E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

domenica 12 settembre 2010

Rispostina a Francesco Piccolo sugli intellettuali e il Nuovo

[Questa nota è molto vecchia: non sapevo chi fosse Francesco Piccolo. Ora so chi è, perché sto leggendo il suo La separazione del maschio e ne parlo a questo link]

(commento a un articolo sul Domenicale di oggi, 12 settembre)

A mio parere, la percezione dell’intellettuale come reazionario è fondata dall’atteggiamento che la maggior parte degli intellettuali “umanisti” ha nei confronti della mente, considerata come una tabula rasa soggetta alle varie impressioni dell’ambiente sociale, dunque a cultura educazione repressione ecc. La concezione della mente come tabula rasa, criticata dalla psicologia evoluzionistica (con gli eccessi di Steven Pinker) ha portato gli intellettuali ad autoconvincersi che con l’aumentare degli stimoli sociali la mente si saturi di spazzatura. Così non si capisce che gli stimoli che provengono dal mercato sociale rispondono anche (se non soltanto) alle esigenze della reale natura della mente, pur mercificate dalle dinamiche del capitalismo: i bisogni dei consumatori non si inducono partendo da zero ma si sfruttano selezionando quelli più profittevoli.
La paura dell’“invasione della mente” inizia forse con la nascita dell’antropologia culturale (scoprire popoli con usanze diverse alimentò il falso mito di una variabilità infinita delle possibilità antropologiche) e continua al giorno d’oggi con l’adozione della vulgata postmoderna, che separa la mente dalla materia e rende puramente culturale le sorti del pensiero sociale. Il marxismo e il cutluralismo di sinistra, ovviamente, sono tra le filosofie contemporanee più responsabili di avere propagato il modello della mente tabula rasa (si veda sull’argomento il libretto di Singer: Per una sinistra darwiniana).
Finché gli intellettuali di sinistra continueranno a trovare buoni argomenti nelle critiche heideggeriane alla tecnica, o nell’errata idea orwelliana che il pensiero dipenda totalmente dal linguaggio (propria anche dell’anti-berlusconismo più impotente), l’intellettuale umanista verrà sempre considerato un tecnofobo e un alleato della conservazione. E a ragione!

[cfr. Interpretanti e Trasformatori, 1. Intellettuali che vogliono educare il pubblico]

mercoledì 8 settembre 2010

La vita elegante secondo Balzac (Vogue7)

Pubblicato su Vogue.it

In un trattatello incompiuto scritto nel 1830, Honoré de Balzac ha immortalato con sublime cattiveria il gusto e l’ideologia comportamentale e vestimentaria della Restaurazione.

Alcuni degli aforismi che compongono La vita elegante sembrano ancora attualissimi, mentre altri grondano un’ideologia conservatrice ottocentesca che ha almeno il merito di essere chiaramente esplicitata.
Per Balzac, per esempio, la divisione della società in classi è naturale, cristiana e ovvia: “Simili alle macchine a vapore, gli uomini irreggimentati al lavoro si presentano tutti sotto la stessa forma e non hanno nulla di individuale … Per tutti questi infelici la vita si riduce a un po’ di pane nella madia e l’eleganza a una cassa di stracci”.
Nonostante il suo feroce classismo, per Balzac la ricchezza è condizione necessaria ma non sufficiente dell’eleganza: “un uomo diventa ricco; nasce elegante”.

Ecco alcuni pensieri e precetti balzachiani:

• L’abbigliamento è l’espressione della società
• La trascuratezza nel vestire è un suicidio morale
• Il bruto si copre, il ricco e lo sciocco si adornano, l’elegante si veste
• L’abbigliamento è, al tempo stesso, una scienza, un’arte, un’abitudine, un sentimento
• L’eleganza non consiste tanto nel vestito quanto nel modo di portarlo
• Il vestire non deve essere un lusso
• Tutto ciò che mira all’effetto è di cattivo gusto, come tutto ciò che è chiassoso
• Andar più in là della moda vuol dire cadere nella caricatura

Pensieri ragionevoli! Ma ricordiamo che “per essere fashionable, bisogna godere il riposo senz’essere passato per il lavoro; cioè aver vinto una quaterna, o esser figlio di milionario, principe, sinecurista o quattrinaio”.

( “Trattato della vita elegante”, Bompiani, 1982)

lunedì 6 settembre 2010

Tre mail al Manifesto su Raimo

3.

Caro Manifesto,
sono lieto di constatare che le mie due mail di protesta contro Questione di performance, di Christian Raimo, hanno sortito un effetto positivo. L’articolo di Raimo che pubblicate oggi in prima pagina è un bell’articolo condivisibile, tranquillo, ben scritto, accettabilmente ironico, e persino propositivo (l’idea delle biblioteche in ogni quartiere, che Raimo cita dal libro di Antonella Agnoli, non sarà sua ma è buona).

Vi ringrazio molto, quindi, per aver finalmente convinto Raimo a lasciar perdere le “provocazioni”, specialmente quelle filosofiche, che non gli vengono col buco.

Coi migliori saluti

Edoardo Acotto

PS: Solo non capisco una cosa: visto che mi avete dato ascolto, almeno una mia mail potevate pubblicarla, no?

RISPOSTA DELLA REDAZIONE: Non abbiamo certamente "convinto" Raimo a scrivere una cosa invece di un'altra. Siamo lieti che il secondo articolo le sia piaciuto. Quanto alla pubblicazione dei commenti, vale la risposta data al suo commento precedente.




2.

Caro Manifesto,
ieri avete pubblicato alcune righe di una lettrice che si dice entusiasta delle "provocazioni" di Raimo. Qualche giorno fa io vi avevo spedito una serie di critiche indignate per la grave insipienza di “Questione di performance”, ma non mi risulta che abbiate pubblicato neanche un rigo. Se non volete sembrare un po’ autoelogiativi, perché non pubblicare accanto alla mail entusiasta almeno una mail di critica?
Fermo restando che da voi non mi aspetterei inutili "provocazioni" (ma a quali soggetti, poi?) bensì intelligenti analisi e proposte politiche. Come quelle cui mi avete abituato nel corso degli anni.
Coi migliori saluti

Edoardo Acotto


RISPOSTA DELLA REDAZIONE: Il suo commento è stato regolarmente pubblicato il giorno stesso. Se non volete sembrare un po' prevenuti, perché non guardare prima di protestare?



1.

Cari amici e soprattutto compagni del Manifesto,
mi dispiace dovervi dire che l’articolo di Christian Raimo in prima pagina l’altro ieri (http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2010/mese/08/articolo/3286/), Questione di performance, a meno che si tratti di uno scherzo saccente di cui non colgo il senso, fa gran torto all’intelligenza del vostro giornale e dei suoi lettori.
Non basta certo essere scrittori per saper formulare pensieri sensati su qualsiasi argomento, specie volendo attingere alla filosofia (specie conoscendola in modo approssimativo e superficiale come sembra essere il caso di Raimo).
Le stupidaggini snocciolate nell’articolo sono numerose e gridano vendetta: le elenco in ordine sparso.

1) Citando Wittgenstein (che non ha mai sostenuto che non possiamo uscire dai limiti del nostro linguaggio) e Austin (non “cinquant’anni dopo Wittgenstein” ma trenta: la sua teoria è formulata negli anni ’50 mentre il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein è pubblicato nel 1921), Raimo prova a farci una lezioncina scarsa scarsa sugli atti linguistici ma fraintende completamente il “performativo” e lo stravolge in un concetto posticcio e assurdo quale quello di “performativo vuoto”. Se il lettore non conosce l’argomento non ne capirà nulla, mentre se lo conosce si metterà a ridere. L’atteggiamento di un comunicatore serio non dovrebbe essere quello di sforzarsi di mettere il lettore in grado di capire o, nell’impossibilità di farlo, lasciar perdere?
2) Raimo ci spiega la sua finissima strategia per rovesciare l’impero berlusconiano: non dobbiamo prendere in considerazione il contenuto di quello che dice Berlusconi perché quello non farebbe mai vere dichiarazioni ("il senso di ciò che dice sta sempre nell'effetto che queste frasi producono": formula generica che si adatta benissimo all'intero linguaggio). Ora, è chiaro che Raimo non sa di che parla: un atto linguistico performativo ha ovviamente un contenuto semantico che lo distingue da altri performativi (provate a registrare vostro figlio all’anagrafe come Piersilvio per poi pretendere che il suo vero nome sia Agostino…) mentre un “performativo vuoto” è un mostro concettuale che esiste soltanto nella testa di Raimo. Il punto è che ai berlusconiani PIACE IL CONTENUTO di ciò che Berlusconi dice, nella maggior parte dei casi ben sapendo che si tratta di affermazioni false. Berlusconi gioca con il becero immaginario fascistoide di chi lo vota sapendo che toglierà tasse ai ricchi, non combatterà l’evasione fiscale, aiuterà la mafia, spezzerà le reni al lavoro dipendente e operaio, ecc. Il problema sono i berlusconiani, non il linguaggio che Berlusconi usa per farli ridere.
3) Raimo dice che il danno fatto da Berlusconi dipende dal suo linguaggio che avrebbe addirittura mutato radicalmente lo scenario della comunicazione. C’è qui – nella migliore delle ipotesi – una visione superficiale e intellettualistica del linguaggio come se non fosse incarnato negli individui che compongono una società. Raimo direbbe forse che il regime mussoliniano durò vent’anni grazie alla retorica di Mussolini anziché per il consenso datogli dagli italiani, da spiegarsi in sede storiografica? Il punto è che molti italiani votano Berlusconi perché sono berlusconiani, ossia fascisti, e il linguaggio non ne può nulla, limitandosi a rispecchiare la disgustosa rozzezza di questi fascisti, siano essi borghesi o proletari, del nuovo millennio. Di nuovo, il problema sono i berlusconiani, non il loro linguaggio.
4) Raimo dice che dobbiamo delegittimare Berlusconi lanciando spiritose sentenze come: “Berlusconi puzza, non sa l’inglese” ecc. E’ un consiglio talmente stupido da far venire il dubbio di una presa in giro. Spero di vedere presto Raimo affrontare Berlusconi in piazza urlandogli le sue frasi strategiche. (Nota personale: nel 2001, subito dopo Genova, fui aggredito dagli scagnozzi marettimani di Gasparri quando osai disturbare una pubblica festa in suo onore, irrompendo con una maglietta che recava la scritta “Gasparri noglobal”. Una simpatica cazzata situazionista che non farei più e che mi guardo bene dal proporre come modello di azione politica per sconfiggere il berlusconismo).
5) Raimo dice che Berlusconi non ha un progetto, quindi non possiamo attardarci a combatterlo. Se quello che Berlusconi ha fatto in questi 15 anni non è la distruzione della Repubblica e di ogni servizio pubblico, allora vorrei che Raimo mi spiegasse che diavolo ha fatto e sta facendo Berlusconi da 15 anni: il gioco dei performativi?
6) Infine, Raimo dice che Berlusconi “non è nemmeno una cattiva persona, ma soltanto un vecchio rompiballe”. Quando non si sa più chiamare col suo nome il fascismo berlusconiano, allora il fascismo ha davvero vinto.

Concludo invitandovi a non abbassare la guardia: è da tempo che la stupidità e l’ignoranza stanno distruggendo la Sinistra. Uno scivolone può andare (siamo ad agosto, lo so), ma se anche voi iniziate a dare spazio all’italica onnivora cialtroneria, siamo davvero fottuti.

Edoardo Acotto

domenica 5 settembre 2010

Se “Io è un altro”, chi è il mio sosia? (Vogue4)

Pubblicato su Vogue.it

Con la sua frase paradossale, Arthur Rimbaud non pensava certo a quello speciale alter-ego che, dopo Plauto, chiamiamo sosia. Eppure, nella società delle immagini, i sosia manifestano la non-coincidenza dell’io con se stesso.


Il sosia è un io vuoto, privo dell’essenza che costituisce l’individuo di cui il sosia è icona parassitaria. Ma in un mondo come il nostro in cui l’essenza non conta nulla e l’apparenza fenomenica è tutto, la falsità dell’imitatore rispetto alla verità dell’imitato assume forse un significato inedito.
Manifestando l’indefinita riproducibilità dell’immagine corporea e rendendola autonoma dal suo legittimo proprietario, il sosia ci ricorda che nessun individuo è realmente unico.
L’odierna società totalitaria dello Spettacolo ha creato le condizioni per l’esistenza di grottesche moltitudini di sosia. La schiera gerarchica aspira a imitare il gerarca: le truppe militari somigliano al Capo come i fan tendono a somigliare alla propria celebrity, rockstar o uomo politico. La moda dei sosia delle celebrità rende manifesta la virtuale scambiabilità delle persone mercificate nella loro immagine. L’individuo non ha più sostanza. Ego = Alter.
Perciò il sosia più inquietante è quello della persona amata (si vedano Solaris di Tarkovsky e The last Tycoon di Kazan). Il sosia della persona amata, mettendone in scena l’impossibile ritorno, mostra che l’amore è sempre stato impossibile.
Percepisco facilmente l’infinito strazio dei fan di Michael Jackson al vederne i poveri sosia.

Il normale ritorno all'anormalità (Vogue6)

PUbblicato su Vogue.it

L’inquietudine insita nel rientro dalle vacanze è un indice emotivo dell’alienazione della nostra esistenza lavorativa?

Secondo il situazionista Guy Debord, il tempo in cui noi occidentali capitalisti viviamo è irrimediabilmente mercificato: in esso la dimensione qualitativa della vita è stata soppressa dall’alienazione del lavoro. Questo tempo è pseudo-ciclico perché “il vissuto quotidiano … ritrova del tutto naturalmente il vecchio ritmo ciclico che rego¬lava la sopravvivenza delle società pre-industriali.” Per Debord “il tempo pseudo-ciclico poggia sulle tracce naturali del tempo ci¬clico, e contemporaneamente ne compone nuove combina¬zioni omologhe: il giorno e la notte, il lavoro e il riposo settimanale, il ritorno dei periodi di vacanze.” (La società dello spettacolo)
Se il nostro lavoro è alienato, tuttavia le vacanze interrompono l’anormale (alienata) vita lavorativa in un modo oggi percepito come normale, al punto da sembrare del tutto irrinunciabile. Senza un’interruzione anche piccola, ma tale da costituire un segmento temporale definito e memorabile, che senso avrebbe sopportare l’opprimente linearità del lavoro annuale? La continuità del lavoro sovrapposta alla ciclicità stagionale sembrerebbe una condanna simile all’eterno ritorno di Nietzsche.
Le vacanze non sono certo una caratteristica naturale dell’essere umano (si pensi a un crudo resoconto dell’ininterrotto lavoro contadino come La Malora, di Fenoglio) ma un’invenzione capitalista (altra cosa l’otium dell’antichità o la villeggiatura della nobiltà ancien régime).
Così, se tornare al nostro lavoro non ci entusiasma, possiamo almeno pensare che al di fuori del capitalismo la natura non fa vacanze.

mercoledì 4 agosto 2010

La moda è un’epidemia (Vogue5)

Pubblicato su Vogue.it

La moda sembra sfuggire a un concetto definitivo capace di coglierne tutte le sfaccettature, nonostante filosofi, semiologi e scrittori abbiano provato a definirla. Le forme della moda si trasmettono come un contagio: ecco un’ipotesi per spiegarne la logica.

L’ “epidemiologia delle rappresentazioni” di Dan Sperber, antropologo francese allievo di Lévi-Strauss, può forse fornire una chiave di lettura per spiegare in modo semplice ed elegante i mutamenti della moda.
Secondo Sperber, tutte le rappresentazioni mentali individuali e collettive - idee e forme sociali - si comunicano e trasformano seguendo un principio di ottimalità: la mente umana preferisce rivolgersi a ciò che esibisce il rapporto migliore tra sforzo necessario per l’elaborazione ed effetto provocato. In altre parole, preferiamo le cose più rilevanti, quelle che nel contesto delle nostre idee richiedono il minimo sforzo di comprensione e il massimo effetto informativo o estetico.
Se questo è vero, l’arbitrio della moda può sembrare un po’ meno casuale di quanto spesso non si creda. Anche una moda quanto mai eccentrica seguirà il principio di rilevanza: le sue forme vestimentarie tenderanno a essere le migliori in termini di difficoltà di comprensione a partire da un insieme di dati contestuali (la moda precedente, il gruppo sociale ecc.) ed effetto estetico perseguito.
Dato un certo contesto, dunque, a parità di effetto estetico è più rilevante l’abito più semplice da comprendere; viceversa, a parità di comprensibilità è più rilevante l’abito che produce l’effetto cognitivo più notevole.
Volete dunque essere stilisti di gran voga? Ottimizzate la rilevanza dei vostri abiti!

mercoledì 7 luglio 2010

Gillo Dorfles nel 1969 osservava che gli italiani vestivano meglio di altri popoli. La situazione è cambiata... (Vogue3)


Pubblicato su Vogue.it


In un testo di quarant’anni fa, Dorfles faceva proprio il luogo comune secondo cui gli italiani vestivano meglio di altri popoli: “se ci guardiamo attorno, se osserviamo le folle delle nostre città e dei nostri villaggi e le paragoniamo a quelle di altri paesi a eguale e anche superiore sviluppo economico industriale, dobbiamo convenire che il popolo italiano è tra i “meglio vestiti” (p. 103).
Il critico azzardava poi una relazione tra il gusto per l’abbigliamento e l’incuria italiana negli aspetti importanti della vita: “purtroppo questo va a tutto detrimento di altri settori che sono vergognosamente trascurati; la cura della propria casa: il rispetto del paesaggio; lo sviluppo d’una coscienza civica” (p.104).
Come mi ha fatto notare una volta un giornalista francese esperto di Italia e italiani, oggi la situazione sembra opposta a quella descritta da Dorfles nel 1969: l’italiano medio si distingue per la bruttezza dei suoi vestiti (che a me sembrano tendere a un nero conformista e minaccioso).
Sarebbe però errato dedurne che gli italiani abbiano riversato tutta la loro attenzione sul rispetto del paesaggio o tantomeno sullo sviluppo di una coscienza civica: in logica, che A implichi B non implica affatto che la negazione di A implichi la negazione di B.

(Tratto da: Gillo Dorfles, Fattori estetici nell’abbigliamento maschile, in AA.VV. Psicologia del vestire, Bompiani, 1972)

martedì 29 giugno 2010

Taricone/Reinfaldt

La morte di Pietro Taricone mi ha fatto venire in mente un singolare personaggio che aveva colpito la mia fantasia molti anni or sono quando abitavo a Parigi. Ne avevo disegnato un ritrattino in un racconto intitolato Volare, qui rieditato.

Nel 1911, un sarto parigino di nome Reinfaldt pensò bene di lanciarsi giù dalla Tour Eiffel vestito di un mantellone da lui stesso confezionato, il quale avrebbe dovuto fargli quasi da ali e permettergli nella sua fantasia di volare come un aliante, planando sulla folla e sentendosi molto potente nel librarsi come aerea creatura.
(Spicca con evidenza come il mantellone sartoriale altro non fosse che un prototipo del moderno paracadute.)

Si spatasciò Reinfaldt al suolo davanti al pubblico curioso accorso per l'occasione, e “secondo l'autopsia, morì di infarto prima ancora di toccare terra” (dalla Guida Peugeot di Parigi).

Ipocrita volatore, mio simile, fratello!

mercoledì 23 giugno 2010

The National, Fake Empire (mia traduzione)



Stai fuori supertardi questa notte
A pigliar mele e a fare torte
Metti qualcosa nella nostra gazzosa
e bevitela con noi
siamo semidesti in un impero falso
siamo semidesti in un impero falso

In punta di piedi nella città che riluce
ciabattine diamantate ai piedi
Fa' pure il tuo gaio balletto sul ghiaccio
noi abbiamo un uccellino azzurro sulle spalle
siamo semidesti in un impero falso
siamo semidesti in un impero falso

Spegni la luce e di’ buonanotte
Basta coi pensieri per un po'
Cerca di non voler capire tutto insieme
è difficile seguirti mentre piombi giù dal cielo
siamo semidesti in un impero falso
siamo semidesti in un impero falso


Stay out super late tonight
picking apples, making pies
put a little something in our lemonade and take it with us
we’re half-awake in a fake empire
we’re half-awake in a fake empire

Tiptoe through our shiny city
with our diamond slippers on
do our gay ballet on ice
bluebirds on our shoulders
we’re half-awake in a fake empire
we’re half-awake in a fake empire

Turn the light out say goodnight
no thinking for a little while
lets not try to figure out everything at once
It’s hard to keep track of you falling through the sky
we’re half-awake in a fake empire
we’re half-awake in a fake empire

martedì 15 giugno 2010

Naturalizzazione o arte!

Direi che Popper è invecchiatiello, è chiaro che la pratica degli scienziati non corrisponde al suo ideale falsificazionista. Per fare un esempio concreto: nessuno chiede fondi per una ricerca che voglia falsificare qualcosa, ma tutti ne chiedono per progetti di ricerca che "dimostrino" qualcosa... Il che è ovvaimente assurdo ma va tenuto presente.

Con “scientifico” intendo alla Chomsky ciò che si basa su "evidenze sperimentali", e naturalmente so che qualsiasi filosofo può contestare il concetto di "evidenze sperimentali", ma lì penso appunto che lo scienziato cognitivo debba avere il coraggio di posizionarsi a cavallo di filosofia e scienza, surfando sulle onde delle difficoltà concettuali e ideologiche.
Riguardo all'evoluzionismo, per esempio, non è un obbligo per lo scienziato cognitivo, vedi Chomsky, Fodor, Piattelli e altri vegliardi. Io penso che sia la direzione sbagliata, ma riconosco che l'evoluzionismo rischia sempre di diventare un dogma (come già vedeva acutamente Wittgenstein in un Pensiero diverso).

Allora tutto ciò che non è sperimentalmente osservabile non è scientifico? No, perché c'è del metodo anche altrove. Il punto è: SE in un dominio nel quale SI PUO' SPERIMENTARE, non si sperimenta e ci si affida al qualitativo fenomenologico primapersonalistico, allora direi che lì si sta andando fuori dal seminato.
Il che, essendo io anarchico anche filosoficamente, non è un peccato da punire, ma semplicemente una scelta che non va occultata e che può avere risultati bellissimi.

La fenomenologia è ovviamente una disciplina grandissima che ci ha insegnato molto: il punto è che qualsiasi disciplina che escluda a priori la possibilità della sua naturalizzazione è una disciplina antiscientifica.

O naturalizzazione o arte!

venerdì 4 giugno 2010

Come Hrundi Bakshi al cesso

Vi ricordate Hrundi Bakshi (Peter Sellers) in quella memorabile scena di The party (Hollywood party), che è il mio film-feticcio? Hrundi va nel bagno della villa e inizia a fare un casino dopo l'altro: gli cade il quadro nel cesso e lo asciuga con la cartaigienica, ma il rotolo inizia a scorrere e non si ferma più e lui guarda in perfetta immobilità indiana il cumulo di carta che si sta formando... Poi mette tutta la carta nel cesso e tira l'acqua, lo sciacquone non si arresta e l'acqua inizia a tracimare dal cesso allagando tutto il bagno, dal quale alla fine Hrundi fuggirà per non essere scoperto dalla cameriera. (Esce dalla finestra, si arrampica sui tetti, scivola e cade epicamente nella piscina).

E da qualche parte Derrida dice di sentirsi talvolta come quei nevrotici ossessivi che si lavano le mani di continuo, solo che lui ha l'impressione di sporcarsele ancor di più, lavandosele.

Quando sto male, io mi sento come Hrundi Bakshi al cesso, tocche le cose e cadono per terra, non cooordino i movimenti, ogni gesto mi sembra difficile, ci sono attimi in cui la catastrofe mi sembra a portata di mano e attendo che il mondo mi crolli addosso tutto assieme.

La sindrome di Stendhal e la professoressa di fisica

Fino al penultimo anno di liceo ero molto bravo in matematica e fisica, ero intuitivo e lavoravo con facilità e soddisfazione. Sentivo che la mia mente mi portava da quella parte e avevo l’intenzione di iscrivermi al corso di laurea in fisica o matematica.
Poi arrivò una professoressa giovane e carina, di cui nemmeno ricordo il nome, e tutto cambiò. La prof era una ragazza alta, carina e molto affettuosa con me, e l’agio con cui ci spiegava fisica e matematica mi conquistò in tempi brevissimi.
Gradualmente la matematica e la fisica persero quella fredda esattezza che prima le contraddistingueva ai miei occhi: non più perfette porte e finestre sull’essere, ora erano incorniciate dalla femminile presenza di lei. Dietro alle equazioni c’era ora la mia speranza di risolverle bene, per lei, e la mia paura di sbagliarle e di apparire ai suoi occhi uno qualsiasi, come i miei compagni, magari volenteroso ma incapace.
Quasi non conservo memoria di nulla di tutto ciò, ma so che è successo davvero, anche se forse nessuno oltre a me potrebbe testimoniarlo.
[continua]

giovedì 3 giugno 2010

Il sesso delle cose (Vogue2)


Pubblicato su Vogue.it


Secondo Mario Perniola non possiamo più distinguere il corpo e gli abiti. La pelle è un tessuto e gli abiti sono una seconda pelle, indistinguibile dalla prima. Anche questo è ciò che Benjamin chiamava “sex-appeal dell’inorganico”. Nel caos postmoderno le cose non hanno più senso ma fanno sesso. “La lingua che mi pervade e mi copre, il sesso che mi penetra e mi indossa, la bocca che mi succhia e mi spoglia, tutto è metafora vestimentale. (…) Le pieghe del sesso femminile non sono diverse dagli affossamenti del tessuto del sedile, la pelle che scorre lungo l’asta del sesso maschile è affine alla fodera del bracciolo: le vesti di carne dei nostri corpi, liberate dal tempo e sospese in un incanto senza attesa, sono l’oggetto di un investimento sessuale infinito ed assoluto che potrebbe sembrare più consono a un sarto, a una modista, a un tappezziere impazziti che ad un filosofo”. Secondo Perniola il filosofo deve proclamare che il regno delle cose è “l’impero di una sessualità senza orgasmo”, neutra, sospesa e artificiale (Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, 1994).

Passioni tristi sciò

Non sopporto le risse: ora che di nuovo sono partiti insulti e minacce di querela non riuscirò nemmeno a leggere la nota di Paolo Melissi che immagino interessante.

Dopo lo scazzo con Gilda Policastro mi ero scusato con lei, in privato, dopo la morte di Sanguineti cui la sapevo molto legata, non certo per il "delirante gruppo" (GP) da me fondato ("Gilda Policastro's academic hearts club band") in seguito agli scazzi con lei, poi secretato (alcuni amici comuni sembravano impazziti dal dolore): era un'idea satirica carina e per nulla infamante, ma in tutta la vicenda mi pareva di essermi lasciato prendere troppo dalle passioni tristi.
Che mi schifano.
E di tutte le passioni tristi mi schifano soprattutto quelle provocatemi dai dissidi innescati a proposito di letteratura.
Come ha detto giustamente Lello Voce (anche con lui, che minacciava "ceffoni" a chi aveva deriso GP, ci siamo chiariti, perché non c'era motivo per insultarsi per nulla): in fondo è solo letteratura del cazzo, no?

giovedì 27 maggio 2010

Piccolo manifesto metaforico per la Sinistra e il Pensiero (in fieri)

Dopo ripetute conversazioni con alcuni esponenti della Sinistra torinese, associazionista e partitica, ho deciso di intervenire a gamba tesa nel dibattito, iniziando a scrivere un piccolo manifesto ("bisogna scrivere documenti!", mi si dice).
La mia convinzione è che la Sinistra non abbia più parole d'ordine, non dico valide, ma di nessun genere.
Abbiamo rinunciato a tutto, anche ai pensieri, e la nostra debolezza pratica deriva dalla nostra inconsistenza teorica.
Voglio che si torni a pensare la politica, senza remore, liberamente prelevando concetti militanti dal corpo della filosofia, delle scienze, della storia e dell'arte, come mi hanno insegnato a fare i migliori filosofi postmoderni: Gilles Deleuze e Jacques Derrida, tra i morti; Alain Badiou e Slavoj Zizek tra i viventi (e Capitini insegna la compresenza dei morti e dei viventi).

Sono uno dei tanti che ha questo desiderio di pensare fuori dai vincoli suicidi delle necessità concrete, dei patteggiamenti, degli apparentamenti, delle strategie e delle tattiche, sempre perdenti e umilianti.
Perché la Sinistra possa respirare, e con essa una nuova società e una nuova umanità, ciascuno di noi deve dare forma espressiva al proprio pensiero politico.
Con tutti i miei limiti teorici e pratici, io comincio.

***

Piccolo manifesto metaforico per la Sinistra e il Pensiero (in fieri)



1) Soggetto politico è il soggetto fedele a certe verità.

2) La triplice verità sintetica della Sinistra è che gli uomini sono liberi, uguali e fraterni.

2.1) Libertà è la verità contraria a ogni tipo di autoritarismo, di destra e di sinistra; Uguaglianza è la verità contraria al capitalismo; Fraternità è la verità dell'empatia e della nonviolenza.

3) Il capitalismo è il falso sistema sociale che ha distrutto libertà, uguaglianza, fraternità.

3.1) Il capitalismo ha distrutto anche l'idea che libertà, uguaglianza, fraternità siano delle verità (o dei valori).

3.2) La Sinistra è anti-capitalista o non è Sinistra.

4) Il capitalismo è il simbolo dell'umanità deietta.

4.1) Il capitalismo non si può riformare ma solo combattere, indebolire, sconfiggere e superare.

5) Anarchia è il nome della Sinistra fedele a libertà, uguaglianza e fraternità.

5.1) Marxismo è il nome della Sinistra che non ha saputo essere fedele alle verità della Sinistra.

5.2) Il Marxismo non è una forma scientifica di pensiero politico, bensì una ottocentesca filosofia idealista e anti-scientifica.

5.3) Seppellire il cadavere del Marxismo, qualunque sia la sua varietà "neo-" e "post-", è una condizione necessaria per una Sinistra pensante.

6) L'Anarchia è l'organizzazione anti-capitalista del futuro dell'umanità.

7) La sintesi di Anarchia e Nonviolenza è il compito della Sinistra del futuro.

8) Se un'umanità degna di questo nome ha un futuro, non può essere che la Sinistra.

9) Il futuro del capitalismo è la morte dell'umanità.

10) Piuttosto che farci distruggere dal capitalismo pensiamo a distruggere il capitalismo.

lunedì 24 maggio 2010

Memorie d'altri tempi. Derrida

Quando andai a Parigi a studiare, per me Derrida non era più il numero uno, tuttavia rimaneva il primo grande filosofo vivente al quale mi ero appassionato in maniera proselitistica.
A Parigi in agosto per iscrivermi al DEA, il primo giorno che mi aggiravo per la città cercando ancora di incontrare Badiou per avere la sua firma sulle scartoffie, camminavo a un certo punto in boulevard Saint Michel, quasi davanti alla Sorbona. Improvvisamente qualcuno starnutì alla mia destra: era Jacques Derrida in persona, che si soffiava il naso in un fazzoletto!
Gli amici filosofi non mi credettero ma sono certo che lo starnutatore di boulevard Saint Michel fosse Derrida.
Il destino mi dava il benvenuto a Parigi in quel modo!

Ripetizione farsesca del fallimento dottorale

Devo ammetterlo, dopo avere fallito il mio primo dottorato (in filosofia, a Paris 8, 2000-2007) inizio a pensare che fallirò anche questo secondo (in scienze cognitive, a Torino, 2009-2012).
Potrò vantarmi di avere fallito per due volte la stessa cosa, e poiché ora ho molte meno aspettative, si invererà ancora una volta il detto marxiano secondo cui la storia si ripete, la prima volta come tragedia la seconda volta come farsa.

venerdì 21 maggio 2010

Memorie d'altri tempi. Maurizio Ferraris

Durante gli anni universitari, dopo Wittgenstein e prima di incontrare Deleuze (lo racconterò), la mia ossessione era Derrida. Mi affascinava ma non lo capivo. Percepivo nei suoi testi una luminosa aura potentissima, percezione certo dovuta all'effetto-guru, che mi faceva arrivare a dubitare della sua natura umana ("ma secondo te, chiesi una volta al compagno di studi, alla sera Derrida si infila anche lui le ciabatte? Mi pare impossibile!").
Dopo qualche tempo scoprii i libri di Maurizio Ferraris, che mi sembravano spiegarmi facilmente Derrida, quasi riducendomelo in formule. Ricordo qualcosa del tipo: "la presenza è un'assenza differente e differita"...
Ferraris mi urbanizzava Derrida, come sapevo che Gadamer aveva fatto con Heidegger (ciononostante leggendo Heidegger non sentivo il bisogno di un'esegesi d'altri che invece Derrida mi provocava).
Così, del tutto insoddisfatto degli insegnamenti pavesi, un giorno mi feci coraggio - non senza avere studiato per un anno a Strasburgo con i derridiani DOC Nancy e Lacoue-Labarthe - e telefonai a Ferraris (avevo cercato il suo numero sull'elenco telefonico).
Alla prima telefonata rispose una donna dall'accento straniero, dicendomi che il professore non era in casa. Alla seconda telefonata rispose Maurizio, molto gentile e dandomi un appuntamento a Torino all'uscita dall'università.
Abitavo ancora a Bra, perciò il giorno dell'appuntamento dovevo svegliarmi e prendere il treno per recarmi all'appuntamento. Misteriosamente la sveglia non suonò e mi ritrovai appena in tempo per tentare di prendere il treno successivo: lo persi, dunque pensai di andare a Torino con l'auto di mia madre, ma appena fuori dalla stazione mi resi conto che l'auto era senza benzina. Piangendo per la disperazione telefonai alla mia ex-fidanzata, spiegandole la mia angoscia e facendomi tranquillizzare da lei. Poi partii alla volta di Torino e arrivai in ritardo all'appuntamento. Ferraris era già ripartito per Milano.
Gli ritelefonai profondendomi in scuse e lui, sempre gentile, mi propose di vederci qualche giorno dopo, a Milano a casa sua.
Mi fece accomodare su una specie di chaise longue, o scomodissima poltrona con dei braccioli mobili e girevoli sui quali non potevo sostentare i gomiti. Bisognava stare eretti con un doloroso sforzo delle reni, il che sminuiva necessariamente la lucidità della mia performance comunicativa.
Gli spiegai che dopo avere studiato Derrida, in Francia avevo scoperto Deleuze e mi ero reso conto che il tema della scrittura poteva costituire un ottimo terreno di confronto tra i due pensatori che - nonstante ciò che si riteneva comunemente - dovevano necessariamente avere parecchio in comune. Tutto stava a trovarlo.
Ferraris mi raccontò che Deleuze non l'aveva conosciuto, ma che di lui Derrida criticava le assurde unghie lasciate crescere a dismisura, arricciate.
Ferraris mi disse che sì certo Derrida e Deleuze erano i massimi filosofi francesi, Lyotard un po' meno, e tuttavia, siccome erano due pensatori enormi e troppo vicini a noi, per confrontarli si sarebbe dovuto fare qualcosa come un détour, un heideggeriano Schritt zurueck ("passo indietro", ma questo lo dico io adesso, Maurizio parlava schietto).
Era il periodo che lui studiava Kant, questo l'avevo capito leggendo i ringraziamenti di certi suoi articoli recenti. In effetti ora so che era il periodo in cui preparava la sua virata anti-ermeneutica e quasi-analitica, che lo avvicinò a filosofi come Casati e Varzi.
Io però non ero per niente soddisfatto del détour propostomi, anche se cercai di non darlo a vedere: Kant non mi piaceva, sapevo che per Deleuze era un nemico, e in ogni caso mi puzzava di grande sgobbata e per giunta inutile.
Io volevo confrontare Deleuze e Derrida, che m'importava di Kant!
Seduto su quella scomodissima poltrona - mentre mi si configurava in mente che le possibilità di fare una tesi con Ferraris si riducevano col succedersi degli istanti - a un certo punto per darmi un contegno mi tirai leggermente su, inarcando faticosamente le vertebre lombari e feci, con nonchalance: "dovrò andare in caccia dei testi nei quali Deleuze e Derrida parlano di Kant".
Anziché scomporsi per la mia espressione neologistica ("andare in caccia"), Ferraris la ripeté facendola sua: "ecco, bravo, lei vada pure in caccia di quei testi e poi...".
Non lo disse per sfottermi, ma per quell'istinto mimetico immediato che contraddistingue Maurizio, qualcosa che lo rende elocutivamente spregiudicato e anche libero, fantasioso e piuttosto divertente, qunado non francamente brillante.
Nonostante la mia goffaggine, che secondo me mi rendeva un laureando del tutto improbabile, Maurizio mi regalò il suo nuovo libro, L'immaginazione, primo di una serie abbastanza lunga di libri ricevuti da lui.
In cambio, io non mi sono poi laureato con lui, e per giunta ho potuto soltanto fargli dono di Narradiohead.
Ignoro se Maurizio l'abbia letto e che cosa ne abbia pensato e non glielo chiederò mai.

Facebook Therapy (FB&filosofia)

Secondo Freud, si sa, l'analisi è interminabile, eppure prima o poi termina (tranne che nel caso di Woody Allen) semplicemente a causa della finitezza delle nostre vite, e per ragioni pratiche, di soldi, tempo e accettabilità del raggiunto livello di analisi.

La frequentazione di Facebook presenta un'analogia con la terapia psicoanalitica: è pensabile che un giorno si smetterà di frequentarlo, quando ne saremo abbastanza appagati, e abbastanza sicuri di non potere fare nessuna nuova esperienza.
In principio si può stare su Facebook per tutta la vita, ma da un punto di vista pratico è sensato presupporre che arriverà il giorno di dire addio agli amici di FB.

***

Nel passare dalle note su FB ai post di questo blog, mi rendo conto che quassù manca il pulsante "mi piace", e che questa mancanza mi fa desiderare meno di postare i miei pensieri.
Mi rendo conto che HO BISOGNO di quei piccoli feedback che mi arrivano ogni volta che posto qualcosa su FB. Mi rendo anzi conto che FB è fatta esattamente di quello, che senza quei piccoli atti di comunicazione non vivrebbe affatto.
Il punto è che sul blog non hai questi piccoli feedback del tutto non impegnativi: gli eventuali lettori potrebbero al massimo scrivere un commento, che però richiede un impegno maggiore.
Il fatto stesso che un blog si debba "andare a leggerlo" fa la differenza rispetto a FB: lì ci sono le notifiche che in maniera un po' random espongono l'utente a un flusso di eventi testuali e multimediali.
Su FB non bisogna impegnarsi per fare una scelta positiva ("vado a leggere il blog di Acotto") ma semplicmente cliccare se si vuole dare un'occhiata anche solo di sfuggita, oppure non cliccare se l'evento postato da qualche amico di FB, magari un simpatico sconosciuto, non sembra per nulla interessante.

***

Nella terapia di gruppo il terapeuta interviene quando tutto rischia di esplodere, tiene le redini del gruppo, rintuzza e dà torto o ragione, mette ognuno al suo posto.
Su FB ci si può soltanto affidare al grande Altro di cui parla Lacan, l'istanza superiore sintetica che però non esiste realmente ma solo nell'Immaginario.
Litigare su FB è particolarmente impoverente perché alla fine nessun grande Altro interviene a darti alcun segno, e a lite terminata ti senti più solo di prima.

L'errore di quelli che guardano a FB come se fosse un laboratorio artistico e letterario, è dimenticare che si tratta innanzitutto di un laboratorio psicologico.

***

Quando si fa una terapia di gruppo, le persone che compongono il gruppo diventano "persone fidate", se non proprio grate: sai che ci saranno sempre, o almeno per un bel po', che potrai sempre confrontarti con loro, in positivo e in negativo, attivamente o passivamente, almeno finché tu o loro non deciderete di abbandonare il gruppo e la terapia (cosa che in ogni caso avviene discutendone NEL GRUPPO).
Su FB, invece, le amicizie, alleanze e consorterie, non sono mai sicure, ma piuttosto tendono a una certa spettralità, sono evanescenti, possono scomparire di botto e da un giorno all'altro uno può avere l'impressione di essersi fino ad allora confidato con i mulini a vento.

mercoledì 19 maggio 2010

Interpretanti e Trasformatori, 1. Intellettuali che vogliono educare il pubblico


"The current populations of academicians, intellectuals, and experts in the social sciences and humanities are by and large ill-equipped to undertake the collective task of revolutionizing our knowledge structures." (D. Harvey)

L’opposizione marxiana interpretare/trasformare può essere utile per classificare gli intellettuali italiani odierni.
Alcuni, grosso modo i debolisti, si accontentano di INTERPRETARE il Testo generale; possono essere in buona fede ("non c'è altro da fare"!) e speranzosi che una buona pratica ermeneutica potrà indebolire le violente strutture metafische su cui si fonda l'Occidente e il suo potere.
Gli altri vogliono invece TRASFORMARE la realtà sociale e sono per lo più post- o neo-marxisti, con qualche rara e luminosa eccezione (Goffredo Fofi, vicino alla nonviolenza capitiniana ed esponente di una forma di socialismo libertario per certi versi vicina a qualche varietà di anarchismo).
In generale, i Trasformatori sono convinti del chiasma teoria-prassi, e più genericamente della connessione tra pensiero e azione (culturale e sociale): essi si autointerpretano generosamente come attori sociali dotati di un effettivo potere.
Tra coloro che vogliono trasformare, si potrebbe operare un’ulteriore distinzione: da una parte vi sono coloro che mirano a modificare in meglio la realtà sociale, il “popolo” e il “pubblico”; dall'altra parte ci sono coloro che, più umilmente e realisticamente, sanno di potere tutt'al più modificare alcune rappresentazioni mentali degli stessi intellettuali, partendo dunque da sé come gruppo sociale dotato di potenzialità uniformi e sperando che una trasformazione maggioritaria del proprio gruppo professionale possa renderlo complessivamente più attivo dal punto di vista sociale.

Chi vuole trasformare popolo e pubblico lamenterà la cattiveria dell’industria culturale, disprezzerà i libri di successo (e i loro autori, considerati talvolta quasi alla stregua di squallidi traditori) e invocherà un'avanguardia culturale che possa incidere buoni segni sulla tabula rasa della mente comune, egemonizzata dal mercato spettacolare.
Si tratta ovviamente di una forma di culturalismo (la mente è inizialmente vuota e solo la la cultura la riempirebbe di pensieri) che assume le fattezze di un vero e proprio leninismo culturale, fondato sul mito dell'avanguardia che forza la storia e impone la giusta linea di condotta alle masse.
Dopo i tragici e sublimi Anni Settanta e il fallimento delle facili utopie fondate sull'erronea visione della mente-tabula rasa (l'educazione può tutto, un giorno la dodecafonia sarà la musica del popolo e l'espressionismo astratto il genere di pittura preferito dalle famiglie) la realtà sociale ha già risposto al culturalismo seppellendolo con un'amara gran risata.
A questi compagni che sbagliano, i Trasformatori che persistono nell'errore culturalista, temo che la società riserverà per congedo un altro genere di manifestazione corporea, di tipo più bachtinianamente comico.