L'âme
C'est comme une bruyère immortelle
Où les chiens débusquent de lourdes faisanes
L'âme
C'est Don Quichotte
Jurant mais un peu tard qu' on ne l' y prendrait plus
Il mue il pèle sur son lit
Il a fait poser sur sa chambre
Un papier peint de moulins à vent
Cela mène grand bruit dans l'âme
Oh! Comme il a grandi le petit jeu d'enfant!
Cherchons Cherchez la vérité
L'âme
C'est comme une cuisine de ferme
En août après les vêpres
Basse et tiède et sentant le graillon
Où les mouches phraseuses harcèlent
Des devinettes de miel de cerise et de sang froid
L'âme
C'est comme une bruyère immortelle
Où les chiens débusquent de lourdes faisanes
L'âme
C'est Don Quichotte
Jurant mais un peu tard qu' on ne l' y prendrait plus
Il mue il pèle sur son lit
Il a fait poser sur sa chambre
Un papier peint de moulins à vent
mercoledì 4 novembre 2015
Le unghie di Deleuze (racconto del 1998)
Gilles Deleuze era un gran filosofo francese che non si tagliava mai le unghie, infatti le aveva lunghe e arrotolate verso il dentro: aveva come dei riccioli di unghia davanti a ciascun dito. Questa cosa non doveva essere comodissima, suonare il piano per esempio gli sarebbe stato impossibile, o masturbarsi faticoso. Ma lui aveva scelto così e tutti i filosofi colleghi lo criticavano, per esempio il più grande filosofo vivente Jacques Derrida mi hanno detto che criticava Deleuze per le sue unghie.
Deleuze si opponeva a tutte le istituzioni, era un ribelle. Le unghie lunghe secondo me erano per lui innanzitutto un fatto di opposizione all'istituito. Mi rendo conto che come ribellione pare piccola, ma per un pensatore hanno importanza e senso anche le cosette. E comunque non bisogna fare come se le istituzioni fossero una cosa innocente, perché quando si tocca il proprio corpo per presentarlo, quando ci si veste e ci si acconcia, ci stiamo già confrontando col Sistema.
Talvolta ho le unghie un po' troppo lunghe, e me ne accorgo con vergogna, corro subito a tagliarle o così vorrei fare. Ma passano sempre due o tre giorni prima che riesca a farlo per davvero, perché non siamo completamente padroni in casa nostra.
Avendo i polmoni ormai irrimediabilmente malati, Gilles Deleuze si è defenestrato dalla sua casa parigina il 4 novembre 1995. Me lo ricordo bene perché ero a Strasburgo e lo stesso giorno hanno sparato a Rabin l’israeliano. Non so se Deleuze ha fatto in tempo a sapere di Rabin, o viceversa, ma tendo a credere che non sia possibile.
Il giorno che Deleuze si è suicidato e Rabin è stato ucciso ho pensato così: se il buddismo dicesse il vero, dopo la morte l’anima si reincarna in altri corpi, allora perché non nel mio? Ho iniziato a convincermi che poiché sentivo uno strano formicolio alla mente ed ero eccitato, questo voleva dire qualcosa, era un segno della metempsicosi: era Gilles Deleuze che mi aveva scelto e veniva a reincarnarsi da me, almeno un pezzetto.
Avrei potuto immaginarmi che magari anche l’anima dell’israeliano Rabin si fosse teletrasportata fino a me, ma dell’anima di Rabin non me ne importava nulla.
Come per Deleuze, anche quando ho visto mio padre steso morto sul lettino della cella frigorifera ho pensato che io ero divenuto il custode del suo spirito, la sua scatola materiale, ma soltanto perché ero fuori di senno. Inoltre, se nel caso di Deleuze pensavo di essere il soggetto di una reincarnazione parziale, cioè: un frammento dell’anima di Deleuze era entrata in me, nel caso dell’anima di mio padre ritenevo che si trattasse dell’anima intera, come un’eredità di padre in figlio.
Quest’anno insegno filo e storia al liceo, e una delle cose più belle che ho ripassato, e che mi ero scordato, è che per gli stoici, ma anche per gli epicurei e Tertulliano, l’anima è corpo.
La filosofia di Gilles Deleuze si basa sul concetto di divenire e su quello di evento. Per lui non ci sono cose stabili, la realtà fluisce perennemente, come per Eraclito, però non è tutto conflittuale e casuale, ma ogni cosa che accade ha una sua intensità dinamica e interiore, e questo ne fa una monade razionale-affettiva. In effetti per Deleuze è come se le cose fossero vive, e io tra le cose.
Ecco quello che credevo di avere imparato da Deleuze: bisogna sganciare la paura, guardare forte l'Essere, quel mare sociale, e lasciare alle spalle i preconcetti. Pensa, impara a sapere veramente, ascolta l'Essere che ti parla per bocca della storia delle forme, cristallizzate in proiezioni sul grande schermo Sistema-Terra, abbatti il Capitalismo, fagli schizzare la merda fuori dal cranio, spezzagli le ossa, non ripetere interpreta, non limitarti a interpretare trasforma, cambia tutto agisci su te stesso manipola il capitalismo universale inventa nuovi stili di pensiero crea la rivoluzione per i fratelli proletari planetari critica le istituzioni contesta i professori rinuncia a trenta e lode insulta il funzionario fatti cacciare dal Collegio sputtanati la testa leggi un sacco di libri rinuncia a capire quel che leggi scrivi il tuo Libro lasciaLo perdere smetti di leggere.
Ogni rivoluzione è una riforma ogni riforma è una rivoluzione l'uomo alberga in sé quel che si chiama donna la donna è anche uomo, la filosofia è cacca silenziosa e cieca.
L'uno è nulla.
Il Due è Tutto.
lunedì 26 ottobre 2015
Cominciamo bene! (Risposta a Mauro Piras)
Caro Mauro Piras, caro collega, mi è dispiaciuto apprendere, leggendo il tuo articolo su Le parole e le cose, che il tuo anno scolastico è iniziato male. Forse non ti sarà di grande consolazione ma vorrei dirti che sei in buona compagnia: a causa del caos creato dalla riforma, l'anno scolastico è iniziato piuttosto male anche per me e direi per la maggior parte dei miei colleghi. Anzi, per essere sincero, se io fossi un insegnante menefreghista dovrei dire che queste prime settimane sono state piuttosto gradevoli, perché anziché 18 ore di lezione frontale alla settimana ne ho fatte di meno e ho avuto più tempo per leggere, scrivere, pensare e dedicarmi alla mia famiglia. Grazie alla riforma Giannini fortemente voluta da Renzi, nella mia scuola mancano molti insegnanti e nell'attesa della loro immissione in ruolo abbiamo navigato a orario ridotto. Ma poiché non sono del tutto egoista sono un po' preoccupato per le lezioni perse dai miei allievi, per un equivalente ormai quantificabile in diversi giorni. L'anno è iniziato male perché si è perso ulteriore tempo-scuola oltre a quello sottratto dalla riforma Gelmini della quale l'attuale ministro non ha toccato una virgola.
Relativamente a questo caos assunzioni, nel tuo articolo parli di una "logica rovesciata" che dominerebbe il mondo della scuola. È un concetto interessante, con un aroma hegelo-marxiano. Mi ha colpito il fatto che in un primo momento tu riferisca questa logica rovesciata al ministero riformatore, per poi attribuirla in un secondo momento (senza dirlo) ai docenti responsabili della resistenza opposta alla riforma Giannini, come noto largamente contestata dal corpo docente e studentesco. Leggendo il tuo articolo, sembra inizialmente che questa logica rovesciata, bisognosa di uno sguardo esterno capace di coglierne il rovesciamento e magari di rimetterla sui suoi piedi, accomuni governo e docenti. Ci si aspetterebbe quindi una certa equanimità magari non perfetta, essendo tu un insegnante. Tuttavia, dopo poche righe si scopre che in realtà attribuisci ai docenti tutta la responsabilità della cattiva scuola, cioè di questo rovesciamento logico della presunta buona scuola renziana. Vediamo i tuoi argomenti.
Il primo è di tipo engelsiano: la quantità si converte in qualità. Valuti positivamente il fatto che "il ministero è stato capace di realizzare molto in poco tempo". Apparentemente non ti importa se questo molto sia buono o cattivo, ma piuttosto che sia stato realizzato: il reale (o meglio: il realizzato) è razionale, il razionale è reale (o meglio: realizzato).
In alcuni tuoi articoli a difesa della buona scuola (o piuttosto all'attacco dei suoi oppositori), sembravi già sostenere che sia meglio una riforma qualsiasi piuttosto che nessuna riforma. Ma ora la cosa si fa chiara: viva il governo del fare! Eppure, anche il ministero Gelmini aveva realizzato una riforma, per altro completamente recepita dall'attuale riforma Giannini. Dovremmo lodare Gelmini per il semplice fatto di avere realizzato il suo obiettivo? Forse il criterio non è soltanto quello del fare ma anche quello del che cosa e del come.
A me in effetti pare che il tuo presupposto tacito sia che questa riforma è tutto sommato una buona riforma. Fino a qui tutto bene, ognuno può sposare le idee che vuole, specie se le argomenta in maniera articolata come tu sei abituato a fare da filosofo.
Ora, però, teniamo presente un dato di realtà: anche se non lo dici apertamente, tu sei notoriamente un sostenitore della buona scuola (mi hai detto che hai anche collaborato alla sua stesura). In questo modo potrebbe risultare più comprensibile il tuo successivo argomento.
Lo si potrebbe battezzare l'argomento dell'"arrendetevi: ogni resistenza è futile". Sostieni infatti che "è arrivato il momento di dire basta" e che ciò debba concretizzarsi in un ritorno "alla logica normale delle cose". Come si torna alla normalità? Se governo e lavoratori della scuola fossero entrambi responsabili, come sembravi sostenere fino a un certo punto, dovremmo pensare a una soluzione che coinvolga entrambi: una mediazione, un compromesso, almeno un tentativo che invece è completamente mancato da parte governativa. Tuttavia non elargisci consigli al governo, ma soltanto ai suoi oppositori: gli insegnanti e i sindacati (anche se è vero che all'inizio dell'articolo ti scandalizzi perché il primo giorno di scuola un sindacalista è stato invitato in radio a parlare della riforma). Per tornare alla normalità suggerisci "di pensare che la scuola è per gli studenti, e quindi deve venire incontro alle famiglie, non metterle in difficoltà". Questo argomento ha dell'incredibile. A parte il fatto che non vedo chi potrebbe pensare che la scuola sia cosa degli insegnanti, per il semplice fatto che gli insegnanti a scuola lavorano e non esercitano alcun potere azionario (nonostante la moda del frame "scuola-azienda"). Ma quel che è più grave è che questo argomento, come la tua fascinazione hegeliana nei confronti di ciò che è stato realizzato, potrebbe venire usato per difendere qualsiasi riforma. Quando Gelmini ha imposto la sua riforma bisognava forse rinunciare a scioperare per il bene delle famiglie? Ma se si contesta una riforma non è appunto per tentare di evitare che i cittadini siano danneggiati? Chi contesta la riforma Giannini non lo fa appunto perché ritiene che questa, deturpando e distruggendo la scuola pubblica con l'introdurvi criteri aziendalistici e antiegualitari, causerà gravi danni alle famiglie, agli studenti, al paese nel suo insieme? Non è forse esattamente per questo che si sciopera? O forse pensi che si scioperi per danneggiare le famiglie, per malvagità d'animo o per fare dispetto al governo Renzi?
Per tornare alla normalità, suggerisci tu, bisogna prestare attenzione alla forma della mobilitazione. Per esempio i sindacati propongono "di fatto di andare contro la Legge 107 per quanto riguarda la valutazione dei docenti" ed eventualmente "di boicottare l'attività del Comitato di valutazione". Ma tu trovi inaccettabile questo "boicottaggio interno" perché "resta tutta dentro la logica rovesciata di cui abbiamo parlato". Eppure dici di non condividere affatto la "meritocrazia improvvisata" della riforma ("serve a poco ed è molto difficile da gestire"): ritieni che una cattiva meritocrazia sia meglio di nessuna meritocrazia? In ogni caso bisogna rovesciare la logica rovesciata, perciò dovremmo far valere "l'imperativo kantiano, che ci impone di separare il terreno della critica pubblica, sempre legittima, da quello dell'applicazione delle leggi". Scomodando Kant, sostieni in maniera idiosincratica e bizzarra che nessuna disobbedienza civile sarebbe ammissibile, ma soltanto la dura e giusta applicazione della Legge accompagnata dalla pura e astratta testimonianza delle idee. Ci stai paternalisticamente dicendo che, in quanto ormai sconfitti, dovremmo rinunciare ai nostri diritti di lavoratori e cittadini. E soprattutto ci stai dicendo che non possiamo non collaborare con la riforma. E perché non potremmo? Il perché è legato al fatto che, come ricordi agli sbadati, “la scuola ha a che fare con l'educazione”. Ma qui il terreno minato del tuo raddrizzamento logico inizia a conflagrare. Innanzitutto perché il frame della scuola-azienda, inculcatoci dal disegno di legge Aprea fino all'attuale riforma, implica esattamente la cancellazione della dimensione (di comunità) educativa della scuola. È proprio contro questa aziendalizzazione della scuola che ci battiamo e ci batteremo a lungo e onestamente, ben consci dell'importanza di mantenerci fedeli alla verità che la scuola non è un'azienda e non produce merci, che la qualità dell'istituzione educativa non si quantifica secondo criteri miopi e meccanici, non si misura secondo meri criteri produttivi perché essa ha per oggetto dei soggetti (questo esempio non è un cane di paglia: la riforma vuole valutarci su quanto "produciamo", per esempio su quanti viaggi di istruzione accompagniamo o su quanti progetti mettiamo in piedi, a prescindere dal senso e dal valore di questi viaggi di istruzione e progetti).
Ci fai sapere che per te educazione significa "un po' di senso civico e rispetto della legalità": ma lo spirito critico non rientra tra le dimensioni fondamentali dell'educazione? Ma soprattutto: il senso civico e la legalità à la Piras non ammettono disobbedienza. E allora che fine fa la nonviolenza moderna con le sue tecniche, praticate da Gandhi, dal reverendo King, da Capitini, Danilo Dolci e molti altri che non somigliano a degli estremisti anarchici? La disobbedienza civile, secondo te, riguarderebbe "solo casi di violazione di principi fondamentali iscritti nella Costituzione". Ma questo è esattamente ciò che sosteniamo noi avversari della riforma Giannini (e con lo sciopero del 5 maggio si è reso manifesto che siamo la maggioranza): la riforma viola i principi costituzionali fondamentali relativi alla scuola, per esempio perché assegna al dirigente il potere di scelta dei docenti in barba ai concorsi pubblici e alle graduatorie, introduce differenze salariali che sfuggono alla contrattazione, favorisce la differenziazione delle scuole secondo i territori e le loro condizioni socioeconomiche (nelle scuole più in difficoltà sarà molto difficile attrarre bravi insegnanti e risorse), favorisce l'ingerenza privata nella scuola pubblica attraverso il potenziamento degli stage aziendali e le detrazioni fiscali per le donazioni private alle scuole, e altro ancora (come ha evidenziato Ferdinando Imposimato). Ed è per questo che molti, tra noi insegnanti, sono pronti a disapplicare la legge quanto più possibile.
La tua incomprensione dell'obiezione democratica a una legge ingiusta diventa palese quando osservi, correttamente, che la nonviolenza implica l'accettazione della punizione, ma inviti poi, scorrettamente, gli oppositori della riforma a farsi punire non si sa bene per che cosa: non mi pare che nessun insegnante stia organizzando la clandestinità per sfuggire alle punizioni dirigenziali, se ve ne devono essere. Se non sono previste punizioni, per esempio per il boicottaggio e la mancata costituzione del comitato di valutazione, questo significa semplicemente che la Legge 107 fa acqua anche da quella parte, e non si capisce a quale punizione autoinflitta dovremmo esporci per soddisfare la tua errata reinterpretazione della disobbedienza civile.
Ma se il concetto di disobbedienza civile ti sembra troppo forte, non dovresti almeno negarci la possibilità di ricorrere alla non-collaborazione, tecnica nonviolenta che può mantenersi nella perfetta legalità (a rischio di minor dignità etica, ma quella l'hai già negata alla disobbedienza). Avresti da eccepire per esempio di fronte a quella che Gene Sharp classifica come "sottomissione lenta e riluttante"?
Quando gli avversari di un regime o di una politica non si sentono in grado di resistere incondizionatamente, possono in certi momenti procrastinare per quanto possibile la sottomissione ed obbedire alla fine con una marcata assenza di entusiasmo e sbadatamente. Cosi, pur non venendo completamente bloccata, la facoltà del regime di attuare i propri piani può essere rallentata e in qualche misura limitata (Politica dell'azione nonviolenta, vol.2, p. 178)
Oppure potremmo ricorrere alla "non obbedienza in assenza di sorveglianza diretta" (tecnica n. 134 di Politica dell'azione nonviolenta). Sembra praticabile anche la tecnica n. 136: "Si può disobbedire a leggi, regolamenti od ordini in modo tale da dare alla disobbedienza l'apparenza appena dissimulata dell'acquiescenza". Probabilmente questo scenario non ti piace, e non piace neanche me, perché vorrei anch'io una scuola diversa e democratica: ma l'imposizione di questa riforma non ci lascia alternative, e il tuo richiamo categorico a Kant mi convince che una convinta, onesta e aperta non-collaborazione sia la strada giusta per opporsi.
In conclusione tu inviti i docenti (non il governo né il partito di governo) a occuparsi di "promuovere una politica che abbia come obbiettivi primari la lotta alla dispersione, la trasformazione della didattica, l'inclusione, l'integrazione degli immigrati, una maggiore collaborazione tra la scuola e le famiglie, una scuola più aperta alle esigenze del territorio e delle famiglie ecc.". Ottima idea. Tu stesso avevi proposto delle idee interessanti per la riforma dell'insegnamento della filosofia: perché non ricominciare quel lavoro? Io credo che, senza pretendere di raddrizzare logiche, se provassimo a lavorare a una riforma della scuola che coinvolgesse gli insegnanti (seriamente e non con farsesche consultazioni online) si scoprirebbe che la scuola italiana ha bisogno e desiderio di molto altro che non sia la valutazione quantitativa e premiale di docenti e discenti o un'accresciuta governance.
venerdì 11 settembre 2015
Delitto e castigo (Scattone e la scuola)
Con la vicenda recente di Scattone, il giustizialismo non c'entra molto, se è giustizialismo l'atteggiamento di chi chiede violentemente che giustizia sia fatta. Qui, giustizia è stata fatta, anche se all'italiano medio 5 anni per omicidio colposo non sembrano una pena sufficiente. Non spetta naturalmente all'italiano medio decidere l'adeguatezza di una pena, in generale e tantomeno nel caso particolare. Certo, la sopraggiunta mancanza di fiducia popolare nei "sistemi esperti" come la magistratura (ma anche il sistema medico, quello assistenziale) non aiuta l'opinione pubblica, o meglio ciò che ne rimane camuffato da folla sbraitante (e mi includo nella folla) per il panem et circenses, ad avere un rapporto sereno con un simile fattoide. Dico fattoide perché non era accaduto nessun fatto fino all'abbandono della cattedra da parte di Scattone, evidentemente per l'ostilità mediatica (per non dire linciaggio), ma forse anche per quella ambientale di cui non sappiamo (mi immagino il preside e i colleghi della scuola nella quale sarebbe dovuto andare ad insegnare).
Il punto su cui mi pare si dovrebbe riflettere non è emerso. Se Scattone non è stato condannato all'interdizione dai pubblici uffici ha pieno diritto di concorrere a un qualsiasi posto pubblico, e in questo senso ha torto chi vuole negargli questo diritto. Tuttavia mi pare che ci sia un sintomo grosso come una casa nel trattare L'INSEGNAMENTO NELLA SCUOLA DELL'OBBLIGO COME UN IMPIEGO PUBBLICO QUALSIASI. Non parlo di difficoltà, conoscenze e competenze, ma di responsabilità. A torto o a ragione siamo abituati ad attribuire all'insegnante una responsabilità diretta che non attribuiamo a un postino oppure a un funzionario ministeriale. Con responsabilità diretta intendo dire che vi sono molti gradi di responsabilità in chiunque viva e lavori in società, ma quella dell'insegnante sembra essere maggiore di altre, paragonabile per certi versi a quella del medico o del giudice, e sembra poter avere degli effetti diretti sulle giovani persone affidate al professore. Ora, noi siamo abituati ad attribuire agli insegnanti questa responsabilità, ma siamo anche abituati ad attribuire loro una sorta di aura morale che non è prevista nel contratto. La domanda è: anche per un insegnante vale la battuta di Max Scheler, professore universitario di etica sorpreso dal suo rettore all'uscita da un bordello: "i filosofi sono come i cartelli stradali, indicano la strada giusta ma non la prendono essi stessi"? Un insegnante deve essere campione e simbolo di moralità a prescindere dalla correttezza con cui svolge il suo lavoro? Sembrerebbe di poter rispondere di no. Ma si dirà che il caso di Scattone è diverso: qui si tratta di un omicida che ha sparato per gioco a una ragazza, uccidendola. La condanna però è per omicidio colposo. Sosterremmo che chi ha ucciso qualcuno in automobile debba essere privato della possibilità di insegnare a scuola? I casi sono molto diversi, certamente, ma intravvedo una china pericolosa imboccata la quale si potrebbe voler sostenere che anche un insegnante condannato per furto non sarebbe degno di insegnare (quanto meno certe materie, come diritto ed educazione civica?). Avere Scattone per collega mi avrebbe creato un profondo disagio. Mi darebbe forse anche disagio avere per collega qualcuno che avesse ucciso in automobile o che fosse stato condannato per qualche violenza (un padre violento può insegnare matematica agli adolescenti?). Le potenziali situazioni di disagio sono tante, bisogna pensarle caso per caso ma sentiamo il bisogno di un criterio generale, di una legge dello Stato o di una direttiva del ministero competente che ci tolga dall'imbarazzo. Forse basterebbe separare l'interdizione dai pubblici uffici e quella dall'insegnamento.
La vicenda Scattone ci fa puntare i riflettori dell'attenzione su due sfere molto critiche della nostra società, che fino a oggi non si erano mai intersecate (tranne sporadiche proteste contro qualche reduce degli anni di piombo imvitato occasionalmente a parlare in qualche scuola): il ruolo della pena e il ruolo morale della scuola e degli insegnanti.
Concordo con chi dice che la nostra società ha dimostrato anche in questo caso di essere in profonda crisi; aggiungo che è in crisi perché è diventata una società incapace di pensare.
Il punto su cui mi pare si dovrebbe riflettere non è emerso. Se Scattone non è stato condannato all'interdizione dai pubblici uffici ha pieno diritto di concorrere a un qualsiasi posto pubblico, e in questo senso ha torto chi vuole negargli questo diritto. Tuttavia mi pare che ci sia un sintomo grosso come una casa nel trattare L'INSEGNAMENTO NELLA SCUOLA DELL'OBBLIGO COME UN IMPIEGO PUBBLICO QUALSIASI. Non parlo di difficoltà, conoscenze e competenze, ma di responsabilità. A torto o a ragione siamo abituati ad attribuire all'insegnante una responsabilità diretta che non attribuiamo a un postino oppure a un funzionario ministeriale. Con responsabilità diretta intendo dire che vi sono molti gradi di responsabilità in chiunque viva e lavori in società, ma quella dell'insegnante sembra essere maggiore di altre, paragonabile per certi versi a quella del medico o del giudice, e sembra poter avere degli effetti diretti sulle giovani persone affidate al professore. Ora, noi siamo abituati ad attribuire agli insegnanti questa responsabilità, ma siamo anche abituati ad attribuire loro una sorta di aura morale che non è prevista nel contratto. La domanda è: anche per un insegnante vale la battuta di Max Scheler, professore universitario di etica sorpreso dal suo rettore all'uscita da un bordello: "i filosofi sono come i cartelli stradali, indicano la strada giusta ma non la prendono essi stessi"? Un insegnante deve essere campione e simbolo di moralità a prescindere dalla correttezza con cui svolge il suo lavoro? Sembrerebbe di poter rispondere di no. Ma si dirà che il caso di Scattone è diverso: qui si tratta di un omicida che ha sparato per gioco a una ragazza, uccidendola. La condanna però è per omicidio colposo. Sosterremmo che chi ha ucciso qualcuno in automobile debba essere privato della possibilità di insegnare a scuola? I casi sono molto diversi, certamente, ma intravvedo una china pericolosa imboccata la quale si potrebbe voler sostenere che anche un insegnante condannato per furto non sarebbe degno di insegnare (quanto meno certe materie, come diritto ed educazione civica?). Avere Scattone per collega mi avrebbe creato un profondo disagio. Mi darebbe forse anche disagio avere per collega qualcuno che avesse ucciso in automobile o che fosse stato condannato per qualche violenza (un padre violento può insegnare matematica agli adolescenti?). Le potenziali situazioni di disagio sono tante, bisogna pensarle caso per caso ma sentiamo il bisogno di un criterio generale, di una legge dello Stato o di una direttiva del ministero competente che ci tolga dall'imbarazzo. Forse basterebbe separare l'interdizione dai pubblici uffici e quella dall'insegnamento.
La vicenda Scattone ci fa puntare i riflettori dell'attenzione su due sfere molto critiche della nostra società, che fino a oggi non si erano mai intersecate (tranne sporadiche proteste contro qualche reduce degli anni di piombo imvitato occasionalmente a parlare in qualche scuola): il ruolo della pena e il ruolo morale della scuola e degli insegnanti.
Concordo con chi dice che la nostra società ha dimostrato anche in questo caso di essere in profonda crisi; aggiungo che è in crisi perché è diventata una società incapace di pensare.
mercoledì 5 agosto 2015
In dialogo col destino (Intuizione 41)
Ciò che chiamiamo intelligenza si manifesta innanzitutto come capacità di corrispondere al proprio destino, ossia la successione casualmente ordinata degli eventi di cui la nostra vita è inevitabilmente sostanziata.
martedì 3 marzo 2015
Progetti 2015
1) La rilevanza cinematografica (con enrico Terrone).
2) Contro l'idealismo di Diego Fusaro.
3) Badiou, Lacan, Recalcati e il nuovo realismo
4) Il senso di "senso".
3) Badiou, Lacan, Recalcati e il nuovo realismo
4) Il senso di "senso".
Tracce:
- il senso-indicibile, nel Tractatus;
- la partizione di Hjelmslev (espressione/contenuto);
- l'evoluzione di "senso" dall'estetica alla logica e alla linguistica (Ferraris?);
- il senso nell'Enciclopedia di Hegel;
- il senso nella embodiedcognition
- Sperber, Per una teoria del simbolismo: "nel linguaggio ordinario, ogni oggetto della conoscenza ha per forza un senso"
5) La cognizione storica
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