E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

martedì 7 giugno 2011

Martin Luther King: la forza di amare (da "Senza violenza")


Martin Luther King (1929-1968) pastore battista statunitense, leader del movimento contro la segregazione razziale fu un convinto sostenitore della nonviolenza nella lotta per la conquista della parità dei diritti della popolazione nera.
Nel 1955 aderì al boicottaggio dei trasporti pubblici a Montgomery e divenne in breve il leader carismatico della protesta; nel 1963 organizzò la marcia su Washington cui parteciparono 250000 persone (di cui, secondo le stime ufficiali, 85000 bianchi).
Nel 1964 gli fu assegnato il premio Nobel per la pace. Morì assassinato nel 1968 in circostanze non ancora chiarite.

Il pensiero e l’esempio gandhiano sono fondamentali per il pastore Martin Luther King. «Via via che scavavo a fondo nella filosofia di Gandhi, il mio scetticismo riguardo al potere dell’amore diminuiva gradualmente, ed io arrivai a vedere per la prima volta che la dottrina cristiana dell’amore, operante attraverso il metodo gandhiano della non-violenza, è una delle armi più potenti a disposizione di un popolo oppresso nella sua lotta per la libertà. A quel tempo, comunque, io acquistai solo una comprensione intellettuale ed una stima di quella posizione, e non avevo alcuna ferma decisione di organizzarla in una situazione  socialmente effettiva» (La forza dell’amore, p.268-269).
Infatti Martin Luther King diverrà un leader nonviolento quasi per caso, o comunque non per una scelta precisa in quel senso.
Nel 1955, pastore a Montgomery, Alabama, il pastore si ritrova per la prima volta a constatare nella pratica come la nonviolenza possa organizzare spontaneamente ampi consensi e ottenere effetti concreti.
Tutto nacque con un’improvvisa protesta dei neri contro la discriminazione razziale sugli autobus: «Dopo che ebbi vissuto in quella comunità per circa un anno, ebbe inizio il boicottaggio degli autobus. I neri di Montgomery, esasperati dalle umilianti esperienze che avevano costantemente subito negli autobus, espressero con una massiccia azione di non-cooperazione la loro decisione di essere liberi: giunsero ad accorgersi che, in fin dei conti, era più onorevole camminare dignitosamente per le strade che farsi trasportare in autobus in quella forma umiliante. All’inizio della protesta, essi si rivolsero a me perché servissi loro da portavoce. Accettando tale responsabilità, il mio pensiero, consciamente o inconsciamente, veniva riportato al Discorso della Montagna e al metodo gandhiano della resistenza non-violenta: questo principio divenne la luce che guidava il nostro movimento: Cristo forniva lo spirito e i motivi, Gandhi forniva il metodo» (ibid.).
Cristo e Gandhi, binomio tutt’altro che insolito in ambito nonviolento (Capitini aggiungeva Buddha e San Francesco).
Col procedere della lotta il pastore si convince progressivamente del potere della nonviolenza e tutto gli si schiarisce: «La non-violenza divenne più che un metodo a cui io davo il mio assenso intellettuale; divenne dedizione ad una forma di vita. Molte questioni che non avevo chiarito intellettualmente riguardo alla non-violenza venivano ora risolte entro la sfera dell’azione pratica» (ibid.).
Naturalmente la nonviolenza non ha in sé nulla di magico: «Non vorrei dare l’impressione che la non-violenza possa compiere miracoli da oggi a domani: gli uomini non si lasciano facilmente smuovere dai loro binari mentali o liberare dai loro sentimenti irrazionali», frutto di pregiudizi. Quando i non privilegiati chiedono libertà, i privilegiati dapprima reagiscono con risentimento e resistenza: anche quando le richieste sono presentate in termini non-violenti, la risposta iniziale è sostanzialmente la stessa. Io sono sicuro che molti dei nostri fratelli bianchi a Montgomery e attraverso il Sud sono ancora pieni di risentimento contro i dirigenti neri, anche se questi hanno cercato di seguire una via di amore e di non-violenza. Ma l’azione non-violenta ha un’influenza sui cuori e sulle anime  di coloro che sono impegnati in essa: dà loro un nuovo rispetto di se stessi; suscita risorse di forza e di coraggio che essi non sapevano di possedere; infine, scuote a tal punto la coscienza dell’oppositore che la riconciliazione diviene una realtà» (ivi, p.270).
Martin Luther King, dunque, riconosce nella particolare qualità morale della nonviolenza la sua maggiore attrattiva come metodo di lotta politica.
Ma com’era cominciato lo sciopero dei mezzi a Montmgomery? La signora Rosa Parks era stata arrestata, poi rilasciata su cauzione, per essersi rifiutata di alzarsi e cedere il suo posto ai passeggeri bianchi. Siccome il suo contegno era rimasto rigorosamente cortese l’unica accusa ai suoi danni era di avere violato le norme municipali regolanti la disposizione razziale dei posti sugli autoveicoli pubblici: sufficiente da permettere l’inizio di una lotta contro la discriminazione razziale.
Dopo qualche iniziale esitazione il pastore concede la chiesa di Dexter per un’assemblea in cui discutere del problema. Ma l’appello a boicottare i mezzi pubblici per un intera giornata è già stato lanciato dal Consiglio delle donne.
Il boicottaggio fu un successo, e dopo la condanna di Rosa Parks il suo avvocato presentò ricorso in appello. I capi delle comunità nere decisero che il boicottaggio doveva continuare. King viene nominato presidente dell’associazione costituitasi per condurre il boicottaggio. Preso alla sprovvista il pastore accetta e poco dopo tiene uno dei suoi discorsi più brillanti davanti a una gran folla riunitasi in chiesa. King è determinato nel raccomandare comportamenti nonviolenti: «Noi vogliamo convincere, non imporre con la forza [...]. Noi vogliamo soltanto dire a quelle persone: fatevi guidare dalla vostra coscienza! Le nostre azioni devono essere dettate dai principi fondamentali della nostra fede cristiana. È l’amore che deve determinare il nostro agire, se lotterete con coraggio, ma anche con dignità, nell’amore di Cristo, gli storiografi delle future generazioni un giorno diranno: un tempo visse un grande popolo, un popolo nero, che ha inoculato agli uomini del mondo civilizzato una nuova coscienza, un nuovo sentimento di dignità! Questo è il nostro compito e la nostra grande responsabilità» (ivi, p.44).
Il movimento ha trovato il suo leader carismatico. Nei mesi successivi la situazione diventa tesa e pericolosa. Giungono minacce di morte alla famiglia King e una bomba nel giardino di casa solo per miracolo non uccide la moglie e la figlioletta del pastore.
La televisione segue con grande interesse la vicenda e Martin Luther King diventa uno dei più importanti leader di tutti gli stati uniti. Atti di solidarietà provengono da tutti i continenti.
Un momento di privato sconforto del pastore segna il punto di non ritorno: superato quello King sa di avere la forza per proseguire su quella che ormai è la sua strada e che lui ritiene la chiamata del Signore.
King è pedinato da agenti. Una sera è arrestato per eccesso di velocità: viene portato in carcere, dove la sicurezza per un nero non è mai garantita. Ma una folla inviperita si assembra davanti all’edificio e chiede la sua liberazione. La polizia cede e lo rilascia dopo gli accertamenti.
Dopo circa dodici mesi, proprio quando le autorità municipali di Montgomery avevano in mente di intentare un processo per “trasporto di viaggiatori non autorizzato” contro il Movimento per i diritti civili, il che avrebbe reso quasi impossibile continuare la lotta, ecco che la Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la separazione razziale sui mezzi pubblici.
Il “nuovo Gandhi”, come la stampa definiva Martin Luther King, che la sua gente chiamava affettuosamente Little Lord Jesus, Piccolo Signore Gesù, aveva vinto con le armi della nonviolenza, dimostrando al mondo che dopo Gandhi questa forma di lotta fondata sulla “forza di amare” poteva attecchire e portare risultati anche in Occidente.

Testi consultati:
King M.L., La forza di amare, Sei, Torino, 2002.
Zitelman A., Non mi piegherete, Feltrinelli, Milano, 1997.


«I have a dream».
Il testo seguente è tratto dal famoso discorso che M.L.King tenne a Washington il 28 agosto 1963 alla fine della marcia per i diritti civili. Sua moglie Coretta disse: «In quel momento sembrava che fosse apparso il Regno di Dio. Ma fu solo per un momento». Negli schedari dell’Fbi esso fu catalogato come “efficace discorso demagogico”.

E perciò, amici miei, vi dico che anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle colline rosse della Georgia i figli di colo che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!
Io ho davanti a me un sogno che un giorno, in Alabama, con i suoi malvagi razzisti, con il suo governatore dalle cui labbra provengono parole di veto e annullamento, che un giorno, proprio qui in Alabama, i ragazzini neri e le ragazzine nere sapranno unire le mani con i ragazzini bianchi e le ragazzine bianche come se fossero fratelli e sorelle. Ho davanti a me un sogno, oggi!
[...]
E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: «Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente».

Da M.L.King, Io ho un sogno, Sei, Torino, 1993 (Trad. adattata)

[(Tratto da Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)]

domenica 5 giugno 2011

Sulla decrescita (da un post di Fabrizio Illuminati in discussione con un giovane economista, 4-5 giugno 2011)

Ringrazio ancora una volta Fabrizio Illuminati, professore associato di fisica e brillante intellettuale, per avere la pazienza di ingaggiare su Facebook lunghe e serie discussioni su questioni non facilmente accessibili ai non esperti.
La generosità comunicativa di persone come Fabrizio costituisce per me la più forte confutazione dei molti neoapocalittici, scettici verso la potenza emancipativa dei social network.
 

(Per chi ha tempo e pazienza, qui c'è il link all'intera discussione). 
(Per chi fosse interessato, qui Fabrizio si è espresso anche sull'energia nucleare e le energie alternative).


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Innanzitutto non è assolutamente vero che redistribuzione e stato sociale si impongono quando l'economia cresce. I grandi programmi di welfare e di massiccio intervento statale europei ed americani si sono imposti a cavallo delle due guerre mondiali, in particolar modo a partire dal 1930, ovvero in periodo di fortissima recessione e di fortissima disoccupazione. E taccio ovviamente degli esperimenti sovietici e cinesi che nacquero entrambi in tale temperie storica. Va bene leggere Stiglitz e gli altri simpaticoni di oggi, ma la storia bisogna conoscerla. Soprattutto, poiché l'economia è lungi dall'essere una scienza ed è purtroppo "esposta" (diciamo così) alla dominance ideologica del momento, dovrebbe intervenire con moltissima umiltà su cose quali le risorse, l'energia, l'entropia, e il riscaldamento globale, che sono questioni che si possono affrontare solo possedendo conoscenze scientifiche molto avanzate. In particolare, un mito disastroso che purtroppo la dominanza ideologica attuale nella "scienza economica" a elevato a dogma indiscutibile, è la fede nella possibilità che la crescita economica possa continuare indefinitamente su un pianeta che ha risorse finite. Questo mito della "crescita infinita" che prescinde dalla conoscenza del sustrato fisico e materiale del pianeta, si è imposto come "dogma centrale" del neoliberismo ed è ormai accettato da tutti gli economisti come un'evidenza fattuale ovvia, siano essi ultraliberisti o socialdemocratici correttivisti. Peccato che la crescita indefinita sia impossibile.
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Innanzitutto, che la redistribuzione si imponga "più facilmente" quando l'economia cresce non è affatto automatico. Dipende. Durante la "golden age" 1945-1975 è stato sicuramente così, ma, guarda un po', anche in quel caso attraverso un massiccissimo intervento della politica, cioè dei cittadini e dei lavoratori, cioè di quelli, che nei sogni dell'economista "oggettivo e liberista" dovrebbero proprio scomparire e non avere mai voce in capitolo. Altrimenti non ci sarebbe stata nesssuna redistribuzione, o molto minore: il contesto politico e culturale è cruciale, l'economia ne dipende, eccome. Vediamo invece che poi, una volta raggiunto l'obiettivo (tenacemente perseguito) di disarticolare le aggregazioni politiche che miravano a tenere sotto controllo i meccanismi "spontanei" del capitale (obiettivo raggiunto al termine della recessione stagflazionista degli anni '70 e dei primi anni '80), ecco che "magicamente" crescita e redistribuzione hanno smesso di marciare insieme. Nonostante periodi di fortissima crescita, almeno due, dal 1984 al 1988 (era Reagan-Thatcher, per semplificare) e poi di nuovo dal 1993 al 1999 (era Clinton, sempre per semplificare), la concentrazione dei capitali a sfavore dei redditi da lavoro è andata costantemente aumentando dal 1979 in poi, e non è certamente un caso. E' un portato della vittoria delle forze che si oppongono all'idea redistributiva. E si oppongono sempre, sia che l'economia cresca, sia che l'economia non cresca. Infatti il "mantra" che ha sostituito qualsiasi altra possibile relazione concettuale in economia è quello della "crescita", che dovrebbe lenire tutto, sostituendosi alla redistribuzione, secondo l'assunto che dalle briciole dei 50 miliardi in più di Marchionne & friends, qualcosa arriverà, per "percolazione", anche in basso. Tutto sta ad indicare che non è assolutamente così, perfino in paesi dove gli "animal spirits" del capitale sono più sotto controllo rispetto a paesi con tradizione da jungla sociale, tipo gli USA. Veniamo poi alla questione dell'esaurimento delle risorse: è un ben curioso discorso quello di dire, sia pure arbitrariamente (nessuno può valutare esattamente quante risorse non rinnovabili abbiamo già distrutto), che siccome, puta caso, abbiamo consumato "solo" 1/3 delle risorse contenute nello strato crustale della terra, allora possiamo andare avanti tranquillamente. Che logica è?!? Con questo modo di ragionare, che trovo, scusami, paradossale (eufemismo), la transizione al collasso, se non riguarderà noi, riguarderà i nostri figli o i nostri nipoti. Sinceramente non mi sembra un atteggiamento molto costruttivo verso il futuro. L'economia non può eludere i dilemmi posti dalle scienze e dalle conoscenze vere della fisica e della biologia. Se lo fa, è per interessi tragicamente miopi, ristretti, e con orizzonti limitatissimi. Dobbiamo accettare l'idea che per sopravvivere in maniera degna e decorosa dobbiamo produrre e consumare ad un ritmo non superiore a quello con cui la natura rinnova le sue scorte, non ci sono alternative. Il mito della tecnologia che risolve ogni problema, è, per l'appunto, un mito, che ha sostituito, nell'uomo moderno privo di profonde conoscenze scientifiche, i vecchi miti religiosi del Paradiso e del paese di Cuccagna. Guarda caso, gli scienziati sono refrattari a questo mito. Ogni danno che provochiamo può essere sì mitigato dall'iniezione di nuova tecnologia, ma questa di norma si accompagna a una serie di nuovi problemi che diventano man mano sempre più difficili da trattare. Prevenire, in altri termini, è sempre meglio che curare, e il motivo di fondo è che non c'è scampo al secondo principio della termodinamica. Faccio presente che l'ecological footprint è solo uno, e certo non il più scientifico, degli indicatori proposti per capire se e a quale ritmo ci stiamo dirigendo verso una transizione all'overshoot e poi al collasso. Ci sono approcci scientifici, che uniscono il meglio della climatologia, della chimica fisica, della fisica dei sistemi complessi, che hanno portato nel tempo allo sviluppo di una cornice sistemica (e non di processo) per avere un quadro globale della situazione, costruire modelli, e fornire delle previsioni (verificabili) a medio e lungo termine. Naturalmente, trattandosi di modelli dell'impatto antropico sul pianeta in presenza di meccanismi complessi di retroazione, le previsioni sono di natura essenzialmente qualitativa, e solo molto a spanne quantitativa. Pure, le conclusioni sono chiare e non ambigue, e si possono confrontare con quello che poi è realmente accaduto nelle serie temporali. Prendiamo allora lo studio più famoso nell'ambito dell'approccio sistemico, quello del 1972 del club di Roma, il famoso (o infame, a seconda dei punti di vista) "The limits to growth". Allora furono spernacchiati e derisi perché si volle per forza sostenere (in non perfetta buona fede, per così dire) che le previsioni di Meadows e compagni erano strettamente quantitative e verificabili nel giro di pochi anni. Ma "The limits to growth" non era e non voleva essere questo. Presentava una serie di situazioni modellistiche, del tipo input-backaction-output, e in base ai diversi input forniva diversi scenari di output a lungo termine. In particolare prevedeva, tra le altre, due possibilità distinte: transizione al collasso per diminuzione delle risorse, oppure per aumento dell'inquinamento (ovvero di porzioni di materia ed energia degradate, e che diventano "veleno" per noi, proprio come gli escrementi nella colonia di batteri quando il vino è ancora presente e abbondante). E poi, naturalmente, combinazioni intermedie dei due. Quarant'anni dopo, a guardare i grafici e le curve di Meadows et al., ci accorgiamo che le loro previsioni sono state piuttosto accurate, e che la tendenza qualitativa oggi è indubitabilmente quella discussa da loro nel lontano 1972. Un chimico fisico di vaglia internazionale, Ugo Bardi dell'Università di Firenze, ha appena pubblicato per i tipi della Springer un ottimo aggiornamento del vecchio rapporto al Club di Roma "The limits to growth, revisited" (per ora disponibile solo in inglese), che giunge a conclusioni analoghe. La tecnologia "buona" da sola non ci salverà, se non ci sarà un controllo politico globale (possibilmente dal basso da parte di cittadini informati e responsabili) sui processi economici, dalla produzione, al consumo, alla distribuzione. Nello stesso capitale vediamo questa lotta in atto: da una parte i "cornucopiani" alla Marchionne, che costruiscono SUV sempre più grandi e sbevazzoni e si esaltano con il contratto aziendale del lavoratore (nuova/vecchia forma di schiavitù: in Europa occidentale nel '900 è stato in vigore in un solo paese, dal 1933 al 1945, penso indovinerai di quale paese si tratta). Dall'altra i tanti eroi senza volto e senza maglione che costruiscono e rischiano i capitali per le nuove infrastrutture fotovoltaiche di domani. Differenza abissale di modelli, di cultura, di essere. Bisogna scegliere, e capisco che per un economista di oggi, che al 95% finirà in una agenzia di consulting, la scelta della crescita senza limiti appaia obbligata. Ma è un vicolo cieco, per loro, e, purtroppo, anche per noi.
...
Il discorso scientifico, ridotto in pillole, è che dobbiamo trovare un modo per consumare allo stesso ritmo (o inferiore) al quale le risorse si riproducono (materia-energia; sorgenti), al contempo dobbiamo produrre rifiuti allo stesso ritmo (o inferiore) al quale il pianeta è in grado di metabolizzarli (entropia; pozzi). Allo stato attuale, e diciamo dall'inizio circa della rivoluzione industriale, non lo stiamo facendo. Ci sono altri case-studies ben noti, del passato pre-industriale, in cui questo è accaduto, per sistemi abbastanza isolati da rappresentare dei "pianeti" in piccolo. Ad esempio, dal lato dell'energia, la fine dell'isola di Pasqua (deforestazione irrazionale; sorgenti). Oppure casi in cui il combinato disposto dei due effetti (sorgenti sempre più scarse; pozzi sempre più pieni), ha avuto un ruolo determinante (crollo della mezzaluna fertile). Puoi leggere utilmente Jared Diamond & coworkers su questi e altri temi. Il libro che ho citato è di Bardi, e sta uscendo in inglese da Springer questa settimana, l'altro, quello che citi tu ed è edito da Mondadori, è l'update di Meadows del 2003. Non ho mai scritto, né lo hanno mai scritto Bardi o quelli del club di Roma, che la fine è segnata e che moriremo tutti, qualsiasi cosa si faccia. Se credessi questo, non starei qui a discutere con un laureato in economia, ti pare. La storia dell'umanità è sempre in bilico tra condanna e salvazione, dipende da noi e dalle nostre scelte. Per questo si valutano scenari, come fanno Meadows e quelli della system dynamics. E qui veniamo al ruolo della tecnologia. Per quanto riguarda la tecnologia, non ho detto che è inutile, o che è necessariamente dannosa, ho scritto una cosa molto diversa: che NON è e NON può essere la soluzione mitologica che ci permette di continuare a fare BAU (Business As Usual). Cerco di spiegarmi ancora una volta. Se continuiamo il BAU, cioè a bruciare carbone, gas, e petrolio, come e più di prima, andiamo verso la tenaglia dell'energia decrescente (sorgenti che si esauriscono) e dell'entropia montante (global warming, pozzi che si riempiono). Se questo rimanesse lo scenario, ben difficilmente qualsiasi nuova tecnologia (ad esempio il sequestro della CO_2) potrebbe ritardare più di qualche decennio il verificarsi di situazioni molto incresciose. Naturalmente non lo posso dimostrare nello stesso modo di come posso dimostrare la legge di Newton, perché sto parlando di processi e sistemi complessi, su larga scala. Tuttavia la modellistica sistemica a questo serve, a dirci, in base agli scenari che si prefigurano, quali possono essere gli output. Infatti, se leggi i vari flow charts di Meadows, vedi che a un certo punto analizza lo scenario in cui si utilizzano prevalentemente fonti rinnovabili e contestualmente la produzione di entropia si mantiene limitata: le simulazioni di Meadows prevedono che se effettuiamo questo tipo di transizione nel giro di qualche decennio, allora tutti i parametri vitali del pianeta decrescono lentamente nel tempo per poi stabilizzarsi su un livello più basso dell'attuale, ma comunque accettabile per tutti e sostenibile a lungo termine. Anche qui, non è come dimostrare la legge di induzione di Faraday, ma è certo molto meglio dei ridicoli pseudo-teoremi matematici degli economisti applicati a realtà virtuali. Detto questo, veniamo alle rinnovabili e alla disponibilità di energia, per capire ancora meglio la differenza tra l'approccio fisico-sistemico e l'approccio BAU + crescita infinita degli economisti (di oggi). Ci sono due modi in cui possiamo fare le rinnovabili: cercando di "inverare" il concetto di energia infinita, oppure cercando di mantenere un equilibrio con la produzione di entropia. Il primo è il sogno degli economisti, ma è anche l'incubo del pianeta. Esempio: c'è una tecnologia eolica, si chiama Kite-Gen (Kite Wind Generator, per la precisione), che è basata su profili alari che salgono e scendono a quote troposferiche (tipicamente intorno ai 1200 metri di altezza). A quelle quote (e più alte), i venti soffiano forti e costanti 24 ore su 24 in molte zone del pianeta (i primi a segnalare il fenomeno furono i piloti americani nella II guerra mondiale). Si è calcolato che con un buon sistema di controllo automatico a terra, un KiteGen di medie dimensioni può assicurare una potenz installata vicina a 1GW, cioè del tutto paragonabile a quella di una centrale nucleare di dimensioni medio-piccole. WOW! Sembrerebbe l'uovo di Colombo, ma in realtà non lo è, perché uno sfruttamento incontrollato dei KiteGen porterebbe ad un utilizzo finale dell'energia sempre più alto, e contemporaneamente a cambiamenti entropici e climatici della terra sempre più devastanti (ci sono ottimi studi a riguardo). Ecco allora quali devono essere le tre gambe della transizione: sicuramente le rinnovabili, e spero di non dover spiegare perché; poi, per le stesse, l'avanzamento scientifico-tecnologico; infine, il controllo sulla retroazione, ovvero una filiera e un sistema che assicurino che la produzione di entropia non superi la capacità del pianeta di riassorbirla. Senza l'ultima gamba, le prime due sono inutili perché riprodurrebbero il BAU sotto altre forme, e il nostro destino sarebbe di nuovo doomed. Spero di essere stato un po' più chiaro, questa volta. Un PS sulla tecnologia. Essendo un fisico, insieme ai miei colleghi non abbiamo dovuto aspettare per sapere che tutto ciò che è cordless, cioè funge da antenna elettromagnetica, è potenzialmente molto pericoloso per la salute (dal cell, al router wi-fi, alla centralina del cordless per il telefono fisso). I danni a lungo termine saranno probabilmente imponenti, difficile fare previsioni ora, ma se fin dall'inizio si fosse adottato un atteggiamento scientifico (e non economico "a vista"), avremmo puntato ai cavi e alle cablature (il passaggio in cavo o in fibra scherma enormemente l'intensità del campo e.m.), e non ci ritroveremo, tra qualche anno, a dover riconvertire tutto con costi e sprechi enormi, e ulteriore aggravio di sorgenti e pozzi. Questo è l'outlook scientifico: un mix molto delicato di ricerca, consapevolezza, e atteggiamento razionale e prudente rispetto al "se si può fare allora si deve fare". Nessun desiderio di tornare nelle caverne, come gli economisti a corto di argomenti cercano di far credere, ma l'uso appropriato delle facoltà razionali dell'essere umano, in modo da evitare proprio che alle caverne si arrivi inseguendo ad ogni costo il mito della crescita e del consumo infiniti. Lo so che agli economisti l'aggettivo "stazionario" ripugno. Lo confondono con "statico", "morto", "fermo". Se fossero curiosi di scienza e conoscenza, scoprirebbero che lo stato stazionario, in un sistema aperto con scambi di materia e di energia, è uno stato altamente organizzato, dinamico, e interessante. Possiamo arrivare a uno steady state dell'economia che garantisca la nostra sopravvivenza sul pianeta senza per questo togliere nulla al nostro desiderio perenne di novità e ricerca. Basta indirizzarlo nella direzione giusta, che non può certo essere quella della crescita infinita dei profitti individuali, che ci porterebbe, appunto, ad Olduvai. A noi decidere, consapevolmente.

venerdì 3 giugno 2011

Radiohead, Weird Fishes (In Rainbows).

Nel più profondo oceano
sul fondo del mare
i vostri occhi
mi guidano

Perchè dovrei rimanere qui?
Perchè dovrei rimanere?

Sarei pazzo a non seguirvi
dove mi conducete
I vostri occhi
mi guidano

Mi guidano verso i fantasmi
Seguo il bordo della terra
E cado
Vanno via tutti
Se ne hanno la possibilità
Ed è questa la mia possibilità

Divorato dai vermi
E da strani pesci
Sbocconcellato dai vermi
strani pesci
strani pesci
strani pesci

Già
Sbatterò sul fondo
Sbatterò sul fondo e fuggirò
Fuggirò
Io
Sbatterò sul fondo
Sbatterò sul fondo
Sbatterò sul fondo e fuggirò
Io fuggirò

(Traduzione mia)

Marzia Migliora, Weird Fishes (nero), per Narradiohead, 2009


In the deepest ocean
The bottom of the sea
Your eyes
They turn me
Why should I stay here?
Why should I stay?

I'd be crazy not to follow
Follow where you lead
Your eyes
They turn me

Turn me on to phantoms
I follow to the edge of the earth
And fall off
Everybody leaves
If they get the chance
And this is my chance

I get eaten by the worms
Weird fishes
Get towed by the worms
Weird fishes
Weird fishes
Weird fishes

I'll hit the bottom
Hit the bottom and escape
Escape

I'll hit the bottom
Hit the bottom and escape
Escape

http://www.youtube.com/watch?v=-3DrL8pwu1k

giovedì 2 giugno 2011

Ouï dire

Un giovane filosofo conosciuto a Sofia mi dice che un famoso filosofo italiano un giorno gli ha chiesto: ma tu lo conosci Acotto?
- No, perché?
- Perché tutti i filosofi conoscono Acotto.

La moda di Sarkò. Intervista a Philippe Ridet (Vogue26)



Giornalista di fama e scrittore (il suo Le président et moi, Albin Michel, 2008, è stato un successo di pubblico e di critica) Philippe Ridet vive a Roma da qualche anno, dove lavora come corrispondente italiano di Le Monde. Gli abbiamo rivolto qualche domanda sul rapporto del presidente francese con la moda.
Lei conosce bene il presidente Sarkozy per averlo seguito da vicino, come giornalista, da almeno vent’anni, perciò avrà potuto osservare nel corso del tempo il suo modo di vestire: che idea si è fatta del suo rapporto con la moda?
Il rapporto di Sarkozy con la moda è molto influenzato, giustamente… dalla moda, e da una certa idea (mutevole nel corso degli anni) che lui si fa dell’abbigliamento di un politico. La creazione del suo guardaroba è il frutto di un procedere a tentoni, con avanzate e pentimenti. Nella sua primissima apparizione televisiva nel 1975, durante una trasmissione di propaganda politica (da non perdere su dailymotion!), dove sembrava interpretare il tipico “giovane di destra”, è vestito classicamente come un qualsiasi tipo della sua età a Neuilly (la città della “banlieue chic” di Parigi, dov’è nato e cresciuto e dove ha iniziato la sua carriera politica): pullover di shetland e pantaloni di velluto.
Man mano che procedeva nella sua conquista politica, Sarkozy ha cercato di rendersi notevole secondo i canoni in vigore nel suo partito, il Rassemblement pour la république (RPR). I vestiti segnano così le tappe della sua ascensione: blazer blu acqua marina e pantaloni di flanella grigia come li portava Jacques Chirac, il suo leader, al quale allora era molto vicino. Dopo aver tradito Chirac per Edouard Balladur nel 1995, sperimenta degli abiti più su misura, di taglio inglese, come quelli del primo ministro dell’epoca [Balladur], da lui sostenuto alle presidenziali del 1995. Durante la sua “traversata del deserto”, Sarkozy ritornerà verso uno stile più “decostruito”, più “casual chic”.
L’altra influenza è ovviamente quella delle donne. Agli inizi degli anni 2000, Sarkozy indossa abiti con troppe spalline, con giacche sempre troppo lunghe e pantaloni troppo larghi. Lo fa per consiglio di Cecilia oppure lei ha già segretamente e/o inconsciamente cominciato a volerlo ridicolizzare? Mistero. Dopo la sua prima rottura con lei (nel 2006) e il suo incontro con una giornalista chic di Le Figaro, Anne Fulda, inizia davvero a diventare elegante. È lei che alla fine condurrà Sarkozy verso lo stile che è ancora oggi più o meno il suo. I suoi abiti sono più aderenti al corpo, porta delle camicie più sportive. Cerca di raffinarsi. Le sere delle riunioni, durante la campagna del 2007, quando abbandona la scena si infila un cappotto di cachemire blu marino come un pugile indossa un accappatoio. Devo dire che in quel momento è piuttosto elegante. Bizzarramente, il ritorno di Cecilia dopo sei mesi in cui entrambi i coniugi si sono concessi i loro « giorni perduti » [Ridet allude al film di Billy Wilder, The lost weekend, 1945] non significa un ritorno al passato, almeno non per la moda. Sarkozy continuerà a vestirsi da Dior (periodo Hedi Slimane).
E le sembra di poter confermare il luogo comune secondo cui Carla Bruni avrebbe ulteriormente influenzato il presidente nel suo stile?
Penso che in materia di moda l’essenziale fosse già fatto. La conversione di Sarkozy agli abiti su misura era già avvenuta prima che la top-model piemontese entrasse nella sua vita. In più, la funzione pubblica del presidente non autorizza troppe variazioni nell’abbigliamento, almeno nelle sue apparizioni ufficiali. Ma immagino che lei gli abbia consigliato qualche buon sarto italiano, come Boglioli dal quale il presidente della repubblica francese si fa ormai confezionare i suoi abiti e le sue giacche. Forse sono dettagli, ma in materia di moda, che altro conta se non i dettagli?

Da un'intervista di Elena Brosio, Giovani Genitori, maggio 2011


La coscienza lanterna
“Di noia e immaginazione scriveva già Giacomo Leopardi - afferma Edoardo Acotto, professore di filosofia e autore del blog Filosofare stanca, http://edoardoacotto.blogspot.com. – La noia per Leopardi scaturisce dal desiderio infinito, che è proprio dell’animo umano e che è impossibile da soddisfare, proprio per la sua caratteristica di essere infinito. L’unico farmaco possibile per la noia era per lui l’immaginazione”. Ma la noia degli adulti è ben diversa da quella dei bambini e Edoardo Acotto ci esorta però a non proiettare sui piccoli le nostre angosce: “la noia degli adulti è in gran parte culturale e molto ben indagata in letteratura e filosofia: dalla melanconia degli antichi, all'angoscia luterana-kierkegaardiana-heideggeriana, lo spleen baudeleriano, la nausea sartriana. La professoressa di psicologia Alison Gopnik, nel suo libro ‘Il bambino filosofo’ compie una interessante distinzione tra la coscienza “faro” degli adulti e la coscienza “lanterna” dei bambini. La coscienza “faro” è come un fascio di luce puntato sull’oggetto della nostra attenzione, mentre nella coscienza “lanterna” l’attenzione è tutta rivolta al mondo esterno “provocando in noi la sensazione di perdere il nostro senso del Sé e di diventare parte del mondo” (Gopnik, p.145). Il bambino, grazie alla sua coscienza “lanterna”, è intensamente coinvolto nelle cose che fa e perciò prova meno la sensazione di noia. Sembrerebbe dunque che la paura della noia sia in realtà soprattutto una paura dei genitori e, come afferma Grazia Honegger Fresco, il bambino non va mai iperstimolato: “Il bambino non impara a giocare da solo, se l’adulto lo distoglie di continuo da ciò che sta facendo, gli offre nuovi oggetti o commenta senza sosta” (‘Abbiamo un bambino’, p.120). In definitiva – conclude Edoardo Acotto - non dobbiamo temere che il bambino si annoi. Lasciamolo libero di usare la sua mente e il suo corpo, accompagnandolo nelle sue scoperte: non gli inculcheremo il concetto di noia, anzi ne guariremo noi stessi”.

giovedì 19 maggio 2011

Sonetto di Alfonso Maria Petrosino per il mio trentanovesimo compleano

Stasera spegnerai le candeline
un po' con l'animo del sacrestano
che smorza i moccoli giunti alla fine
e si domanda se sia stato vano

o no quell'ardere e lo scioglimento
di tutta quella cera. Guarda bene
la luce, il raggio che si fa violento,
contemplalo: diventerà un fosfene.

Se malinconica ti sembrerà
l'immagine, in quanto evoca il destino
della precaria condizione umana,

non temere: per te l'eternità
è negli sguardi vispi di Agostino
e nel sorriso dolce di Viviana.

martedì 10 maggio 2011

Punzecchiatore di assessori del PD

Scuola materna Il Melograno

10 maggio 2011

08:30 a 09:30

Ilda Curti e i suoi volontari incontrano i genitori all’ingresso della scuola materna Il Melograno, in via Santa Chiara 10.

3 Commenti+ COMMENTA



Edoardo Acotto 10 maggio 2011 alle 10:38


A parte che quando siamo entrati nel nostro asilo, come tutti i giorni, nessuno ci ha invitati a incontrarci con Ilda Curti (e qualcuno non l’ha nemmeno riconosciuta), pertanto il titolo andava cambiato in “Ilda Curti e i suoi volontari incontrano UN’EDUCATRICE E I GENITORI E SALUTA I GENITORI CHE LA CONOSCONO all’ingresso della scuola materna Il Melograno, in via Santa Chiara 10.”.

A parte che se veramente ci si voleva incontrare era bene annunciarcelo prima, dato che di solito i genitori a quelle ore non hanno tempo per gli incontri ma corrono al lavoro.

Ma soprattutto: un incontro con i genitori del Melograno lo si doveva proprio fare a 5 giorni dalle elezioni municipali? Non c’era tempo nei mesi, per non dire negli anni, precedenti?

La mia domanda è ovviamente retorica, ma non vorrei che il pensiero unico che domina la nostra città permettesse di pensare che i cittadini non vedano, non sentano, non parlino e soprattutto non pensino.


Coi migliori saluti


Edoardo Acotto


REPLICA



Ilda Curti 10 maggio 2011 alle 10:50


Capisco l’esprit polemico e non tutto è noto. Mia figlia è stata una bambina del Melograno, ne è uscita 8 anni fa. Io sono stata eletta Presidente del Comitato di Circolo negli anni in cui è stata lì. Facevo volantinaggio davanti (senza disturbare dentro, perchè nelle scuole non si entra) e ho incontrato la maestra di mia figlia. Partecipo quasi tutti gli anni alla festa del Nido. Non avevo ancora visitato la nuova sede (un po’ assurda), perchè faccio parte di quei genitori che hanno scommesso su quel nido quando nessuno voleva andarci. Sono rimasta in contatto con le maestre e le operatrici, perchè sono figure importanti nella rete affettiva di mia figlia. I due anni e mezzo passati lì sono stati tra i più importanti e belli dell’infanzia della bimba. Moltissimi miei amici hanno avuto ed hanno figli in quel nido, li conosco, ci parlo e i nostri figli giocano ancora insieme e sono amici.

Dobbiamo buttarla sempre in politica?


REPLICA



Edoardo Acotto 10 maggio 2011 alle 12:57


Benissimo, il contesto cambia sensibilmente. Il problema però rimane: un assessore è un personaggio pubblico, fa campagna elettorale, ha un blog, usa Facebook e Twitter e le sue azioni pubbliche hanno una (voluta) risonanza pubblica.

Proprio perché mi era venuto il dubbio sulla natura della sua presenza al Melograno, per disambiguarlo ho subito guardato l’agenda qui pubblicata. Senza possibilità di dubbio si legge: “10 maggio 2011 08:30 a 09:30 Ilda Curti e i suoi volontari incontrano i genitori all’ingresso della scuola materna Il Melograno, in via Santa Chiara 10.”

Ergo, non ho tutti i torti a ritenere che, almeno sul piano della comunicazione, qui ci sia qualcosa di non veritiero (non dico intenzionalmente): noi genitori non siamo stati affatto “incontrati”. Non io almeno, pur essendole passato accanto.

Sarebbe certamente molto importante che i cittadini potessero incontrare gli amministratori della cosa pubblica e la mia osservazione polemica si riferisce alla sensazione di essere stato defraudato a priori di questa possibilità (certo non solo in questa occasione: quando sono andato all’incontro dei candidati alle primarie sul tema asili e scuole, al pubblico non è stata concesso neanche una domanda, indizio di una gestione semplicistica del rapporto cittadini/classe politica).

A mio parere non è in questo modo che si costruisce una buona gestione del consenso, posto che questo sia un obiettivo condivisibile (se aumenta la convivenza civile e la partecipazione alla politica, lo è senz’altro).

La mia critica è naturalmente generale e non specifica e si riferisce a questo tipo di situazioni più che alla situazione singola.


Riguardo al “buttarla sempre in politica”, credo proprio che la politica come “semplice amministrazione” sia un mito cui non credono più in molti, non di questi tempi almeno.


Grazie per la gentile risposta, rinnovo i miei migliori saluti.


Edoardo Acotto


REPLICA

lunedì 9 maggio 2011

Krishnamurti e i sogni

«Mi chiedo perché sogno così tanto. Faccio qualche sogno quasi ogni notte. A volte i miei sogni sono piacevoli, ma più spesso sono sgradevoli, se non spaventosi, e quando la mattina mi sveglio mi sento esausto.»
  Era un uomo giovanile, visibilmente turbato e in ansia. Aveva un lavoro per il governo alquanto soddisfacente, spiegò, con buone prospettive per il futuro, e guadagnarsi da vivere non era per lui una preoccupazione. Era un uomo capace, e sarebbe sempre stato in grado di trovare lavoro. Sua moglie era morta, e aveva un figlio piccolo che aveva lasciato presso una sorella, perché il bambino era troppo capriccioso, disse, per poterlo crescere da solo. Era di corporatura pesante e parlava lentamente, in tono prosaico.
  «Non sono un gran lettore,» continuò, «anche se al college andavo bene, e mi sono laureato con lode. Ma tutto questo non significa niente, se non che mi è servito per ottenere un buon lavoro, che per la verità non mi interessa un granché. Mi basta qualche ora di duro lavoro al giorno per tirare avanti, e mi rimane un po’ di tempo libero. Credo di essere normale, e potrei risposarmi, ma non sono molto attratto dall’altro sesso. Mi piace lo sport, e conduco una vita sana, vigorosa. Il mio lavoro mi porta in contatto con alcuni politici importanti, ma la politica non mi interessa, con tutti i suoi bestiali intrighi, e me ne tengo deliberatamente fuori. Si potrebbe salire in alto attraverso il favoritismo e la corruzione, ma io conservo il mio lavoro perché lo faccio bene, e questo mi basta. Ti racconto tutto questo non per spettegolare, ma per darti l’idea dell’ambiente in cui vivo. Ho una normale ambizione, ma non divento matto per essa. Avrò successo se non mi ammalo e se non ci saranno troppi intrallazzi. A parte il lavoro, ho qualche buon amico, e spesso discutiamo di cose serie. Ecco, adesso hai più o meno il quadro completo.»
  Se posso chiederlo, di cosa vuoi che parliamo?
  «Un amico mi ha portato a una delle tue conversazioni serali, e con lui ho anche partecipato a una discussione mattutina. Sono stato molto colpito da ciò che ho sentito, e vorrei approfondire. Ma quel che adesso mi preoccupa sono questi sogni notturni. I miei sogni mi turbano molto, anche quelli piacevoli, e vorrei sbarazzarmene; vorrei avere delle notti tranquille. Cosa devo fare? O è una domanda stupida?»
  Cosa intendi con sogni?
  «Quando dormo, ho visioni di vario tipo; una serie di immagini o apparizioni mi salgono alla mente. Magari una notte sono sul punto di cadere da un precipizio, e mi sveglio di soprassalto; un’altra notte mi trovo in una bella vallata, circondata da alte montagne e con un ruscello che ci scorre in mezzo; un’altra notte ho un terribile litigio con i miei amici; oppure perdo un treno, o gioco da campione una partita di tennis; o vedo all’improvviso il corpo morto di mia moglie, e così via. I miei sogni sono di rado erotici, spesso sono incubi spaventosi, e a volte sono di un’incredibile complessità.»
  Quando sogni, accade talvolta che quasi nello stesso momento ti venga in mente un’interpretazione di ciò che sogni?
  «No, non mi è mai accaduto; sogno e basta, e dopo me ne lagno. Non ho mai letto libri di psicologia o di interpretazione dei sogni. Ho parlato del problema con alcuni miei amici, ma non mi sono stati di grande aiuto e provo una certa diffidenza verso gli psicoanalisti. Mi puoi dire perché sogno, e cosa significano i miei sogni?»
  Vuoi un’interpretazione dei tuoi sogni? O vuoi comprendere il complesso problema del sognare?
  «Non è necessario interpretare i propri sogni?»
  Può non esserci alcun bisogno di sognare. Di certo devi essere tu a scoprire la verità o la falsità dell’intero processo che chiamiamo il sognare. Questa scoperta è di gran lunga più importante del sentirti interpretare i tuoi sogni, non è vero?
  «Certo. Se riuscissi a cogliere il pieno significato del sognare, ciò dovrebbe sollevarmi da quest’ansietà e inquietudine notturna. Ma non ho mai davvero riflettuto su queste faccende, e dovrai avere pazienza con me.»
  Stiamo cercando di comprendere il problema insieme, perciò non c’è impazienza da alcuna delle due parti. Stiamo intraprendendo insieme il viaggio di esplorazione, il che significa che dobbiamo stare entrambi all’erta, e non dobbiamo lasciarci trattenere da alcun pregiudizio o paura che potremmo scoprire lungo il percorso.
  La tua coscienza è la totalità di ciò che pensi e senti, e molto di più: i tuoi moventi e propositi, siano essi espliciti o nascosti; i tuoi desideri segreti; la sottigliezza e la scaltrezza del tuo pensiero; le costrizioni e le spinte oscure nella profondità del tuo cuore – tutto questo è la tua coscienza. È il tuo carattere, le tue tendenze, il tuo temperamento, i tuoi appagamenti e frustrazioni, le tue speranze e paure. Indipendentemente dal fatto che tu creda o meno in Dio, o nell’anima, nell’Atman, in qualche entità sovraspirituale, l’intero processo del tuo pensiero è coscienza, non è vero?
  «Non ci ho mai pensato prima, signore, ma vedo che la mia coscienza è fatta di tutti questi elementi.»
  È anche tradizione, conoscenza ed esperienza; è il passato in relazione al presente, che costituisce il carattere; è il collettivo, il razziale, la totalità dell’uomo. La coscienza è l’intero campo del pensiero, del desiderio, dell’affetto, delle virtù, che se coltivate non sono affatto virtù; è l’invidia, la bramosia, e così via. Non è tutto questo ciò che chiamiamo coscienza?
  «Non riesco a seguirti in ogni dettaglio, ma ho il sentimento di questa totalità,» replicò lui esitante.
  La coscienza è ancora qualcosa di più: è il campo di battaglia di desideri contradditori, il campo della fatica, della lotta, del dolore, della sofferenza. È anche la rivolta contro questo campo, che è la ricerca di pace, di bene, di affetto durevole. L’autocoscienza emerge quando c’è consapevolezza del conflitto e della sofferenza, e desiderio di sbarazzarsene; anche quando c’è consapevolezza della gioia, e desiderio di averne di più. Tutto questo è la totalità della coscienza; è un vasto processo della memoria, del passato, che utilizza il presente come passaggio verso il futuro. La coscienza è il tempo – il tempo sia di veglia che di sonno, il giorno e la notte.
  «Ma si può essere consapevoli di questa totalità della coscienza?»
  Perlopiù siamo consapevoli solo di un angolino di essa, e le nostre vite trascorrono in quell’angolino, smaniando per sopraffarci e distruggerci l’un l’altro, con qualche pizzico di amicizia e affetto di tanto in tanto. Della parte maggiore non siamo consapevoli, e perciò esiste il conscio e l’inconscio. Di fatto, naturalmente, non c’è alcuna divisione tra i due; è solo che noi prestiamo più attenzione all’uno che all’altro.
  «Questo è piuttosto chiaro – anzi, troppo chiaro. La mente conscia è occupata da mille e una cosa, quasi tutte radicate nel proprio interesse.»
  Ma c’è il resto, nascosto, attivo, aggressivo e molto più dinamico del conscio, della mente diurna. Questa parte nascosta della mente è sempre lì a spingere, a influenzare, a controllare, ma spesso durante le ore di veglia non riesce a comunicare i propri propositi, perché lo strato superiore della mente è occupato; perciò trasmette i suoi suggerimenti e le sue intimazioni durante il cosiddetto sonno. La mente superficiale può rivoltarsi contro questa influenza invisibile, ma lei riprende silenziosamente la sua posizione, perché la totalità della coscienza si preoccupa di mantenersi salda, permanente; e ogni cambiamento va sempre nella direzione del cercare ulteriore sicurezza, una maggiore permanenza di sé.
  «Temo di non comprendere del tutto.»
  In fondo la mente vuole essere certa in tutte le proprie relazioni, non è vero? Vuole essere salda nella relazione con le idee e le credenze, così come nella relazione con le persone e con le proprietà. Non l’hai notato?
  «Ma non è naturale?»
  Siamo stati educati a pensare che sia naturale; ma lo è? Di certo solo la mente che non si aggrappa alle sicurezze è libera di scoprire ciò che è del tutto intatto dal passato. Ma la mente conscia si fonda su questa pulsione ad essere salda, sicura, a rendersi permanente; e la parte nascosta o negletta della mente, l’inconscio, bada anch’essa ai propri interessi. La mente conscia può essere forzata dalle circostanze a riformarsi, a modificarsi, almeno esteriormente. Ma l’inconscio, essendo profondamente trincerato nel passato, è conservatore, cauto, consapevole delle questioni più profonde e del loro più celato esito; perciò c’è un conflitto tra le due parti della mente. Questo conflitto produce una qualche sorta di mutamento, una continuità modificata, di cui la maggior parte di noi si accontenta; ma la vera rivoluzione è al di fuori di questo campo dualistico della coscienza.
  «Cosa c’entrano i sogni con tutto questo?»
  Dobbiamo comprendere la totalità della coscienza prima di arrivare a una particolare parte di essa. La mente conscia, essendo occupata durante le ore di veglia dagli eventi e dalle pressioni quotidiane, non ha il tempo o l’opportunità di ascoltare la parte più profonda di sé; di conseguenza, quando la mente conscia «va a dormire», cioè quando è abbastanza quieta, non troppo preoccupata, allora l’inconscio può comunicare, e questa comunicazione prende la forma di simboli, visioni, scene. Al risveglio tu dici, «Ho fatto un sogno,» e cerchi di scoprirne il significato; ma ogni interpretazione sarà pregiudiziale, condizionata.
  «Non ci sono persone addestrate a interpretare i sogni?»
  Possono esserci; ma se ti rivolgi a un altro per l’interpretazione dei tuoi sogni, hai il problema ulteriore della dipendenza da un’autorità, il che genera molti conflitti e sofferenze.
  «In questo caso, come faccio a interpretarli da me?»
  È questa la giusta domanda? Le domande irrilevanti non possono che produrre risposte superflue. La questione non è come interpretare i sogni, ma se i sogni sono necessari.
  «Allora come faccio a far smettere questi miei sogni?» insistette lui.
  I sogni sono uno strumento attraverso cui una parte della mente comunica con l’altra, non è vero?
  «Sì, sembra piuttosto ovvio, adesso che ho compreso un po’ meglio la natura della coscienza.»
  Questa comunicazione non potrebbe avvenire sempre, anche durante il periodo di veglia? Non è possibile essere consapevole delle tue reazioni anche quando sali sull’autobus, quando sei con la tua famiglia, quando stai parlando col tuo capo in ufficio, o col tuo servo a casa? Basta essere consapevoli di tutto questo – essere consapevoli degli alberi e degli uccelli, delle nuvole e dei bambini, delle proprie abitudini, reazioni e tradizioni – per osservarlo senza giudicare o fare paragoni; e se riuscirai ad avere questa consapevolezza, a guardare, ad ascoltare di continuo, scoprirai che non sogni più. Allora tutta la tua mente è in intensa attività; tutto ha un senso, un significato. Per una tale mente, i sogni non sono necessari. Allora scoprirai che nel sonno non c’è solo un completo riposo e rinnovamento, ma anche uno stato che la mente non può toccare. Non è qualcosa da ricordare e su cui tornare; è del tutto inconcepibile, un totale rinnovamento che non può essere formulato.
  «Potrò riuscire ad avere una tale consapevolezza durante l’intera giornata?» domandò lui schiettamente. «Ma devo farlo, e lo farò, perché onestamente adesso ne vedo la necessità, signore, ho imparato molto, e spero di poter tornare.»

Diario della presenza mentale, 6: il ritorno evenemenziale della presenza

Da parecchi giorni la presenza mentale è completamente scomparsa. Se non conservassi un barlume del ricordo di quella sensazione ti sentiresti stupido e incapace, ma in ogni caso non è un bel pensiero quello di non avere più fatto presenza mentale (o di non esserne più stato capace? Hai provato davvero, a farla?).
In un certo senso capisci che quella mente presente che non riesci più ad evocare non sei tu. Per quanto ultimamente vuoto, il sé ha necessariamente diversi (numerosi?) livelli di esistenza e consapevolezza, e uno di questi contempla la propria espropriazione.
Come diceva Rimbaud, io è un altro, ma un conto è pensarlo e comprenderlo, un altro conto è sentirlo e sperimentarlo.
L'incapacità a fare presenza mentale ti manifesta chiaramente che tu sei anche un altro, qualcos'altro, che c'è la possibilità che il tuo campo di coscienza sia attraversato da un evento chiamato presenza mentale.
Non è un evento puro, non lo hai scoperto tu, lo hai appreso, è un tipo di evento, non un evento singolare e irripetibile. E' qualcosa di ripetibile, ma non sai come né a quali condizioni.
E' come se ora ti mancasse la volontà per fare presenza mentale, eppure sai che non è una semplice questione di volontà.
Sei in un'impasse spirituale, sei paralizzato.

La perfetta compilation dei Pink Floyd di Jacopo Valli


In ordine dal primo all'ultimo album, almeno queste:

• Astronomy Domine

• Pow R. Toch H.

• Set the Controls for the Heart of the Sun

• A Saucerful of Secrets

• Cymbaline

• Careful with That Axe, Eugene

• Sysyphus

• The Narrow Way (parte III)

• Grantchester Meadows

• Atom Heart Mother

• Fat Old Sun

• Alan's Psychedelic Breakfast

• Echoes

• Fearless

• Absolutely Curtains

• On the run

• Us and them

• Any colour you like

• Shine On You Crazy Diamond

• Welcome to the Machine

• Dogs

• One of My Turns

• Don't Leave Me Now

• Is There Anybody Out There?

• Not Now John

• Sorrow

• Marooned

• Keep Talking

sabato 30 aprile 2011

Quanta pazienza ci vuole con i filosofi marxisti...



Bene, ho letto con interesse e chiosato.
Molti punti non mi convincono:
- "l’intenzionalità (proprio quella che Brentano considerava l’essenza del “mentale”), in quanto in tal caso risulta troppo facile per i Wittgenstein, i Ryle dissolvere un “mentale” svuotato del suo proprio contenuto in regole grammaticali o peggio in veri e propri crampi linguistici." Non mi risulta affatto che Wittgenstein abbia "dissolto" il mentale, semplicemente ne ha posto la non oggettivabilità fuori da determinati giochi linguistici (che per lui ovviamente non potevano comprendere le neuroscienze).
- "la struttura autoreferenziale della c.d. coscienza, che, malgrado la riscoperta recente e seppure in maniera non altrettanto evidente, è una struttura comune  a molti altri concetti trattati con formulazioni metafisiche e religiose da molte tradizioni anche antiche di tipo ontologico e mistico." Questo non mi è chiaro: che vuoi dire?
- Quando isoli le immagini mentali dalla sensazione causante ("Propri del ricordo o della fantasia questi fenomeni sono mentali, nel momento invece in cui sono concretamente visti o sentiti allora no") mi pare proprio che trascuri di domandarti da che cosa mai sarebbe fisicamente prodotto quello che tu chiami "spazio asatratto" ma che altro non è che l'effetto soggettivo di un'attività cerebrale (memoria visiva, immaginazione).
Più in generale quando affermi che "perché essi siano considerati derivati da fenomeni fisici non è sufficiente la reciproca somiglianza, ma ci vuole un’esplicita opzione ontologica" mostri tutto il il tuo idealismo filosofico (e ti contraddici rispetto alla tua decostruzione di fisico/mentale) affermando che il riconoscimento della realtà abbisognerebbe di un surplus filosofico: e se questo surplus non è mentale, allora che diavolo è? La filosofia pensi forse di farla con le Idee platoniche e l'Io puro? Voi marxisti nuotate per caso nell'intelletto agente? :-D
- Bella la frase "Ryle e Dennett cercano di realizzare una dissoluzione linguistica delle immagini mentali, assumendo presupposti non sempre condivisibili e compiendo spesso acrobazie verbali al termine delle quali il tono soddisfatto è quello dell’artista di circo che aspetta un applauso che non verrà mai". Peccato che nel prosieguo esemplifichi col solo Ryle mentre al povero Dennett non concedi nemmeno il beneficio delle sue stesse parole (immagino comunque che sia il giovane Dennett quello che ha preso parte alla querelle, per altro molto datata e oggi quasi completamente priva di senso, visto che si va ormai verso un'integrazione di tutte e opzioni precedentemente ).
- “A tal proposito riveste grande importanza la questione dei rapporti tra il mentale ed il fisico”: così presupponi l’esistenza di due livelli separati senza averla dimostrata. Non prendi nemmeno in considerazione l’opzione monista materialista (forse perché per voi marxisti il materialismo è solo quello dialettico, ottocentesco?).
- “a tal proposito il dualismo interazionistico potrebbe avere forse ragione se si dimostrasse in sede sperimentale che due eventi, l’uno mentale l’altro fisico, considerati corrispondenti dalla teoria rivale, siano invece successivi dal punto di vista temporale”: stai alludendo all’esperimento di Livet? Non credo che ne derivi un rafforzamento del dualismo interazionistico. Per inciso, una teoria è sempre sotto determinata dagli esperimenti, che non “dimostrano” un bel nulla ma portano evidenze a favore o contrarie: come arrangiarle dopo, sono cazzi.
- la tua confutazione delle teorie dell’identità è debole: presupponi l’esistenza di due livelli diversi per dichiarare assurda l’affermazione dell’identità di due diversi: ma una teoria dell’identità argomenta proprio che i livelli non siano due ma uno solo, quindi tutto quel che dici dopo non consegue (la necessità di spiegare ontologicamente l’identità…).
- sorvolo sui “veri e propri errori di grammatica filosofica”, perché ovviamente nessuno crede all’Homunculus. Si potrebbero inventare termini tecnici ad hoc, ma dato che il linguaggio è metaforico va benissimo dire che “la mente computa”, se l’uditore ha voglia di interpretare l’intenzione comunicativa non c’è bisogno di spiegazioni terminologiche, e se non ne ha voglia sono inutili.
- Trovo quasi superstiziosa la tecnofobia della tua conclusione etico-politica: attribuire all’AI la “copertura ideologica” del dominio dell’uomo sull’uomo significa non saper proprio che pesci pigliare con l’AI: ma l’hai mai guardato da vicino un programma? Hai mai studiato un po’ di linguistica computazionale? Quando usi il computer ti domandi mai che cazzo di lavoro c’è lì dentro? E se lo fai e ti rispondi che gli “intellettuali informatici” che ti permettono di scrivere il tuo blog sono inconsapevolmente servi del potere, scusa ma secondo me sei pure un poco stronzo.
Il problema degli intellettuali (me compreso) è proprio il contrario di quello che dici tu: non sanno un cazzo di scienza e tecnica, e usano l’informatica senza nemmeno conoscerne l’ABC.
- Riguardo all’insistenza sul “velo che copre il dominio” anche questa è una giustificazione tipicamente marxista: poverini, vengono ingannati… Da anarchico invece io penso semplicemente che il dominio sia ben visibile, e che venga scelto dagli uomini, i quali dunque hanno sempre responsabilità morale nella partecipazione al dominio. A parità di condizioni non tutti si comportano allo stesso modo (vedi i casi estremi come i campi di sterminio).
- Idem quando parli di “riacquistare la facoltà di negare i rapporti sociali dati”: la facoltà non va riacquistata, va semplicemente esercitata, basta farlo istante per istante, anziché aspettare la rivoluzione.
- Anche sulla creatività e le emozioni divergo concordando: certo che sono il punto chiave, ma ti comunico che le scienze cognitive e l’AI stanno esattamente lavorando su quella prima linea (guardati l’ultimo libro di Minsky, per esempio: The emoziona machine). Concordo con Minsky che per dare l’intelligenza al computer bisogna dargli le emozioni, e questo è del tutto possibile (ritengo per altro che saranno emozioni migliori di quelle della maggior parte dei berlusconiani).
- Più in generale tutto il tuo discorso è filosoficamente interessante, ma interessante SOLTANTO FILOSOFICAMENTE. Senza cadere nella neuromania, possibile solo a scienziati filosoficamente deboli, qualsiasi neurofilosofo cognitivo sa che parlare di mente/cervello non è solo una cifra stilistica ma un semplice modo per ricordare a tutti, scienziati e filosofi, che per secoli abbiamo parlato di mente senza conoscerla: man mano che comprendiamo il funzionamento del cervello le discussioni filosofiche dovranno recepire le nuove conoscenze e adattarsi per non sembrare ridicoli. Per esempio chi vuol essere dualista, sia, ma sono cazzi suoi.
Una filosofia all'altezza della neuroscienza oggi non può permettersi un’assiologia che anteponga gli assiomi filosofici alle evidenze sperimentali. O meglio, può farlo ma si rinchiude nel recinto prediletto dai continentali e dagli analitici (i primi si salvano trafficando con arte e letteratura, i secondi con scienza e neuroscienza cognitiva): quello delle discussioni accademiche prive di pubblico non specializzato.
Francamente penso che la filosofia possa fare di meglio, tu no?

giovedì 28 aprile 2011

La vicinanza del padre.

Da quando è nato mio figlio, amici e famigliari mi giudicano male perché gli sono fisicamente molto attaccato. Secondo me, invece, sono loro che hanno problemi con la fisicità e l'infanzia. Io non concepisco il senso della distanza fisica, specie verso uno che ti chiede assoluta vicinanza.
E' vero che la mia vita è cambiata, da quando è nato mio figlio, ma ritengo in meglio. Molte delle cose che facevo prima non le faccio più, questo è vero, tuttavia ho in cambio un ritorno di felicità fisica quando abbraccio quel bambino, che nessun aperitivo mancato mi farà mai rimpiangere.
Ok, ammetto che talvolta le mie giornate prendono senso unicamente perché passo molte ore con lui e giochiamo insieme, scherziamo, ridiamo, guardiamo la Piccola Talpa, disegniamo, suoniamo il pianoforte o cantiamo. E' vero, prima avevo una vita sociale piuttosto intensa, mentre ora non più. Tuttavia non mi sembra di mancare di qualcosa. Anzi.
L'estate scorsa le zie di mia moglie mi hanno accusato di non permettere a nessuno di prendere in braccio Agostino. Che esagerazione! Certo, quando qualcuno prendeva in braccio Agostino io dopo poco gli dicevo che poteva lasciarmelo, ma lo dicevo solo per non infastidire nessuno.

[continua]

mercoledì 27 aprile 2011

Frammento da "Diario buddhista" (2005): Il karma collettivo e la paura di volare

Ieri sera è quasi precipitato un aereo canadese e lunedì devo prendere un aereo per Berlino. Non sarà male rifare il mio testamento, come sempre faccio prima di volare. Tuttavia non è questo che mi importa quanto piuttosto la questione della paura di morire. Credo o non credo nell’impermanenza? Credo o non credo di essere una parte del tutto (diversamente sarei un misero nulla)? Se ci credo davvero non avrò paura, se no vuol dire che la mia credenza è superficiale come la maggior parte delle mie credenze, e pertanto ciò che ho pensato di credere negli ultimi mesi era soltanto l’ennesima illusione.
Lunedì sera l’aereoplano si alzerà dal suolo e io sentirò la grossa vibrazione che scuote le viscere, penserò alla potenza del motore jet inventato dall’uomo e penserò al mio karma, se eventualmente contempli la possibilità della morte per esplosione aerea.

Ma mi viene in mente un problema filosofico che mi mette in difficoltà il concetto di karma. Quale karma ha un aeroplano in volo? quello del suo pilota o quello della somma dei suoi passeggeri? O quello del suo passeggero più virtuoso o di quello più malvagio? Perché se vi fosse un santo a bordo verrebbe da pensare che il suo karma proteggerebbe anche gli altri passeggeri mentre se vi fosse un efferato criminale potrebbe fottere tutti quanti per il suo merdoso alone di malvagità.
E se a bordo vi fossero sia un santo che un criminale, quale karma prevarrebbe? La difficoltà è data dall’unità temporanea del destino di più persone il cui destino è normalmente separato.
Credo che la soluzione più semplice sia ipotizzare una media tra i diversi karma individuali. Necessariamente deve trattarsi di una somma ponderata dei karma dei singoli passeggeri. Deve esserci una sorta di calcolabilità dei karma : se l’aeroplano precipita, questo accade perché complessivamente i karma dei passeggeri e dell’equipaggio lo permettono. Se per esempio il pilota impazzisce e vuole suicidarsi schiantandosi col suo apparecchio, non è indifferente che l’assistente di volo agisca o no, e questo dipende anche dal karma dell’assistente di volo. D’altra parte l’assistente di volo può trarre la sua energia per agire dalla vicinanza di qualche passeggero particolarmente santo.

Il karma è la legge morale cui sono soggette le azioni, che per i buddhisti sono anche mentali. Bisogna dunque immaginarlo come una sorta di energia potenziale (tele)psicofisica.

***

È andata. Sono sopravvissuto al volo. Mentre l’apparecchio decollava, io leggevo le strofe del Buddhacarita a mo’ di mantra :
...
Questo mi ha dato molto sollievo e ho capito che non c’era nulla da temere. Grazie, Buddha.

venerdì 22 aprile 2011

Diario della presenza mentale, 5: l'assenza mentale

C'è poco da fare, quando non parte non parte. La presenza mentale non mi si accende a comando. Ecco perché tendo a sovrapporle il concetto cristiano di grazia, o quello postmoderno di Evento.
Da alcuni giorni sono assente, un automa, un robot, una vittima della pianificazione del mio tempo fatta dalla società e dalle incombenze famigliari festive. Dato che vorrei essere lontano mille miglia mi sveglio già incazzato, anche se non ne sono perfettamente consapevole, mi pare che tutto il mio tempo sia rubato via dagli altri, non riesco a fare niente, non riesco a leggere, a pensare, a scrivere.
Non riesco nemmeno a fare presenza mentale.
So che la possibilità è lì ma non riesco a innescare il dispositivo: ci provo per un frammento di istante ma poi non funziona e mollo subito.
A parlarne mi torna il respiro giusto per un secondo, poi non so se funzionerà.

No, poi non funziona, mi disperdo a pensare le connessioni tra post e vecchi testi.

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In questi frangenti ho l'impressione che per fare meditazione ci vorrebbe la libertà assoluta, quella dei mistici e degli asceti. Tutti gli altri sono condannati alla dispersione della mente, e a quello stato inautentico di esistenza che lo stupido Heidegger chiamava chiacchiera curiosità ed equivoco. So che non è così, ma quando non mi sento in armonia, come diceva più o meno il poeta, mi incazzo con me stesso e con tutti.

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Ora che mi ricordo, però, qualche giorno fa ho avuto l'insonnia: è da allora che la presenza mentale è svanita.
Tra pochi giorni forse dovrebbe tornare tutto normale, purché nel frattempo io non mi arrotoli sempre più nella psicofisica della passioni tristi.
Sto veleggiando verso un umore depressivo...

martedì 19 aprile 2011

Diario della presenza mentale, 4: il corso inquinato dai gas di scarico

Una delle prime obiezioni che mi vennero in mente fu che non si può praticare la meditazione dappertutto. Un conto è trovarsi a praticare la presenza mentale seduti in un giardino silenzioso, davanti ad alberi piante e fiori (l'ho fatto qualche volta), un altro conto è praticare la presenza mentale in mezzo al traffico cittadino.
Il corso Svizzera inquinato dai gas di scarico non favorisce la concentrazione ma è un banco di prova: se fai presenza mentale, anche il tuo respiro si approfondisce, ma se sei vicino ai gas di scarico hai paura di respirare a pieni polmoni.
Se riesci anche per un attimo a raggiungere la presenza mentale, forse hai iniziato a scalfire il tuo guscio psichico più profondo, quello che alimenta le tue paranoie autoconservative.

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Passeggiare con un bambino di due anni richiede un'attenzione continua a quello che fa. Provo per qualche istante a lasciarmi guidare da Agostino, senza sovrapporre parole gesti e volontà al suo caos intenzionale. Vuole salire sui gradoni del Duomo, lo accompagno cercando di non serrare troppo la sua mano. Funziona, ma appena scendiamo devo bloccare la stretta affinché non mi sfugga e rotoli giù.
Per ora mi è impossibile conciliare la presenza mentale col mio ruolo di vecchio genitore occidentale apprensivo e paranoide.

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La stanchezza di una gara di corsa lascia nei giorni successivi la mente leggera ma assente: per un po' sarà difficile ritrovare la presenza mentale.

Toward a formalization of musical relevance: EuroCogsci 2011 (abstract)


This study is a tentative essay of formalization of the concept of Musical Relevance. Even if it is conceived in the framework of computationalism, until now Sperber and Wilson’s Relevance Theory has no implementation. Moreover it has never been applied to the case of musical thinking.Our claim is that the application to music of the concept of Cognitive Relevance would permit to partially explain hearers’ behavior and composers’ choices. An efficient implementation could also give a support to the compositional decisions. The investigation of the plausibility of a computational model of Musical Relevance could contribute to the formulation of a general theory of musical cognition.We suggest to unify Relevance Theory with Generative Theory of Tonal Music, in order to formulate an algorithm for the calculation of Musical Relevance, approximating a model of relevance-guided musical reasoning (understanding/creating). Finally we analyze some aesthetical consequences of applying Relevance Theory to music.
Keywords: Generative Theory of Tonal Music; Tonal Pitch Space; tonal tension; musical effect; Relevance Theory;  processing effort.

lunedì 18 aprile 2011

Diario della presenza mentale, 3: la folla di corridori è vuota

La folla dei corridori intorno a te non ha più sostanza di quella temporaneamente aggregata per un istante cosmico, presto non avrà più quella forma. E la sua forma è infinitesimale se paragonata all'infinità di forme attuali e virtuali; perciò è tendenzialmente vuota.
Perciò puoi vederne l'essenza di puro fenomeno, la bidimensionalità d'immagine filtrata dai tuoi occhiali da miope astigmatico, o addirittura la tridimensionalità corporea e fugace.
Mentre il tuo corpo corre, fatichi, ma talvolta puoi raccogliere quel po' di forza mentale necessario per riaccentrare la tua percezione: come sempre, il tuo campo visivo si allarga, o meglio si distende e approfondisce, vedi come a loro volta distesi e svuotati l'orizzonte, la prospettiva e i fenomeni in movimento intorno al punto focale.
Fare presenza mentale durante una gara di corsa di 10 km non è la cosa più semplice, sembra anzi un esercizio contro natura, eppure in parte riesce. In quegli istanti sembra che aiuti a sopportare lo sforzo. Le tue gambe corrono ma l'automatismo che le spinge è meno cieco del solito, non provi più la tentazione di accartocciarti a terra e gemere, nessuno ti obbliga, nessuno vuole nulla, sei lì e basta. E corri insieme ad altre migliaia di persone.
Certo dura poco, e verso la fine acceleri quanto più puoi, e ansimi come una bestia, perché vuoi vincere, vuoi superare di nuovo quelli e - soprattutto - quelle che ti hanno superato da poco senza fatica. Alla fine non stai più facendo presenza mentale, sei tornato nell'agone della corsa, aderisci alla tua volontà di vittoria nel più semplice dei modi.
Ma anche così, ricordi gli istanti di pace che hai attraversato poco prima.
Ora conosci la vera essenza della corsa, sai che tutto quell'affannarsi non è altro che una delle infinite superfici possibili del vuoto. E ti piace molto.

venerdì 15 aprile 2011

Diario della presenza mentale, 2: l'allargamento del campo visivo

Ho l'impressione che praticare la presenza mentale sia come diventare l'homunculus del mio corpo, o meglio ancora sedersi nella posizione di Actarus al centro della testa di Goldrake. Se cammino il mio corpo avanza a grandi passi, ho un campo visivo grandissimo, io sono piccolo all'interno della mia testa.

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Esco per strada, passeggio praticando la presenza mentale: il mio campo visivo si è allargato, guardo dritto di fronte a me vedo tutta la via Garibaldi in prospettiva, le persone scorrono lungo l'asse prospettico, avvicinandosi o allontanandosi. Cammino con la testa alta.

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Al pomeriggio vado a una conferenza sull'acqua: oltre a Ugo ci sono due giuristi irritanti, antireferendari, mi eccito subito, tifo per Ugo, godo quando strappa gli applausi della platea folta di ragazzi. E mi domando come si fa a fare presenza mentale durante una conferenza che ti appassiona... Ma imparerò anche questo.

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Infine, al parco con bimbi e amici è impossibile concentrarsi: mentre Agostino si arrampica sullo scivolo è difficile non finalizzare i movimenti esclusivamente alla sua protezione. Non ci provo nemmeno. Anche se mi sento deluso per il pomeriggio senza presenza mentale, non ho nessuna fretta. Non devo andare da nessuna parte

giovedì 14 aprile 2011

Diario della presenza mentale, 1

Ieri mi è tornata in mente la possibilità della presenza mentale. Non ci pensavo da molto tempo, e anche quando ci avevo pensato non mi era venuto in mente di ricominciare a praticarla. Ieri invece ho capito che potevo ricominciare. E ho ricominciato. Con calma. Senza pretendere. Senza sperare. Senza volere.

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Ho solo ricominciato a guardare la cose dal fondo della mia testa, devo dire così perché l'impressione è quella. Poi spiegherò meglio, farò un resoconto quasi quotidiano, anche minimo, dei miei progressi. Un diario della presenza mentale.

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Se dovessi quantificare, direi che attualmente sono all'1% della mia capacità di presenza mentale, ma intanto è un inizio.
Effetto immediato: rallento le mie azioni, rinuncio a talune che mi vengono in mente solo come divertissement dalla noia dell'istante attuale.

(Primo risultato: sto di meno su Facebook.)